N.05
Settembre/Ottobre 1999

Il Giubileo dono di Dio all’uomo e risposta dell’uomo a Dio

La dettagliata regolazione dell’anno giubilare proposta nel “codice di santità” del Levitico (cfr. Lv 25,8-55), è abitualmente richiamata e letta in connessione con la proclamazione di Gesù dell’anno di grazia del Signore (cfr. Lc 4,14-30) che viene a compiersi nella sua persona, per comprendere alcuni elementi che devono sostanziare la celebrazione del Giubileo cristiano. Scopo di questo contributo è di raccogliere alcune di queste provocazioni riconducendole alla loro prospettiva di fondo, segnalata in particolare dalla dinamica del testo del Levitico, per rileggerle nell’ottica vocazionale dell’offerta del dono di Dio aperto alla riconoscenza e alla risposta dell’uomo.

Il punto focale del testo del Levitico è di riprendere, dentro la celebrazione dell’anno giubilare, l’intera prospettiva della rivelazione di Dio e del suo riconoscimento come dono per l’uomo che resta aperto alla possibilità di riconoscenza e di risposta. In particolare dentro l’esperienza del Giubileo di Israele vengono a fondersi le due prospettive teologiche che attraversano la rivelazione veterotestamentaria: quella della creazione e quella della liberazione. Alla prima si rifà il tema della proclamazione del tempo del Giubileo modellato sullo schema settenario che riprende il racconto della creazione e il suo culminare nel tempo vuoto, quello del riposo di Dio, riempito da parte dell’uomo della riconoscenza dell’azione del creatore che guida la storia ed il mondo. In questa prospettiva, tutte le “utopie” giubilari vengono ad assumere il significato della proclamazione del primato di Dio e del suo agire per dare ordine e struttura alla creazione. Celebrare il Giubileo nella sua vita così, rappresenta per l’uomo una profonda presa di coscienza della sua dipendenza creaturale da cui condurre sensatamente la propria esistenza di ogni giorno.

Al mistero della liberazione fa riferimento parimenti la prescrizione giubilare, nella sua dettagliata regolamentazione sul riposo della terra, sul rispetto delle proprietà e sulla liberazione dalla schiavitù. Per Israele diventa impreteribile non dimenticare di essere un popolo la cui identità non è stata conquistata, ma elargita, nell’esodo, dall’intervento libero di elezione di Dio che ha donato ai suoi capostipiti di essere liberi nella terra da lui preparata. Celebrare il Giubileo significa così, riconoscersi dentro questa storia di libertà e di elezione e modellare la propria vita come risposta riconoscente ed accogliente per ogni dono di Dio.

Più radicalmente è in gioco la struttura di fondo che regola l’intera disposizione del codice legislativo del Levitico, compendiata nell’invito alla santità (“Siate santi perché io il Signore Dio sono santo”) come espressione di una radicale separazione dall’idolatria per riconoscere la presenza viva di Dio nell’esistenza: una separazione che diventa fonte della presa di coscienza della propria originalità. Dentro questo quadro di riferimento possiamo rileggere alcuni elementi per mostrare la dinamica soggiacente: quella dell’accoglienza riconoscente dell’agire di Dio come dono buono della vita e capace di aprirla alla risposta di fedeltà.

 

“Conterai sette settimane di anni…”: il Giubileo nel mistero del tempo

Celebrare il Giubileo come offerta del dono di Dio per l’uomo significa interrogarsi sul mistero del tempo. La ciclicità codificata dell’anno giubilare che riporta, secondo il testo del Levitico, al mistero degli inizi della creazione e della salvezza è un invito per ogni uomo a fare opera di discernimento sulla propria vita, su quei passaggi, su quelle modulazioni e decisioni che si sono sedimentate e che costituiscono, nel bene o nel male, la propria biografia. Assumere il tempo nella prospettiva giubilare significa ancora riconoscere che accanto alla distensione cronologica dell’esistenza, se ne colloca una più profonda: quella dell’intreccio della propria vita con il kairos di Dio che viene incontro all’uomo. Rileggere la storia della propria vita come inserita nella storia della salvezza diventa così un momento di intensa spiritualità giubilare. La celebre riflessione di Agostino (cfr. Confessioni, XI, 14-15; 29-39) che coglie il tempo nel suo spessore psicologico, nel suo essere determinato dalla distensione, dalla dilatazione dell’anima che nel proprio presente opera il ricordo del passato e l’attesa per il futuro, può essere a questo riguardo particolarmente stimolante. Il ricordo, infatti, è un atto in cui si esprime tutto l’uomo, non può essere ricondotto ad una semplice operazione di memoria intellettuale, perché in esso emerge il significato del passato riletto attraverso la condizione attuale della persona. Nel ricordo può affiorare la riconoscenza per il dono di Dio che spesso esige, più che il suo immediato riconoscimento, questa delicata operazione che porta l’uomo a soppesare con attenzione il senso della propria vita immerso nel fluire del tempo. Parimenti l’attesa per il futuro, percepita dentro l’irrompere del presente, è carica di una prospettiva ben diversa da quella che tende a leggere l’esistenza come concatenazione necessaria di cause ed effetti, ma impone di vedere in essa l’emergere dell’imprevedibile, della creatività propria di Dio nel suo proporsi nella trama del vissuto personale. L’aprirsi a questa attesa non significa però dimenticare la dimensione della responsabilità personale che sta davanti all’uomo e al suo agire. Il dono di Dio non è da vivere come un aspetto che sottrae l’uomo dall’impegno di gestire responsabilmente l’esistenza. Entrare nell’ambito della responsabilità del resto significa pensare all’uomo come colui che comprende la propria vita come risposta, come atto di risposta grata al dono stesso dell’esistere, per riconoscere che l’inizio della propria biografia è contrassegnata da un atto gratuito di Dio che chiama all’esistenza in modo libero e sorprendente.

Entrare nel tempo del Giubileo significa così rileggere la propria vita nello specchio di Dio e come aperta alla responsabilità e alla riconoscenza dei passaggi di Dio nell’esistenza di ciascuno per riscoprirne quelle dimensioni che sfuggono nella consumazione degli attimi che si sovrappongono, non di rado rendendo opaca la sua trasparente verità: quella di una vita donata che apre la persona al dono di se stessa.

 

“Nessuno di voi danneggi il fratello”: il Giubileo e l’antropologia della reciprocità e della condivisione

Le prescrizioni giubilari, se ricomprese alla luce della logica di fondo che le anima, indirizzano ad una presa di coscienza dell’uomo e di quelle relazioni che fondano la propria esistenza non come espressione di un possesso egoistico di sé e di contrapposizione nei confronti dell’altro, ma attraverso la plasmazione di rapporti interpersonali ispirati alla reciprocità e alla condivisione. “Nessuno di voi danneggi il fratello” la limpida affermazione del testo del Levitico, risuona, così, come un invito, al di là del comportamento particolare, ad una riscoperta del legame costitutivo degli uomini. Nella prospettiva biblica l’identità personale non è frutto di orgogliosa affermazione, ma avviene attraverso l’incontro con l’altro. L’altro così non diventa il semplice limite della propria libertà, ma l’occasione ineludibile per scoprire la stessa realtà personale, quella di un essere in relazione e che, proprio attraverso di essa, giunge a sciogliere il mistero della propria esistenza. Il Giubileo può così diventare l’occasione per scoprire questa reciprocità alla base dell’essere dell’uomo, a cominciare da quella relazione fondamentale, quella con Dio, che dona all’uomo la consistenza della propria esistenza. Esistere così significa essere guardati attraverso l’altro, riconosciuti da lui e capaci di riconoscere in lui più profondamente se stessi. Esistere è donare, attraverso di noi, la piena identità dell’altro, senza pretendere di ridurlo a se stessi, ma sapendo percepire, insieme al legame profondo, anche l’irriducibilità dell’altro alla mia misura e al mio dominio.

È la prospettiva della prossimità che ci viene incontro in modo trasversale attraverso il testo biblico, una prospettiva che si impone anche per il nostro tempo ad un’attenta operazione di comprensione e di decodificazione. In particolare esige da parte dell’uomo un passaggio fondamentale, più volte esemplificato, dall’antropologia dello scambio e della competizione, di tipo mercantilistico ad un’antropologia del dono[1]. Nella prima linea l’approccio all’altro appare mediato dalla prestazione in funzione della propria affermazione, spesso a discapito dell’altro, della gestione di un rapporto di potere sull’altro e fondamentalmente dalla ricerca di garanzia sulla propria vita e sul proprio possesso. La volontà di piegare l’altro in modo utilitaristico a sé attraversa anche lo strutturarsi dei più ampi tessuti relazionali della persona: da quelli maggiormente gestiti dalla società fino a quelli più intimi dell’amore e dell’affettività. Nella logica, invece, dell’antropologia del dono emerge con nitida evidenza come grazie ad esso e attraverso la sua continuità la persona giunge a determinarsi e a plasmare in modo fecondo la struttura più minuta delle sue relazioni quotidiane. L’uomo, infatti, accede alla comprensione di sé attraverso le forme originarie dell’amore incondizionato che segnano le prime relazioni e il suo stesso essere accolto nel mondo. “L’esistenza – afferma in modo significativo Roberto Mancini – può essere colta come la condizione del provenire da una donazione originaria e come un cammino inscritto nella catena comunicativa degli atti liberamente oblativi senza la quale la vita umana sarebbe già cessata”. Il dono in questa prospettiva si viene a precisare come il “darsi di un valore indipendente dalla nostra prassi, il quale si delinea nell’atto del donare”[2]. L’esistenza donata, che unifica ogni uomo, è la radice della dignità di ciascuno, che non scaturisce da un’attribuzione estranea, da un codice prestabilito, ma viene scoperta proprio a partire dal nostro essere creature raggiunte e plasmate dal dono della vita che ci ha preceduto. Entrare in questa prospettiva significa pensare l’esistenza degli uomini come condivisione della vita che diventa il riconoscimento pieno del nostro essere. L’utopia giubilare del Levitico, così, indirizza verso questa consapevolezza da acquisire che riporta l’uomo all’origine di sé: quella appunto di essere espressione di un dono e che impone il riconoscimento di esso nella vita di ciascuno e nel prossimo.

Questo passaggio dall’etica dello scambio all’etica del dono può essere così un punto qualificante un percorso personale nell’anno giubilare. Tale percorso ha come punto di innesto l’impegno a ritornare sulle proprie esperienze, anche quelle fallimentari, di gratuità ricevuta ed offerta, per giungere ad una percezione più consapevole della propria come dell’altrui libertà, per comprendere il valore incommensurabile dell’uomo, al di là delle operazioni astratte e delle affermazioni retoriche che attraversano la nostra cultura contemporanea.

Dentro quest’ottica particolare del dono trova un suo spessore anche la dimensione del perdono, connessa alla stessa economia del tempo giubilare. Il perdono esprime la ferma e decisa volontà di ricominciare con l’altro proprio a partire dall’intensificazione del dono fatto all’altro di una possibilità ulteriore. Il perdonare è un’azione che tocca profondamente l’uomo rendendolo consapevole del suo passato, come momento in cui si è consumata la lacerazione, e che ha generato il desiderio di riaprire la strada dell’incontro risanante con lui. Solo il perdono può generare futuro, senza immobilizzare il rapporto tra le persone nella circolarità della violenza subita e restituita, ma aprendolo a nuove prospettive di evoluzione in cui risanare l’opposizione tra offensore ed offeso.

 

“Non farete né semina, né mietitura…ciascuno ritornerà in possesso del suo”: gli elementi di un agire giubilare

Gli altri elementi nei quali trova espressione il tempo dell’anno giubilare, ed in particolare il tema del riposo della creazione, della restituzione alla proprietà originaria delle terre e delle case e l’affrancamento dalla schiavitù trovano un loro efficace quadro di comprensione dentro i valori che sono stati seppur sommariamente abbozzati: quelli della proclamazione del tempo di Dio che riporta l’uomo all’origine della sua creazione e della sua liberazione e quello dell’antropologia del dono. Queste disposizioni, forse più ideali che reali e non corrispondenti all’effettiva pratica dell’Israele storico, sono così da assumere come ulteriori aspetti che specificano la collocazione dell’uomo dentro il tempo della grazia di Dio.

In particolare il primo, quello del riposo della terra, pone in modo limpido l’idea che la terra è stata data all’uomo con tutto ciò che è necessario al suo sostentamento: non può diventare oggetto di sfruttamento scriteriato e di impoverimento delle sue risorse che sono destinate a tutti gli uomini. Il rapporto dell’uomo con la terra, così non è da pensare come dominio indiscriminato, ma impone il riconoscimento del senso dell’azione da lui compiuta sulla creazione. Si tratta di riconoscere in essa un dono e un elemento di cui egli è parte, pur nell’esercizio della propria responsabilità perché la terra possa diventare un luogo abitabile per ogni uomo. Riprendere questa immagine nel tempo del Giubileo potrà diventare uno stimolo non solo ad accostarci al problema ecologico, visto come problema tecnico di ripartizione di risorse e di rischi per il futuro del pianeta, ma più profondamente per maturare quella ecologia dello spirito, che rappresenta la viva percezione di esistere in un rapporto con la realtà creata che discende dal rapporto fondante dell’uomo con Dio. È la maturazione di un corretto atteggiamento di creaturalità alla base anche di questo atteggiamento di ecologia spirituale. Dentro di esso si comprende anche il tema della festa, del riposo, della capacità di godere dei beni della terra per il tempo della libertà dell’uomo. Questo profondo contatto con la realtà creata rappresenta anche una salutare presa di coscienza della solidarietà che lega ogni uomo con questa generazione e con quelle che grazie all’esercizio della nostra responsabilità si affacceranno sul pianeta nel prossimo futuro.

L’attenzione al tema della restituzione della terra e delle case alla proprietà originaria, come il tema del condono dei debiti fonte della riduzione in schiavitù degli esseri umani è parimenti da assumere dentro la prospettiva di fondo segnalata e viene, così, ad indicare l’attenzione che ogni uomo deve avere per salvaguardare, difendere e tutelare, accanto alla propria dignità, quella di ogni uomo. Tale indicazione viene a concretizzare l’antropologia del dono sommariamente delineata e segnala come la dignità dell’uomo non sia da distinguere dalla possibilità di accedere a quei beni necessari per la propria vita. Il grido di liberazione di Dio nell’epopea dell’Esodo: “sarete liberi nella vostra terra” diventa, così, un pressante invito a superare ogni forma di sperequazione e di indebito dominio di un uomo sull’altro.

Questi aspetti non solo segnalano alcuni importanti capitoli di una riflessione etica sulla società che tuttavia possono diventare facilmente utopistici e fatalmente venire a cadere dentro gli ingranaggi di un’economia e di una struttura sociale che ha definito la sue regole a prescindere da un’attenzione generalizzata al rispetto della dignità della persona. Per la prospettiva di questo studio vengono, piuttosto, a segnalare un’importante provocazione anche per la prospettiva vocazionale. Interrogarsi sul proprio tempo, sulla qualità della propria relazione con Dio, sulla capacità di comprendere alla base della vita la logica del dono che richiede una risposta da parte dell’uomo, significa altresì interrogarsi sulla storicità di questa risposta che non può vivere nella pura intenzionalità personale, ma che necessita di essere incarnata e verificata nelle scelte di ciascuno. L’attenzione per la sobrietà nel ricorrere ai beni della creazione, la cura per creare rapporti interpersonali sempre più allargati nell’ottica della solidarietà e della prossimità, la scelta di rispettare la dignità di ogni persona sono espressioni della più ampia responsabilità umana per il dono di Dio, sono risposte che, pur se parziali, portano ad evitare i pericolosi riduzionismi di una spiritualità disincarnata e dimentica che un vero e sincero rapporto con Dio non ci astrae dalla storia ma ci ricolloca in essa per assumerne la nostra personale responsabilità, per esercitare quel discernimento cristiano che rende ciascuno consapevole dell’altezza della chiamata, ma anche dell’umiltà della risposta personale che plasma atteggiamenti ed azioni di ogni giorno.

Solo in questa prospettiva l’immagine della santità che sorregge l’intero libro del Levitico potrà essere compresa in modo meno superficiale. Se da una parte essa segnala l’assoluta trascendenza di Dio, la sua separazione da ogni compromesso e male del mondo, dall’altra, soprattutto se riletta nella prospettiva cristiana della perfezione proposta nel discorso della montagna, diventa l’espressione dell’integrità della risposta del dono di sé dell’uomo a Dio che in modo integro e totale a lui si è donato perché la sua vita si apra nell’amore e maturi il frutto pieno della sua umanità.

 

 

 

Note

[1] Cfr. R. MANCINI, Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella, Assisi 1996; J. T. GODBOUT, L’esperienza del dono. Nella famiglia e con gli estranei, “Servizio sociale, 10”, Liguori, Napoli 1998. Per una lettura più ampia di alcuni valori etico-spirituali dell’antropologia della reciprocità e per un allargamento di questa prospettiva si rimanda a: G. PIANA, Sapienza e vita quotidiana. Itinerario etico spirituale, “Alia, 11”, Interlinea, Novara 1999.

[2] R. MANCINI, Esistenza…, pp. 24-25.