La cultura vocazionale, fermento e anima del progetto culturale della Chiesa italiana
PREMESSA: TRA PROGETTO CULTURALE
E GIUBILEO …VOCAZIONALE
Il titolo della presente relazione è già un’affermazione precisa e perentoria che potremmo addirittura considerare conclusiva del nostro discorso. Essa esprime la convinzione di tutti noi qui presenti, la convinzione, appunto, che la cultura vocazionale (CV) debba essere fermento e anima del progetto culturale (PC) della Chiesa italiana; ma esprime forse ancor più il desiderio che davvero sia così, visto che il progetto è ancora in via di definizione (e, secondo qualcuno, sarebbe quasi un “oggetto misterioso”[1]).
Altro punto di riferimento non solo della nostra conversazione, ma dell’intero convegno, è il Giubileo che ci apprestiamo a celebrare, quello che c’introdurrà nel nuovo millennio, e che per esser davvero anno di grazia e di rinnovata vita cristiana dovrà essere anche Giubileo vocazionale, giubileo che mette al centro la scoperta e il discernimento della vocazione personale. Progetto e Giubileo hanno senz’altro dei punti in comune: forse a partire proprio dall’idea di vocazione e di cultura della vocazione.
CULTURA VOCAZIONALE E
PROGETTO CULTURALE
L’espressione-chiave: “cultura vocazionale”
Non abbiamo certamente bisogno di definire cosa sia la vocazione, ma di ribadire, semmai, che oggi il problema non è la vocazione, o la teologia della vocazione o il suo significato a livello antropologico, ma la cultura della vocazione, o che il concetto di vocazione divenga cultura, cultura ecclesiale, anzitutto, componente essenziale del modo abituale di pensare la vita e accogliere la salvezza, di definire l’identità e progettare il futuro del credente, al punto che la cultura o il PC della chiesa, e della chiesa italiana, non solo accolga il concetto o una certa sensibilità vocazionale (qualcuno potrebbe già ritenersi soddisfatto), ma finisca per essere progetto vocazionale, piano, cioè, profondamente animato dalla logica vocazionale; e infine che sia capace di “esportare” tale logica, di esprimerla con un linguaggio accessibile all’uomo d’oggi, capace di scuoterlo e interessarlo, di proporre una fede come sapienza di vita che interpella e pro-voca la coscienza anche laica “chiamando” tutti ad assumere un atteggiamento libero e responsabile di fronte alla vita e alla prospettiva di salvezza.
Sono i tre passaggi strategici in qualche modo implicati dal nostro titolo e che potremmo sintetizzare così: dall’Animazione Vocazionale, un po’ mercantile ed episodica, improvvisata e leggera, alla Cultura Vocazionale ecclesiale, ben motivata e organica; dalla cultura vocazionale ecclesiale al Progetto culturale Vocazionale, che definisce una prassi corrispondente; da questo alla Cultura Antropologica della Vocazione anche su un piano laico, quasi un’inculturazione vocazionale della mentalità laica e secolare. Allora sarebbe davvero un “giubileo vocazionale”, come una coscienza nuova d’un cristianesimo forse per molti inedito, un cristianesimo che Bonhoeffer avrebbe chiamato adulto e che senz’altro fa vivere da “adulti nella fede”, come una nuova evangelizzazione che fa riscoprire certi valori, ma soprattutto – come vedremo – quello del valore della vita e del posto unico-singolo-irripetibile del singolo essere umano e del mistero della sua libertà e responsabilità. Detto ancora diversamente: si tratta di passare dalla creazione d’una CV intraecclesiale, alla creazione d’una CV extraecclesiale, o comunque dicibile in termini secolari, e questo proprio perché questa è la natura del PC della chiesa italiana, fare una proposta che arrivi alla società e alla cultura circostanti. Se finora abbiamo lavorato nel primo senso, cercando di favorire una sensibilità vocazionale nella coscienza ecclesiale, forse ora è il caso di passare al secondo, e non perché si sia esaurita la prima fase (molti senz’altro hanno motivi per ritenere il contrario), ma perché con l’operazione del PC la chiesa intende presentarsi al mondo, confessare le ragioni della sua speranza, dare il suo specifico contributo di umanità alla storia, complessa e confusa, a volte drammatica e disorientante, degli uomini e donne del nostro tempo.
Ci muoviamo all’interno di queste prospettive, ma non all’interno d’una disputa intraecclesiale tra lettori di Pastorale da Sacrestia più o meno rivendicativa e magari post-adolescenziale. Vogliamo esplicitamente uscirne per portare la logica e la ricchezza del discorso vocazionale sulle strade della vita di tutti. Perché crediamo che, se la vocazione non diventa cultura, mancherebbe qualcosa a questa autopresentazione della chiesa; perché diversamente la vocazione resta un’eccezione per pochi chiamanti e meno ancora chiamati, troppo isolati o strani per esser credibili e divenire modello per tutti; se la cultura ecclesiale non diventa vocazionale, e non viene recepita come tale non solo dentro ma anche fuori della chiesa, non è cultura cristiana, ma ideologia, rassicurante e qualunquista come tanta banale paccottiglia pseudoreligiosa in vendita sull’attuale mercatino religioso dell’usato sempre più rottamato e riciclato (vedi, quale esempio per tutti, la New Age) che è la più grande operazione di rottamazione del secolo. È proprio questo rapporto tra vocazione e cultura che deve diventare organico e strutturale.
Dal fare pastorale (vocazionale) al fare cultura (vocazionale)
La cultura, infatti, secondo l’espressione di Giovanni Paolo II, è l’ethos di un popolo[2]; cultura è l’insieme di valori, modelli e istituzioni che costituiscono il tessuto dell’esperienza quotidiana di ogni persona[3] e d’una comunità di persone (come può essere una nazione, un’istituzione religiosa, una fede, una ideologia o corrente filosofica, un partito politico, ma anche una tradizione, con la sua storia e la sua … geografia ecc., con relative radici e appartenenze). O, ancor più nel dettaglio, cultura è “il processo mediante il quale in un dato gruppo sociale il linguaggio, le credenze, le idee, i gusti estetici, le conoscenze, le capacità, i vari tipi di usi passano (ed uso questo verbo perché ‘tradizione’ significa ‘passare, trasmettere’) da una persona all’altra”[4]. Nella formazione di tale cultura entrano vari elementi, in parte ricevuti dall’ambiente esterno (fin dal primo giorno di vita), in parte acquisiti tramite l’esperienza personale; ogni cultura s’esprime poi attraverso atteggiamenti corrispondenti. In definitiva il concetto di cultura è molto legato al concetto di identità.
In ogni caso ciò che non entra nella cultura o che non diventa cultura è destinato a smarrirsi e divenire insignificante, come è successo negli ultimi decenni al concetto di vocazione, praticamente estromesso dal vocabolario della lingua parlata e dei valori correnti in ambito civile, e forse ancora emarginato o troppo defilato perfino nella nostra attuale cultura ecclesiale; così com’è anche vero che una cultura, laica o ecclesiale, che non sia vocazionale è subito smarrita e insignificante, e produce esseri che rischiano di perdere il senso della loro esistenza. Questa, almeno, è la nostra tesi e convinzione.
Scelte e progetti della chiesa italiana negli ultimi decenni
“La chiesa italiana sta prendendo più chiara coscienza che il nostro non è il tempo di semplice conservazione dell’esistente, ma della missione, ispirata dall’amore indiviso verso Dio e verso il prossimo”: così Giovanni Paolo II nel discorso d’apertura del convegno di Palermo (1995). “Infatti, se la missione della chiesa è quella di annunciare il Vangelo della carità a tutti, affinché dappertutto si instauri la ‘civiltà dell’amore’, essa deve andare ben oltre il compito del pietoso Samaritano – che tuttavia resta necessario per i tanti casi di emergenza – e puntare con rinnovato slancio verso il compito della buona samaritanità organica e culturale, in grado cioè di ‘rinnovare la fisiologia della vita sociale’. Per cui, dopo la scelta religiosa del primo convegno ecclesiale (Roma 1976) e la scelta etica del secondo (Loreto 1985), il terzo convegno (Palermo 1995) ha fatto propria la scelta culturale in forza della quale oggi la ‘nuova evangelizzazione’ della chiesa italiana si qualifica come ‘missione culturale’, che ‘riparte da Dio e dall’uomo’”[5]… Detto diversamente, prima c’è stata la scelta di ribadire la propria identità (la scelta religiosa), poi quella di affermare il primato della carità, e infine la scelta di ridire in termini nuovi e comprensibili, in un contesto sociale-culturale che s’è progressivamente allontanato da un orizzonte cristiano, i valori centrali della buona novella della fede; quasi un tentativo di operare una sintesi tra questi valori centrali (religiosi e sociali, a volte ancora sottilmente contrapposti). Con l’alternativa finale o di risalire la china della modernità atea, o di correre il rischio di perdere anche gli “ultimi resti umanistico-cristiani”, nonostante tutto ancora presenti in questa tarda modernità (dunque con un’alta posta in palio). “La fine della modernità infatti è segnata da molteplici luci e ombre su cui bisogna riflettere, affinché il discernimento teologico-pastorale …porti i migliori frutti sperati. Tanto per esemplificare: se da un lato si allarga la forbice tra messaggio cristiano e modi di vivere della gente, d’altro lato c’è tuttavia un promettente (benché ambiguo) interrogarsi – negli ‘orfani della modernità’ e dopo il crollo delle grandi ‘meta-narrazioni ideologiche’ – circa il senso della vita in genere e della religione/spiritualità in particolare”[6].
Il PC Vocazionale può e vuole inserirsi nella dinamica di questo percorso storico e di questa interrogazione dello spirito moderno, poiché la vocazione o la logica vocazionale, sosteniamo noi, potrebbe svolgere – da un lato – il ruolo di sintesi, di elemento unificatore tra la proposta religiosa e quella filantropico-sociale, o tra il principio monastico e quello domestico[7] e – dall’altro – potrebbe offrire una risposta addirittura, a quella domanda di senso così radicata ed evidente nell’attuale cultura. Come ben dice il documento conclusivo del Congresso europeo sulle vocazioni, “proprio questa domanda e questo desiderio (di verità) fanno nascere un’autentica cultura della vocazione; e se domanda e desiderio sono nel cuore d’ogni uomo, anche di chi li nega, allora questa cultura vocazionale potrebbe diventare una sorta di terreno comune ove la coscienza credente incontra la coscienza laica e con essa si confronta. Ad essa donerà con generosità e trasparenza quella sapienza che ha ricevuto dall’alto”[8]. È proprio questo incontro l’obiettivo finale del nostro riflettere in questo momento e del nostro agire in quanto “operatori vocazionali”.
“Anima” e “fermento”
In senso del rapporto tra CV e PC è ben definito nel titolo della nostra relazione: la CV è chiamata a essere “anima e fermento” del PC della chiesa italiana e, in prospettiva, abbiamo ora specificato, della società civile italiana. Dunque, nessuna egemonia o pretesa di monopolizzare i programmi e i progetti, la CV dovrebbe essere principio ispiratore, chiave di lettura, quasi più una modalità di lettura del PC che non una questione di contenuti; senza, però, al tempo stesso, dare nulla per scontato né temere di esplicitare la prospettiva vocazionale come termine naturale di confronto d’ogni esistenza credente. D’altro canto, dice la Nota pastorale CEI dopo Palermo, lo stesso PC “non coltiva pretese di egemonia, ma vuole rendere socio-culturalmente rilevante il messaggio evangelico e dare così un valido contributo al futuro del Paese”[9]. La pastorale vocazionale s’inserisce in questa logica, vuole dare il suo contributo per rendere “socio-culturalmente rilevante” il vangelo di Gesù, nella convinzione di avere qualcosa d’importante da dire per il bene di questa società, per il futuro dei nostri giovani.
Ciò implica anche un preciso metodo nella elaborazione di questo PC, il quale non potrà che essere la risultante di vari contributi di diversi agenti e soggetti ecclesiali, come dice ancora la Nota pastorale CEI: “il progetto non è una sintesi dottrinale organica e completa fin dall’inizio, ma un processo di formazione e di animazione prolungato nel tempo, che si sviluppa secondo la dinamica del discernimento comunitario”[10]. Proprio il discernimento comunitario costituisce allora il metodo tipico di elaborazione del PC, attraverso una rete di vivace coinvolgimento delle e nelle comunità cristiane e, d’altra parte, attraverso la promozione d’una cultura della reciprocità comunionale, indispensabile per “rianimare” gli organismi di partecipazione, che sono luoghi “naturali” dove il discernimento va coltivato e praticato. Questo nostro convegno è uno di questi luoghi.
Allora la pastorale vocazionale deve in certo senso uscire da quel tale complesso d’inferiorità che forse ancora avverte rispetto ad altri settori della pastorale ecclesiale, e credere fermamente non solo nella originalità del suo apporto, ma pure nel disegno ispirato, biblico-teologico che la sorregge e motiva; ma deve uscire pure da quella strana situazione d’estraneità in cui essa stessa sembra a volte andare a cacciarsi rispetto alla cultura o alla mentalità attuale, quando la sua proposta non riesce a … varcare la soglia del tempio, quando non sa uscire da uno schema vocazionale chiuso e a … uscita (o “entrata”) obbligata, quando non sa imitare il gesto ampio del seminatore (cfr. Mt 13,3-8) che semina ovunque il buon seme, quando di fatto non sa rivolgere a chiunque un discorso intelligentemente vocazionale, o quando non sa incrociare quella domanda di senso o quella ricerca di verità o quell’ansia di futuro che abita il cuore di tutti i giovani anche in questa nostra contraddittoria realtà sociale.
Per questo è importante che la CV venga non solo definita nelle sue componenti di fondo, ma che sia pure declinata nelle sue dimensioni essenziali, messa accanto e confrontata con certe corrispondenti componenti della cultura laica, verificata nelle sue aperture e prospettive, articolata nei suoi atteggiamenti, che sono poi gli atteggiamenti vocazionali. Non dico che faremo tutte queste operazioni, ma ci muoviamo ora in questa direzione, per rendere il nostro discorso il più possibile vicino alla realtà e cercare di dare il nostro apporto. Dei tre passaggi prima abbozzati cercheremo ora di prendere in considerazione l’ultimo, ovvero il passaggio dalla CV, da una nostra CV, alla proposta d’una CV “laica”, ovvero che la chiesa possa proporre al mondo come parte del modello antropologico cristiano. Solo così infatti, rispettiamo la natura del PC della chiesa italiana in quanto proposta che vuol esser socio-culturalmente rilevante per la società in cui viviamo.
CULTURA VOCAZIONALE
E MODELLO ANTROPOLOGICO
Aprendo la 46a assemblea generale dei vescovi italiani il card. Ruini ha affermato che quello delle vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata non è un problema che riguardi solo la chiesa, ma coinvolge, in qualche modo, la visione che gli uomini e le donne di oggi hanno della loro esistenza. In tal senso ciò che deve preoccupare, secondo il presidente della CEI, non è tanto la scarsità di vocazioni, quanto piuttosto il clima culturale – in cui tutti viviamo – che mette in crisi il concetto stesso di “vocazione”[11]. Un’analisi ineccepibile.
Vanzan la chiama “la triste quadriga”. Con questa espressione segnala le componenti di scienza culturale, o d’una certa cultura antropologica attuale, così articolate: “pensiero debole (incapace di orizzonti metafisici), valori bassi (negati all’impegno e al sacrificio), appartenenze corte (insensatezza delle formule ‘per sempre’ e trionfo del ‘mai dire mai’), religiosità vaga e soggettiva al massimo (fino al bricolage dei nuovi movimenti religiosi)”[12]. Non ci vuol molto a capire come questa cultura finisca per essere antivocazionale; forse non direttamente, ma in ogni caso le quattro ruote conducono la quadriga fuori della logica vocazionale. Anzi, l’impressione è che la quadriga sia senza auriga, ovvero che l’uomo che esce da questo progetto sia un “uomo senza vocazione”.
Proprio per questo motivo un’autentica CV deve avere il coraggio di confrontarsi con queste componenti culturali, nella consapevolezza, ferma e discreta assieme, d’aver qualcosa di rilevante da dire e offrire a questa cultura, e nella convinzione che anche all’interno d’essa sia nascosto e forse già operante un progetto di sicurezza, o che assieme alle tossine dell’anticristo sia possibile scoprire dentro la cultura i semi del Verbo.
Cultura della morte e cultura della vita
Una dimensione piuttosto evidente di questa cultura è, come abbiamo visto e come probabilmente ci è dato di constatare molto spesso attorno a noi, la crisi dei valori, o il loro progressivo processo di estenuazione e indebolimento, d’appiattimento e livellamento in basso. Nulla sembra aver valore in se stesso, cioè intrinseco e oggettivo, definitivo e stabile con inevitabili e negative conseguenze sul piano delle scelte individuali: solo un valore forte sostiene una scelta forte. Soprattutto non è più riconosciuto come tale quello che potremmo considerare il fondamento naturale (laico e assieme religioso) d’ogni discorso sui valori, che è la vita, il fatto d’esistere, che o diventa un diritto, qualcosa di scontato, o viene visto con diffidenza e sottile o evidente disprezzo, come se vivere fosse un male[13] (vedi il fenomeno conseguente della denatalità, dell’aumento dei suicidi, delle forme variegate di attentato alla vita o di banalizzazione dell’esistenza…). È la cultura della morte.
A questa sfida e a questo pessimismo un’autentica CV risponde con la cultura della vita. O del senso della vita, e poi della morte: della vita come un bene ricevuto, totalmente immeritato, visto che nessuno s’è dato o procurato l’esistenza, bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato. Ed è subito un senso vocazionale, strettamente legato a quella che – come dice il documento del congresso europeo sulle vocazioni, “è la verità della vita, d’ogni vita e d’ogni essere vivente, in qualsiasi modo sia venuto all’esistenza e qualsiasi sia stato il suo passato. Le conseguenze sul piano vocazionale sono evidenti. Se c’è un dono all’inizio della vita dell’uomo, un dono che lo costituisce nell’essere e gli dà un’identità corrispondente, allora la vita ha la strada segnata: se è dono sarà pienamente se stesso solo se si realizza nella prospettiva conseguente del dono, sarà felice a condizione di rispettare questa sua natura; potrà fare la scelta che vuole, circa il suo futuro, ma sempre nella logica del dono, altrimenti diventa un essere in contraddizione con se stesso, difforme, una realtà mostruosa; sarà libero di decidere l’orientamento specifico, ma non sarà libero di pensarsi al di fuori della logica del dono. Tutta la pastorale vocazionale è costruita su questa catechesi elementare del significato della vita. Se passa questa verità antropologica allora si può fare qualsiasi provocazione vocazionale. Allora anche la vocazione al ministero ordinato o alla consacrazione religiosa o secolare, con tutto il suo carico di mistero e mortificazione, diventa la piena realizzazione dell’umano e del dono che ogni uomo ha ed è nel più profondo di sé”[14].
E non solo: questa catechesi elementare sulla grammatica di base della vita umana consente di fare un’animazione vocazionale che raggiunge tutti, che non consente a nessuno di tirarsi fuori e auto-escludersi da un appello che invece riguarda ogni vivente. Ma l’elemento decisivo è che tutto questo diventi cultura, non sia solo catechismo per la prima comunione, proposta ai bambini e fanciulli di buona famiglia, ma riesca sempre più a penetrare dentro la mentalità generale, dentro la cultura di base, venga tradotto in termini laici, sappia reggere l’urto d’un pensiero laico sempre più attestato su una linea di frontiera contraria, ma che non può aver presa alla lunga sul cuore e sulla mente umana. E allora è importante che i nostri centri vocazionali sappiano promuovere una vera e propria cultura della vita, una cultura di atteggiamenti vocazionali orientati in tale direzione, come ad esempio, l’atteggiamento della gratitudine che diventa poi gratuità; il senso di responsabilità dell’uomo di fronte al dono che è stato posto tra le sue mani; la libertà di commuoversi di fronte al dono ricevuto; la convinzione che la vita è vocazione, che l’uomo è vocazione, la capacità di desiderare e sognare in grande ecc.
Un’autentica educazione vocazionale parte da lontano, segue un tracciato logico e articolato con rigore, che illumina la mente, riscalda il cuore e chiede di divenire realtà vissuta. “Fare cultura” vocazionale implica tutto questo; è preparare il terreno, con tutte le attenzioni che ciò esige. Senza alcuna fretta e senza la pretesa di raccogliere subito i frutti.
Vecchio pantheon, New Age e culto della verità liberante
Il documento vocazionale europeo usa un’immagine molto azzeccata, mi sembra, per parlare del clima culturale europeo. “Come la Roma antica, l’Europa moderna sembra simile a un pantheon, a un grande ‘tempio’ in cui tutte le ‘divinità’ sono presenti, o in cui ogni ‘valore’ ha il suo posto e la sua nicchia: ‘valori’ diversi e contrastanti eppure co-presenti e coesistenti, senza una gerarchizzazione precisa; codici di lettura e valutazione, d’orientamento e comportamento del tutto dissimili tra loro. Risulta difficile, in tale contesto, avere una concezione o visione del mondo unitaria, e dunque diventa debole anche la capacità progettuale della vita, nonostante le molteplici opportunità offerte da questa società. Quando una cultura, infatti, non definisce più alcune supreme possibilità di significato, o non riesce a creare convergenza attorno ad alcuni valori come particolarmente capaci di dar senso alla vita, ma tutto pone sullo stesso piano, lì cade pure ogni possibilità di scelta progettuale e tutto diviene indifferente e piatto”[15]. In altre parole, la cultura del pantheon porta a una religiosità vaga e soggettiva al massimo, alla polverizzazione di esperienze religiose dominate dal più autonomo soggettivismo (fino al selvaggio bricolage dei nuovi movimenti religiosi), e questo – a sua volta – sfocia in una tensione vocazionale minima o inesistente. Ovvero quando non c’è una verità a illuminare la vita, a dare un fondamento oggettivo e a porsi al centro dell’identità, lì c’è solo un’illusione di libertà, perché l’uomo è libero nella misura in cui può decidere di consegnarsi a qualcosa di significativo. Ma se la verità non dà senso alla vita, la libertà non ha nessun senso; nel moderno o vecchio pantheon dell’appiattimento generale la libertà umana rischia di diventare sempre più un’illusione o una finzione, cui possono abboccare solo gli sprovveduti, o un trabocchetto ove troppi sono andati a inciampare e cadere, arbitrium di chi ha perso ogni riferimento e si riduce a fare il naufrago.
Qual’è la risposta in termini vocazionali a questa situazione contraddittoria? È la risposta della verità come vocazione, come appello alla libertà dell’uomo. Ma è anche la risposta della vocazione come verità, come realizzazione della libertà umana. Da un lato la verità rappresenta non solo un elemento statico, la fede come contenuti da credere, come polarità oggettiva cui aderire, ma è l’intima universale vocazione d’ogni essere umano, come un desiderio e un bisogno incancellabili, una tensione perenne che la vita intera non basterà ad appagare. C’è una nostalgia di verità nel cuore d’ogni giovane, in particolare, che – al di là delle apparenze – non è per niente gratificato da quelle mezze verità che improvvisate agenzie o piccoli dei gli rovesciano addosso. Forse non lo vuole o non lo può dire, magari è psicologicamente costretto a unirsi alla massa eccitata che canta “la vita spericolata”, ma il giovane in realtà ha bisogno di definitività, d’un punto di riferimento sicuro, di qualcosa che possa illuminare la sua vita per sempre. CV vuol dire coltura di questa nostalgia, significa attenzione a questo desiderio e a questo bisogno, perché non si estingua, perché il giovane non se ne vergogni, perché sia affidato alla sua libertà, e la sua libertà ne diventi responsabile, come d’una cosa preziosa. CV vuol dire aiutare il giovane a riconoscere dentro di sé questo fondamentale appello a cercare la verità, a fare la verità, a dire la verità, a costruire la vita secondo verità, a stare di fronte alla verità, a pregare la verità. Questa è la prima vocazione dell’uomo. Da vivere tutta nella libertà, perché la verità non s’impone, è “debole” da questo punto di vista, dispone solo della forza della sua evidenza intrinseca che si svela solo a chi la cerca con cuore sincero.
D’altro canto non solo la verità è la vocazione dell’uomo, ma la vocazione personale è la sua verità, è la rivelazione assolutamente personale della propria identità ideale, del proprio inconfondibile volto, di quel che ognuno è chiamato a essere, è il compimento del proprio io, anzi, è la realizzazione della propria libertà. L’uomo è libero, infatti, nella misura in cui può realizzarsi secondo la sua verità, o nella misura in cui “si lascia fare” dalla verità (“la verità vi farà liberi”, Gv 8,32).
CV vuol dire mettere in circolo questa idea, vuol dire mettere in relazione verità-vocazione-libertà, o far comprendere che è proprio il concetto di vocazione che riesce a coniugare armonicamente verità e libertà. CV è far capire la valenza antropologica del concetto di vocazione, significa restituire a questo termine tutta la sua pregnanza psicologica, la sua funzione strategica nel cammino di ricerca della propria identità. È solo a partire da questa catechesi ancora di base che si può poi gradatamente proporre il senso della vocazione cristiana, come “il pensiero provvidente del Creatore sulla singola creatura, la sua idea-progetto, come un sogno che sta a cuore a Dio perché gli sta a cuore la creatura”[16], e infine giungere a indicare la vocazione come passaggio da quello che l’uomo è a quello che dovrebbe essere nella luce di Cristo. La persona è un dato e, insieme, un compito: è e diviene, proprio grazie alla sua libertà responsabile. Cristo è colui che lo accompagna in questo cammino, che gli propone il massimo in questo cammino, che soprattutto lo rende capace di rispondere.
Un tempo si diceva (o si cantava): “Dio è morto”. Ora non vanno più di moda espressioni così radicali (anche perché forse ci si è accorti che la …vita e la salute di Dio interessano da vicino vita e salute anche dell’uomo), ma su qualche muro di qualche città italiana c’è stato chi ha scritto (il solito graffitaro rigorosamente anonimo): “Dio non è morto. È vivo e sta lavorando a un progetto meno ambizioso”. CV vuol dire sfatare anche questa idea sottilmente velenosa, non solo ironica, che finisce per uccidere nuovamente, in realtà, l’idea del Dio cristiano: il Dio di Gesù Cristo, infatti non ha rinunciato ad alcun progetto sull’uomo, perché sarebbe come rinunciare a se stesso. “Gloria Dei vivens homo”. La vocazione è il segno della alleanza, della nuova alleanza tra Dio e l’uomo, del Dio ostinatamente fedele al progetto delle origini: felice di stare con l’uomo. Quanto siamo distanti, in questa interpretazione così ampia della vocazione e della CV, da una certa idea piuttosto angusta e poi sterile di vocazione e di pastorale vocazionale! Non è forse questa già nuova evangelizzazione?
Dall’omologazione indifferenziata al senso dell’alterità e diversità
Eccoci di fronte a un altro tema, quello dell’“altro”, che “tira” quanto mai in una certa cultura attuale (basti pensare agli studi Ricoeur, di Buber, Levinas e altri), ma che al tempo stesso trova forti resistenze e tendenze contrarie. Se, da un lato, la vita di oggi è dominata dal sociale, vera categoria interpretativa e ambito dell’esistente, dall’altro è fortemente diminuita la qualità e l’intensità del senso d’appartenenza, come si avesse paura l’uno dell’altro, della sua diversità e alterità. Ecco allora, come conseguenza, il fenomeno delle appartenenze corte o insignificanti o, in prospettiva vocazionale, la paura conseguente di consegnarsi per sempre, o il fenomeno della non scelta, addirittura, a causa della cosiddetta “omologazione oggettivante”, per cui i giovani d’oggi scelgono ciò che convenzionalmente è scelto, senza più sapere e volere perché, divenendo oggetto di dinamiche sottratte alla loro libertà individuale[17]. Altro modo di reagire alla diversità dell’altro è il tentativo di omologarlo, quasi una sorta di omosessualità latente o quella che qualcuno chiama “la cultura del branco”. È un’osservazione interessante: il gruppo dei pari, oggi non è più una banda, come un tempo, dove si collezionavano ruoli e personalità diverse che, spontaneamente, interagivano tra loro producendo una crescita reciproca in forza proprio dell’alterità (magari con derive conflittuali dentro e fuori del gruppo), ma inclina al branco, dove tutti i componenti sono uguali al sé di ciascuno e ciascuno si sceglie perché specchio (narcisistico) dell’altro[18]. Per cui oggi rischiamo d’esser un po’ tutti, non solo i giovani, branco di consumatori (degli stessi prodotti), o di telespettatori (degli stessi programmi), o branco di trasgressori (delle stesse norme sociali), o – peggio ancora – di adoratori (degli stessi idoli), tutti ordinatamente al proprio posto a eseguire il compito tacitamente assegnato: ad acquistare il prodotto reclamizzato e firmato, ad applaudire in TV alla solita battuta cretina sul sesso, a infischiarsene con manierata sufficienza delle varie regole sociali, a professare gli stessi pseudo-valori. “Cosicché tutti restano quello che sono, senza aiutarsi a vicenda, coatti a ripetere un eterno presente rattrappito che non conosce più transizioni e transazioni maturanti diverse dal mero sviluppo biopsichico”[19]. È il fenomeno emergente del neo-pecoronismo, o il “teatrino dei replicanti”. E la cosa più buffa (o triste) è che in tutto questo ci si sente originali e anticonformisti, mentre – in realtà – vige il conformismo più convenzionale e “obbediente”, come di bravi scolaretti[20]. È una delle stranezze di questo clima culturale, ove nessuno più obbedisce e tutti sono divenuti conformisti, ove si è fortemente disobbedienti proprio perché … troppo obbedienti, ove l’obbedienza, negata come virtù, riemerge come malattia, come equivalenza di tutto con tutto? Indifferenza tra bene e male, passività sociale, indeterminazione e incapacità di decidere, perdita o insignificanza della libertà[21], o perdita e insignificanza del rapporto…
La risposta della CV a questa ambiguità e scadimento qualitativo della dinamica relazionale va in una direzione ben precisa, quella della relazione vissuta come vocazione, come luogo di discernimento d’essa e pure come obiettivo vocazionale. La vocazione è in sé un fenomeno di relazione, di alterità, vocazione vuol dire un altro (o un Altro) che mi chiama; significa, dunque, che è centrale nell’essere umano la disponibilità a lasciarsi chiamare, a non pretendere di costruire la propria identità e il proprio futuro semplicemente sulla misura delle proprie capacità (o delle proprie paure), in vista d’una autorealizzazione totalmente autoreferenziale.
La CV ribadisce in tutti i modi quanto una sana psicologia ricorda come legge universale e naturale: l’uomo è fatto per consegnarsi a qualcosa o a qualcuno, a chi, sarà lui a deciderlo, ma di fatto non può restare chiuso dentro di sé e avvitato sulla sua persona, deve affidarsi e fidarsi d’un altro. D’altronde questo è quanto già avviene in modo più o meno evidente e consapevole: la vita è tutta una trama di chiamate: si viene alla vita perché fondamentalmente “chiamati”, perché un altro (un Altro) ci ha preferiti alla non esistenza. E la cosa bella è che la chiamata, qualsiasi chiamata, è di per se stessa segno di amore, d’interesse, d’attenzione, è una voce dietro cui c’è un volto, uno sguardo, un legame, un desiderio di rapporto… Se nessuno ti chiama è come se tu non esistessi, sei solo, non conti niente per nessuno. Una crescita vera è frutto d’una vita vissuta tra mille chiamate, rispondendo alle quali si cresce. Fin dall’inizio dell’esistenza. Anche un bambino è in grado di capire e constatare come la sua giornata sia fatta di tante chiamate: la mamma che lo sveglia, la maestra che lo chiama con l’appello e lo richiama se non sta attento, la campanella che indica inizio e fine d’un’ora, l’amico che lo chiama a giocare, il babbo che lo richiama a comportamenti educati[22] (e un’autentica CV deve saper parlare anche il linguaggio dei bambini o deve cominciare a essere trasmessa e capita da subito nella vita). E così poi nella vita, perché l’altro che mi chiama è anche l’altro che mi forma, “è colui che mi permette di capire chi sono, colui che per opposizione mi plasma, colui che rafforza la mia identità proprio mentre la contesta: il nemico è il migliore dei maestri che incontriamo nella vita”[23].
A questo punto, la CV può specificare ancor più il suo messaggio e la sua proposta. “Ogni vocazione è mattutina”[24], dice con felice espressione sempre il nostro documento, poiché dice la volontà testarda del nostro Dio d’entrare in relazione con l’uomo, perché il nostro Dio é relazione, la Trinità è relazione, e nulla come la vocazione sottolinea questa dimensione relazionale divino-trinitaria. Pensate quale possibilità di catechesi su Dio ci viene offerta dalla presentazione d’un Padre che non solo ci ha dato l’esistenza, ma c’indica ogni giorno la strada per essere in Lui realizzati e felici, un Padre che ogni giorno precede l’aurora per svelarci il suo progetto, un Padre che ci dona prima quanto ci chiede, che crede in noi, e interessato a noi, siamo preziosi ai suoi occhi, e ci mette in ogni caso in condizione di rispondere al suo appello. E ancora e proprio per questo, CV vuol dire sostenere l’idea della vocazione come missione, impedire che la vita dell’individuo si avviti su se stessa e s’isterilisca, ma aprirla agli orizzonti del servizio, della responsabilità per gli altri, della solidarietà. La crisi vocazionale è anche caduta del senso comunitario, o interpretazione distorta della vocazione cristiana come processo di semplice autoperfezionamento in funzione della propria salvezza. In tal senso la CV è cultura del volontariato, dell’esperienza concreta di servizio, è cultura del grembiule e del lavare i piedi e se il cristianesimo è “la religione dei volti” (Clément), la CV è cultura del volto, è cultura della responsabilità di fronte a un volto, come direbbe Levinas; e ancora, è cultura costruita assieme da chi riflette nella fede e da chi opera sul campo da credente; è “il sapere dei credenti”, più che “la fede dei sapienti”[25].
Pensiero debole e mistero grande
Infine, l’ultima componente del modello antropologico della cultura attuale è quella rappresentata dal cosiddetto pensiero debole, ormai diventato una sorta di luogo comune o di contenitore universale, comunque integrale – come concetto – all’idea del pantheon e della sua allegra confusione. Se il pensiero, infatti, è debole, non può attingere alcuna verità ma dovrà accontentarsi d’impressioni e opinioni che mai, in nessun caso, potrà pretendere definitive, superiori ai punti di vista altrui. E viene così legittimata l’idea dell’appiattimento generale di quelle che sono niente più che opinioni o dell’omologazione pressoché generale di mezze verità, dell’orizzonte corto e basso entro cui si protende (?) la vita, della finta libertà nata sulle ceneri del mito impossibile della verità. Con due conseguenze più rilevanti anche ai fini della scelta vocazionale: la prima è la crisi del cosiddetto tempo noetico con la distinzione sempre meno marcata tra festivo e feriale, forse anche tra giorno e notte, tra passato e futuro, per cui “dalla vita come storia, nata da un passato e proiettata verso il futuro, si passa a un unico lungo presente. Dove regna l’omogeneizzazione”[26]; e torna, ancora una volta, da un altro punto di vista, il discorso su questa strana cultura dell’omologazione, dell’uguaglianza imposta e implicita della paura della diversità e dell’originalità. Ma è pure significativa questa insistenza sul presente, sull’attimo fuggente, ritenuto unico ambito significativo e centro d’interesse. Ciò che conta, per i giovani, è il qui ed ora, senza legami con ciò che si è stati prima né compromessi con ciò che si potrà essere. “La vita è adesso”, come canta Baglioni. Interessante è il fatto che anche il linguaggio giovanile sia sempre declinato al presente, sembra dimenticato l’uso dei tempi della sfumatura e dell’incertezza evolutiva (imperfetti, passati prossimi e remoti, futuri, non parliamo poi del congiuntivo e della confusione tra congiuntivo e condizionale), quasi si fosse persa una certa scansione del tempo interiore e psicologico, o si fosse smarrita la dimensione storico-temporale della propria identità. “Tutto è visto al presente, ammucchiato nel qui e ora, in un presente quasi concentrato ed elevato a potenza, assorbente e vorace come un buco nero che risucchia passato e futuro fino a farli appiattire su di sé, in un pericoloso processo di amnesia di ciò che è stato e d’incapacità d’immaginare e progettare ciò che sarà”[27]. Il pensiero debole conduce a questa situazione, ma ne è anche conseguenza inevitabile: è solo un pensiero forte che può abbracciare tutta la storia, così come è la storia che dà certezze e forza convincente al pensare.
Altra conseguenza è la sostanziale chiusura al mistero: se il pensiero è debole non può protendersi oltre l’immediato e l’evidente, oltre ciò che è facilmente attingibile, al di là delle certezze a basso costo e di dominio pubblico. Sparisce, così, dall’orizzonte intuitivo dell’uomo, il trascendente e tutto quanto appare di difficile decifrazione, rischia di sparire lo spirituale, addirittura, e quanto non sembra subito funzionale a interessi immediati. Il pensiero in tal modo è come sottoalimentato, è costretto a nutrirsi di cibo poco sostanzioso, non è provocata la fatica del pensare; ma rischia pure di sparire, a questo punto, anche la prospettiva vocazionale, poiché vengono meno le premesse d’una scelta che pensi d’abbracciare tutta la vita: letta nel passato, affermata nel presente, proiettata nel futuro, per sempre: una scelta forte legata per natura sua a un pensiero forte. Il risultato, in termini un po’ crudi, è una cultura antivocazionale per un uomo senza vocazione. E proprio questa sequenza culturale, sostanzialmente antiumana, in contrasto con i reali interessi d’ogni uomo e d’ogni donna, va arrestata.
La scelta vocazionale suppone una struttura intrapsichica consistente, un organismo in cui la vita pulsa nella sua vivacità, una mente che pensa-ama-decide, in forza di qualcosa che è scoperto nella sua verità-bellezza-bontà. E se la vocazione è pensiero forte, la CV tenta di proporre quelle due espressioni tipiche, come abbiamo visto in … negativo, d’un pensiero forte: il recupero del tempo noetico e l’apertura al mistero e al trascendente. Recuperare il tempo noetico è, al di là dell’espressione un po’ misteriosa, operazione importantissima ai fini della scoperta della propria identità. Vuol dire, in concreto, insistere ancora sulla valenza antropologica del concetto di vocazione, questa volta per mostrare come tale concetto sia legato alla capacità di vedere una linea coerente una storia progressiva, una unità narrativa nella propria vita. Questo è un elemento importantissimo sul piano dell’integrità psichica della persona, ma è anche una componente classica dell’idea di vocazione, anche a livello umano; una delle ragioni, infatti, per cui le professioni e i mestieri erano tanto importanti, un tempo, per l’identità umana “era proprio il fatto che essi procuravano alla vita di una persona una struttura a lunghi segmenti: essere musicista, uomo di legge, infermiera non era soltanto l’attività che si svolgeva, ma era una vita, dalla gioventù alla vecchiaia, nel riposo e nel lavoro, nella malattia e nella salute”[28]. Oggi che le vocazioni si sono ridotte a due, speculari, comprare-vendere (o esser comprati-esser venduti) questa idea di vocazione viene meno, e proprio per questo è importante proporre questo tipo di cultura, entro la quale la vocazione recupera tale caratteristica fondamentale, che la lega strettamente alla vita dell’individuo, è la sua storia, o è ciò che le consente di tenere insieme la sua storia, di darle un senso, di raccontarla come una storia coerente, con un passato, un presente e un futuro. In tal senso, vocazione, lungi dall’esser termine con significato esclusivamente religioso, significa scoprire finalmente quel cordino rosso che lega in una totalità coerente e unitaria tutta la vicenda esistenziale dell’individuo e, al tempo stesso, compiere una scelta che si ponga in coerenza con il proprio vissuto, con quel senso profondo che lo abita e che chiede di essere riconosciuto nella sua centralità strategica.
E qui entra in scena l’altra componente fondamentale: l’apertura al mistero e al trascendente, ma non a un mistero che vive al di sopra e lontano dall’uomo; ma a quel mistero che è dentro la vita, che dimora nel proprio vissuto. CV vuol dire proporre la vita e la storia umana come casa del mistero[29], vuol dire indicare come porsi alla ricerca di questo mistero, come lasciarsi provocare dalle domande giuste, quelle che spingono a cercare sempre più in profondità, quelle che riguardano gli interrogativi fondamentali della vita, il senso del vivere e del morire, dell’amare e del soffrire… Senza mai farne una questione puramente intellettuale e astratta, ma cercando sempre e il più possibile, da un lato, di cogliere la risposta dentro la propria esperienza, esistenziale e, dall’altro, cercando di esprimere la risposta in comportamenti, gesti, motivazioni nuove, progetti a corto e lungo termine, in risposte concrete, insomma, per quanto piccole e segrete. Ben ricordando che “sono le domande grandi… che rendono grandi anche le risposte piccole. Ma sono poi le risposte piccole e quotidiane che provocano le grandi decisioni, come quella della fede; o che creano cultura, come quella della vocazione”[30]. Le risposte della vita di solito sono piccole, legate ai tanti attimi fuggenti della misura discreta e limitata della vita, ma la domanda grande di senso aperta al mistero, renderà grandi anche queste piccole quotidiane risposte. E lo scoprirà non lontano da sé, senza bisogno di andare lontano dalla propria vita, dagl’impegni e dalle cose di sempre: è sotto la stufa di casa tua che è nascosto il tuo tesoro.
E qui, allora, la CV diventa sempre più stringente ed esplicita in senso cristiano. La vocazione, così concepita, o la ricerca vocazionale può diventare via lungo la quale incontrare Dio. Cercando, infatti, quel senso profondo e nascosto nella e della propria storia, lasciandosi interrogare dalla vita quotidiana e tentando di rispondere alle provocazioni e alle singole chiamate d’ogni giorno, è possibile a un certo punto incontrare Dio, il vero autore di tutte quelle chiamate, il vero senso nascosto della propria storia, il Mistero che svela il mistero. E solo a questo punto la CV avrà adempiuto pienamente il suo compito, che non è quello, immediatamente, di … riempire i seminari, ma di esser cammino per tutti verso Dio, per risvegliare in ogni persona la nostalgia della fede, d’una fede adulta, libera e responsabile, che proprio se vuol esser tale deve passare attraverso la scoperta del sogno di Dio su di sé, attraverso il riconoscimento della propria vocazione, come dono ricevuto e da condividere, dinanzi a Dio e ai fratelli.
ALCUNI CRITERI
O PISTE OPERATIVE A LIVELLO DI CDV
Proviamo ora, dopo una riflessione necessariamente molto teorica, a definire almeno alcuni orientamenti pratici, soprattutto dal punto di vista del direttore d’un Centro Diocesano Vocazioni. Li presenziamo molto schematicamente. Un CDV dovrebbe:
1 – Fare cultura vocazionale, non solo pastorale vocazionale.
2 – Avere il coraggio di pensare sempre più il messaggio vocazionale in termini socio-culturalmente rilevanti, fare lo sforzo di usare categorie, simboli, parabole, linguaggi accessibili e significativi per la cultura di oggi.
3 – Avere come interlocutore non solo il soggetto ecclesiale; ma il complesso mondo della realtà giovanile odierna, portatore – oggi come sempre e più di sempre – di una insopprimibile domanda vocazionale.
4 – La CV può e deve essere scritta da tutti: o è opera comunitaria, o è operazione intellettuale e astratta, di pochi cosiddetti esperti e di pochissima presa sulla mentalità generale.
5 – La CV va sempre più legata al “giubileo vocazionale”, e questo GV va presentato in modo efficace: ogni CDV s’impegni per dare segni visibili, per proporre qualcosa di forte vocazionalmente a tutta la comunità credente.
6 – In tal senso c’è una CV per ogni livello d’intervento e responsabilità pastorale nella comunità cristiana. Ad es. il CNV può proporre grandi linee e opzioni teorico-pratiche generali; il CDV può e deve applicare il discorso alla realtà diocesana; il responsabile zonale deve passare a linee operative sempre più immediate e praticabili; l’animatore parrocchiale ancor di più; il catechista, l’assistente d’oratorio, l’allenatore della squadra, il genitore … possono ancor più concretizzare e fare interventi più mirati e ad hominem… Ma il tutto deve tornare in qualche modo alla sorgente, il cerchio deve chiudersi. Solo così si forma un’autentica CV all’interno d’una realtà nazionale.
7 – La CV può dialogare con il mondo molto meglio di altre dimensioni, o settori di chiesa. Lo può fare perché è più agile rispetto ad essi. Lo può fare perché mette in modo evidente ed al centro e tocca un interesse che è presente in tutti e con risvolti di valore apprezzati anche dalla cultura laica.
8 – La CV è cultura collegata con tutti gli altri settori della pastorale. Ma deve maggiormente esplicitare questi nessi: ad es. con il movimento (e la cultura) per la vita, con la formazione permanente, con il rinnovamento della catechesi, con il mondo del volontariato ecc.
9 – La CV è la cultura della nuova evangelizzazione, dice lo stato di salute o lo stato adulto d’una comunità credente.
10 – “Cultura” dice scontatamente anche cammino formativo, progetto ben mirato di iniziazione a una particolare competenza, con relativi tempi di riflessione, attività guidate, riscontri teorico-pratici ecc. Sarebbe impensabile, dopo il lavoro di formazione attraverso corsi e convegni intelligentemente attuato in questi anni dal CNV, una sorta di “scuola per formatori vocazionali”? Sarebbe un segnale efficace in vista del Giubileo vocazionale, e come un’espressione di maturità della formazione vocazionale oggi nella chiesa italiana.
Note
[1] Cfr. P. VANZAN, Il “Progetto culturale orientato in senso cristiano” della chiesa italiana: quale il contributo dei consacrati?, in AA.VV., Testimoni di una nuova cultura, Padova 1998, p. 34.
[2] GIOVANNI PAOLO II, in P. POUPARD, Il Vangelo nel cuore delle culture, Roma 1998, p. 53.
[3] Cfr. O. SVANERA, La vita consacrata e la sfida della cultura, in AA.VV., Testimoni di una nuova cultura, 15.
[4] A. R. RADELIFFE BROWN, White’s view of a science of culture, in “American Anthropologist”, LI (1949), 510- 511.
[5] P. VANZAN, Il “Progetto culturale orientato in senso cristiano” della chiesa italiana: quale il contributo dei consacrati?, in AA.VV., Testimoni, 38-39.
[6] Ibidem, 37.
[7] Vale a dire tra l’elemento contemplativo di unione col divino e l’elemento attivo di piena appartenenza al quotidiano e al mondo. “Fra l’icona del cristiano del mondo che si trova sullo sfondo della Lettera a Diogneto e quella iscritta fra le righe della Regola di Benedetto non si possono trovare dissomiglianze che non rivelino somiglianze ancora maggiori” (P. SEQUERI, La spiritualità nel postmoderno, in “Regno-Attualità”, 18 (1998), 643).
[8] PONTIFICA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 13 b). [NVNE].
[9] CEI, Il Vangelo della carità, 25.
[10] Ibidem.
[11] Cfr. C. RUINI, cit. in G. SAVAGNONE, La libertà di rispondere a chi ci chiama, in Avvenire, 18/V/1999, p. 1.
[12] P. VANZAN, Il “progetto culturale”, 36.
[13] Tipica la battuta della ragazzina diciassettenne che pretendeva tutto, assolutamente tutto dai genitori e, di fronte alle loro resistenze, così si giustificava: “È solo un risarcimento danni, papà, per avermi fatto esistere”. La storia, vera, racconta che l’ineffabile adolescente è poi divenuta anoressica, lasciandosi morire.
[14] NVNE, 36 b).
[15] Ibidem, 11 a).
[16] Ibidem, 12 a).
[17] Cfr. G. BERTAGNA, Generazione giovanile ed educazione alla scelta, in “Orientamenti Pedagogici”, 45 (1995) 589.
[18] Cfr. L. BALDASCINI, Vita da adolescenti. Gli universi relazionali, le appartenenze, le trasformazioni, Milano 1993.
[19] BERTAGNA, “Generazione giovanile”, 589. Così nel lontano 1896 descriveva i giovani la scrittrice S. O. JEWETT: “In questi giorni i giovani sono dei pappagalli spaventati a morte di non essere tutti uguali, mentre la gente di una volta pregava per avere il vantaggio di essere un po’ diversa” (S. O. JEWETT, Il paese degli abeti aguzzi, cit. da G. RAVASI, Pappagalli, in Avvenire, 7/V/1999).
[20] Cfr. A. CENCINI, Qualcuno ti chiama. Lettera a chi non sa d’esser chiamato, Brescia 1999, pp. 30-31.
[21] Cfr. S. NATORI, Elogio della (santa) obbedienza, in Avvenire, 22/X/1998, p. 22.
[22] Cfr. L. BONARI, Vocazioni a prova di fedeltà, in Avvenire, 25/IV/1999, p. 19.
[23] E. BIANCHI, Da forestiero nella compagnia degli uomini, Casale M., 1995, p. 15.
[24] NVNE, 26 a).
[25] VANZAN, Il “Progetto culturale”, 42.
[26] È l’opinione di M. POLLO, espressa al convegno organizzato dal Servizio nazionale di pastorale giovanile dall’11 al 13 giugno 1999 a Verona, dal titolo “I giovani, il tempo e la cultura della notte”. Cfr. G. BERNARDELLI, Giovani, a che punto è la notte, in Avvenire, 13/VI/1999, p. 19.
[27] CENCINI, Qualcuno ti chiama, 26-27.
[28] T. RADELIFFE, Lasciare tracce, in Testimoni, 3 (1997), 7.
[29] Cfr. A. CENCINI, La storia personale, casa del mistero. Indicazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997.
[30] NVNE, 13 b).