N.04
Luglio/Agosto 1999
Studi /

Vocazioni e pastorale vocazionale nell’era telematica

 

 

 

Premessa

Il titolo di questa comunicazione andrebbe completato nel senso di: “Vocazioni nella civiltà dell’informazione e dell’immagine”, perché così come giace dice solo un aspetto del fenomeno. Il problema che fa capo al termine “telematica” (l’unione dell’informatica con le reti telefoniche mediante i modem) è quello di un’esplosione ingovernabile di informazioni, che è certamente un aspetto rilevante dell’attuale civiltà, la quale, però, si è soliti definire con termine altrettanto se non più caratterizzante, come “civiltà dell’immagine”. Quanto segue riguarderà entrambi questi aspetti del problema.

Mi limiterò ad evidenziare quei problemi della pastorale vocazionale che in modo diretto sono riferibili all’attuale cultura in quanto caratterizzata dalla comunicazione di massa, lasciando da parte altri aspetti tipici dell’attuale cultura – e che fanno problema per la pastorale vocazionale – che però hanno anche altre cause e ragioni che non sono direttamente rapportabili alla comunicazione di massa, quali, per esempio, la nuova immagine della donna e il modello di famiglia.

È una comunicazione, non una relazione. Il problema del titolo, e altri problemi connessi, sono soltanto enunciati, non dimostrati e tanto meno risolti. A volte si tratta di affermazioni che andrebbero esplicitate più diffusamente. Ma non è questo il compito di una “comunicazione” che, invece, è quello di suggerire spunti da approfondire in altra sede, rilanciare elementi per un dibattito, dare delle “provocazioni” che – etimologicamente – “facciano uscire”, “chiamino fuori” il discorso dalle secche della pigrizia di un pensiero teologico che magari è riluttante a ricercare, e che più spesso si limita a ribadire con stanca ripetitività (magari di documento in documento).

È un intervento più critico che propositivo, più rivolto alla pars destruens che a quella costruens, un intervento da “apocalittico” (piuttosto che da “integrato”), secondo la nota classificazione di Umberto Eco. Ma sgomberare il campo da ingenuità, illusioni, sbrigative semplificazioni, è già una parte del lavoro, piccola se si vuole, ma irrinunciabile. Ad altri il compito – arduo, fantasioso e creativo – di completare in positivo la meritevole opera di immaginare la pastorale delle vocazioni in questa nuova epoca della storia.

 

Il rischio di una “retorica comunicativa”

Il recente Documento “Per una pastorale della cultura” (23 Maggio 1999), dice che con i mass media si è di fronte ad una “vera rivoluzione culturale”, un mutamento di linguaggio che implica il rimaneggiamento completo di ciò che attraverso cui l’umanità apprende il mondo che la circonda… Il Documento afferma espressamente che i media sopprimono la distanza di spazio e di tempo, ma soprattutto trasformano la maniera di percepire le cose: la realtà cede il passo a ciò che di essa viene mostrato (n. 9). È esattamente la considerazione che fanno gli studiosi delle comunicazioni di massa: oggi si sta perdendo il senso del “reale”, e non come una classica e risaputa patologia della psiche, ma come nuova fisiologia dell’apprendimento. L’era telematica ci ha inseriti in un “limbo elettronico nel quale realtà e rappresentazione si confondono senza soluzione di continuità” (Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes). Jean Baudrillard dice senza mezzi termini: la Tv ha ucciso la realtà. Secondo questo pensatore – la cui opinione non è più condivisa soltanto dagli “apocalittici” – i media offrono un’immagine che sempre più fa a meno di ogni riferimento al reale, e così si finisce col vivere in un altro universo nel quale la realtà è stata estromessa. E con “il reale” sono scomparsi anche l’immaginario e l’utopia.

Sulla base di questo quadro di comprensione, occorre tenere presente un fatto che è “ovvio”, e proprio perché tale – direbbe Husserl – non è indagato. La Vocazione è “parola”, è “chiamata”, è voce (= vocare) di un messaggio che arriva all’orecchio del cuore. La vocazione, come l’annuncio di fede, sé stata pensata in un’epoca nella quale il parametro espressivo dominante era il “logos”, il “verbo”; da “ascoltare” (il Cristianesimo è una religione dell’ascolto). Sembra che l’attuale civiltà stia andando verso una rivoluzione del “paradigma” – l’immagine – e cambia anche l’organo principe della percezione della realtà – l’occhio. Il modulo comunicativo dell’evangelizzazione – e anche della vocazione – non può ripetersi oggi soltanto o principalmente secondo la tradizionale struttura: parola-idea-verità. Occorre trovare una modalità nuova (cfr. Gianni Ambrosio, Il progetto culturale: sfide e opportunità, relazione tenuta all’incontro delle Riviste di cultura religiosa, Roma, Casa San Bernardo – 4 Giugno 1999).

Se non si tiene adeguatamente conto di questo nell’annuncio vocazionale, non si rischia di andare verso una “retorica comunicativa”? Occorre prestare attenzione ad un fatto. Non si può semplicisticamente pensare che l’uso dei mezzi messi a disposizione dalle nuove tecnologie altro non siano che un supporto alla voce e un modo per soppiantare i supporti comunicativi antichi: pulpiti e baldacchini. È proprio vero che i mass-media non sono altro che i prolungamenti degli organi di senso, che permettono di espandere il rapporto con la realtà, e che, in questo senso, sono in grado di allargare le possibilità evangelizzatrici della Chiesa? Sono solo questo? Sarebbe un approccio ingenuo quello che si limitasse a questa ottimistica considerazione delle “magnifiche sorti e progressive”. Occorre una riflessione seria sui cambiamenti indotti dal progresso tecnologico su tutte le forme dell’annuncio, compresa quella dell’annuncio vocazionale. Brevemente sarà condotta sulla scorta di alcune riflessioni di Claudio Sorgi.

Una delle ragioni per cui la Chiesa ha scelto la dizione di “strumenti” e l’ha preferita per molti anni, a partire dal Concilio, è proprio dovuta alla volontà di sottolineare l’idea di strumentalità. Lo strumento è causa strumentale di un effetto, e non ne è la causa principale, e dunque non è lo strumento a stabilire la qualità dell’effetto, che invece è addebitabile totalmente alla causa principale, all’agente quindi, che in questo caso è il comunicatore. Ora, nel processo della comunicazione – emittente, trasmissione, ricevente – ciascuno dei tre momenti può incidere sulla qualità del risultato, e questo è stato vero in ogni epoca della comunicazione. Ma oggi – nella comunicazione di massa – gli studiosi riconoscono un ruolo da protagonista principale al mezzo e al tipo di linguaggio adottato, per cui la “strumentalità” dei mass-media non è più tale, non è più “servile”, è il “servo” che si è affrancato e domina il “padrone” (= il messaggio). “I nuovi mezzi di comunicazione non sono ponti tra l’uomo e la natura, perché sono la natura”, ha scritto McLuhan, un altro modo di dire che “il mezzo è il messaggio”. Ossia i mezzi di comunicazione non solo informano su ciò che avviene, ma “informano” ciò che avviene (nel senso etimologico di porre in una forma, o dotare di una forma differente ciò che prima ne aveva un’altra).

Papa Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio dimostra di aver compreso la complessità del problema. Dice espressamente che l’impegno nei mass-media non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio, ma che si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa “nuova cultura” creata dalla “comunicazione moderna”. Il Papa fa poi un rilievo di grande importanza per la comprensione del problema. Dice che “questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici”. L’orizzonte che questa affermazione dischiude, va ben al di là dell’impegno nel campo della comunicazione. Si tratta di capire che cosa è cambiato e che cosa sta cambiando nel “destinatario” dell’annuncio, per far sì che la comunicazione della fede non si rivolga a un target immaginario o appartenente al passato, fallendo non già per la difficoltà del messaggio, ma per difetto di comunicazione, per mancanza di sintonia. Un fallimento pastorale ipotizzabile è quello di usare linguaggi (parola orale, scritta, simboli, liturgia) che adottano codici sconosciuti alle persone di oggi, in quanto è cambiata la lingua della comunicazione, e i responsabili della pastorale non se ne accorgono ingannati dal fatto che i “fedeli” comprendono. Però, la comprensione dei fedeli può essere simile a quello di chi usa linguaggi gergali interni al gruppo, ma che proprio per questo tendono alla chiusura e alla ghettizzazione della comunicazione stessa. La fede continua ad essere inculcata, ma le basi teologiche, il linguaggio di cui si avvale risultano lontani dalla consuetudine con cui l’esperienza umana viene interpretata e progettata.

 

Una comunicazione difficile e “distorta”

La “civiltà dell’immagine” produce una grande riduzione della dimensione dell’ascolto. Essere “inascoltanti” potrebbe anche essere una forma di autodifesa. Non si ascolta per non venire sopraffatti dalle migliaia di messaggi che continuamente ci raggiungono. Sommersi da un diluvio di informazioni si tende a non impegnarsi in un faticoso lavoro di selezione, finendo così col non prestare ascolto né ai messaggi banali e banalizzanti né a quelli interessanti e vitali. Si sta andando verso una cultura del non ascolto (cfr. M. Baldini, Le dimensioni del silenzio nella poesia, nella filosofia, nella musica, nella linguistica, nella psicanalisi, nella pedagogia, nella mistica, Roma 1988, in particolare: Silenzio e ascolto, pp. 19-22). Una domanda: si è proprio sicuri che la facoltà dell’ascolto non si stia atrofizzando.

È un discorso da mettere in relazione con la scomparsa del silenzio. La persona senza silenzio è incapace di ascoltare l’altro. Altro punto da considerare. La vocazione è comunicazione, è un dialogo tra un “io” e un “tu”. Oggi è ancora garantita questa possibilità di un sostenibile e “normale” rapporto tra in “io” e un “tu”? Oggi l’io è disperso e frammentato, non è un “io” identificato in modo chiaro e riconoscibile (Il sé minimo, è il titolo di un’opera di C. Lasch); e c’è un “tu” (ossia l’altro referente del dialogo) che parla, ma i sui segnali arrivano deboli (a livello di fede, si parla della difficoltà di percepire la domanda religiosa) mischiati in una ridda di innumerevoli altri messaggi, e non c’è possibilità di ritorno o di ripristino di un incontaminato firmamento comunicativo. Esiste un inquinamento acustico dell’anima. Cosa occorre: trovare una frequenza ad ultrasuoni per riuscire a comunicare la vocazione? Ma sarebbe ancora udibile?

Mons. Masseroni nella sua relazione all’Assemblea CEI (maggio 1999) ha detto che occorre superare il “silenzio vocazionale” (di chi non fa la proposta per non condizionare la libertà) perché in realtà “l’assenza di una proposta positiva condanna la libertà a soccombere ai modelli egemoni, che di fatto si impongono con una forza umanamente irresistibile”. E qui si capisce che i modelli egemoni sono quelli indotti dall’attuale cultura dei mass-media che per la potenza del “mezzo” risultano vincenti ovunque. Quindi: non mancare di fare udire la voce. Ma qui c’è un rischio. Siccome nel mondo telematico oggi i messaggi sono “gridati”, occorrerà gridare e alzare la voce per riuscire a farsi sentire? Ma i “mezzi” del Vangelo non sono poveri e piccoli? (non portare bisaccia, né sandali, né bastone, non preparare nessuna arringa lungo la strada per non restare alla fine smentiti e confusi…). Come superare questo impasse? Da una parte c’è l’esigenza che la proposta evangelica della vocazione scenda “in campo”, nell’arena mass-mediatica per rendersi udibile; d’altra parte c’è l’esigenza di non restare presa dentro i meccanismi di questo mondo dei media, meccanismi che non è lei a governare, perché nessuno ha ancora smentito McLuhan e la sua intuizione/slogan che caratterizza l’era dei mass-media: “Il mezzo è il messaggio”. Un solo esempio: per la pastorale vocazionale, allestire una “narrativa audiovisiva” per comunicare la vocazione, potrà bastare? Tenendo presente che si va incontro necessariamente ai meccanismi della fiction e alle anacronie caratteristiche del tempo audiovisivo: come sarà il messaggio alla fine? Ci sarà, e in che misura, una migrazione di significato? E ancora: come ovviare alla inevitabile “spettacolarizzazione” dei mass-media a riguardo di ciò che comunicano? È una “tirannia” dei media dalla quale non ci si sottrae.

Il citato Documento: “Per una pastorale della cultura”, a proposito di Internet, la cosiddetta autostrada comunicativa del futuro, afferma che la “rete” determina la perdita del peso specifico delle informazioni, l’appiattimento dei messaggi ridotti a pura informazione, l’assenza di reazioni inerenti ai messaggi della rete, e determina anche un effetto dissuasivo quanto ai rapporti interpersonali (n. 9). Occorre sempre considerare che oggi la comunicazione della vocazione avviene in un’epoca di comunicazione di massa, e qui sorge il problema.

La comunicazione nell’era telematica è pensata per essere “di massa”, che è differente dalla comunicazione interpersonale (e ciò è immediatamente chiaro), ed è differente anche dalla comunicazione collettiva, nella quale si mantiene sempre un quoziente di relazione e di interdipendenza tra le persone (per es. una comunità). La comunicazione di massa, tra le altre, ha come caratteristica generale e profonda il fatto che i destinatari non ricevono messaggi singolarmente identificabili, ma ricevono degli “insiemi testuali”, in grande numero, e per i quali non c’è una comune grammatica interpretativa (cfr. J. Lozano, Cultura di massa, in “Dizionario di scienze e tecniche della comunicazione”, Cinisello Balsamo (MI) 1996, p. 258). Inoltre, si tratta di un tipo di comunicazione che tende verso una saturazione di tutti gli “assi” della conoscenza, non lasciando alcun spazio al “mistero” ineffabile e imponderabile che invece caratterizza il modulo biblico della vocazione. Ancora, la comunicazione di massa è tendenzialmente unilaterale: l’informazione di ritorno (la “risposta”) è molto attenuata e differita, dal momento che non entra in gioco, se non in minima parte, la percezione selettiva del soggetto. Infine, esiste un effetto di “globalizzazione” anche a proposito della comunicazione di massa. La globalizzazione – in ambito di pedagogia vocazionale – tende a uniformare il livello dei comportamenti e dei modi della loro trasmissione, che diventano così, completamente anonimi. Ma la vocazione non è un essere chiamati per nome, e tratti fuori dall’anonimato della massa?

Per almeno queste ragioni, non si può pensare di appiattire sui moduli tipici della comunicazione di massa,un evento come la vocazione che è sempre l’instaurazione di un rapporto singolo e personale, nient’affatto “di massa”. Di qui l’interrogativo del limite fino al quale sia possibile comunicare (mediare) la vocazione in un regime di comunicazione di massa, e dove intervenga invece la soglia non oltrepassabile. Non essere avveduti di questo fatto può far andare incontro a gap comunicativi che non vengono avvertiti dagli operatori pastorali, la cosiddetta “comunicazione apparente e incomunicabilità reale”, che è poi una comunicazione fallita, ossia una dissimilarità tra il messaggio emesso e il messaggio ricevuto.

 

Verso una “mutazione antropologica” della dimensione temporale

Pierre Babin, che è oggi uno dei massimi esperti del rapporto tra comunicazione e fede, è convinto che il cambiamento culturale indotto dalla comunicazione telematica riguardi le strutture stesse dell’apprendimento e della memoria, nonché dei rapporti sociali e interpersonali. Procurata proprio dall’azione invasiva e pervasiva dei mass-media, sembra essere in atto una mutazione “epocale” nella struttura stessa della percezione temporale da parte dei soggetti: una sorta di “mutazione antropologica”. Mutazione per la quale sembra legittimo porre la domanda radicale se oggi sia ancora possibile, e secondo quali modalità, richiedere alle persone del nostro tempo un impegno di vita che richieda l’adozione di termini come “sempre”, “definitivo”, “perpetuo”, “per tutta la vita”… Quella che oggi viene stigmatizzata come “amnesia collettiva” – nella quale si perde la memoria del passato inseguendo un futuro che scappa davanti sempre più veloce – quali conseguenze avrà, per il soggetto, nel suo modo di concepire il tempo? Gli studi parlano di una destrutturazione della stessa dimensione temporale nella vita del soggetto: una contrazione del futuro, insieme a una dilatazione del presente che porta verso una cultura dell’immediato. Quello che questi studi al massimo concedono, è che, nei soggetti, i progetti si esauriscono in un tempo breve e si compiono negli spazi ridotti dell’esperienza individuale.

Ciò che significano concetti come “cyberspazio”, “tempo reale”, “realtà virtuale”, “mondo artificiale” e simili, e il ruolo che essi hanno nel far esplodere una certa organizzazione della vita, e, conseguentemente, il ruolo che rivestono nel formare nelle persone una concezione “puntuale” del tempo e della vita stessa, oppure una concezione “caotica” (rendendo progressivamente incomprensibili concetti come “memoria”, “storia”, “linearità”, “attesa”, “progetto”); tutto ciò nell’azione pastorale in genere, e in quella vocazionale in specie, è una questione ancora al di là dall’essere affrontata seriamente, ossia a livello di “cultura vocazionale”, e non già soltanto di immediata preoccupazione e di miope allarmismo sui numeri.

Il risvolto vocazionale più immediato di questo problema è la caduta della progettualità, l’indifferenza verso il futuro, che sembra avviata a diventare elemento strutturale della personalità del soggetto, e non una accidentale contingenza. Altro risvolto vocazionale di qualche importanza: l’esperienza umana non può più ragionevolmente venir orientata a modelli che appartengono al passato. Il riferimento qualificante e risolutivo non è più il ritorno alle origini, l’imitazione del già vissuto, il fascino dell’esemplarità. Semmai, si impone una certa attenzione al futuro, anche se nella maniera incerta e precaria della quale si è detto. Una verità oggettiva stabilita una volta per tutte, non ha più il gradimento che riceveva nelle epoche di stabilità e di sicurezza. L’evoluzione e il cambiamento rapidi e imprevedibili mettono in primo piano il “tentativo”, la “ricerca”, che non aspira certo ad essere definitiva.


La moltiplicazione infinita delle possibilità e la dilatazione della libertà

Connessa alla precedente c’è un’altra questione della quale tener conto. Oggi il tempo diventa “labirinto” (P. Ricoeur). Una volta un giovane che si trovava di fronte a diverse alternative, si decideva per una ed eliminava tutte le altre. Oggi la personalità mediatica che si va progressivamente interiorizzando nei giovani, induce a decidere simultaneamente per tutte. Si creano così diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Questa trama di tempi che si accostano, si biforcano, si tagliano e si intersecano, comprende tutte le possibilità. Il tempo non è più lineare, e nemmeno circolare (“l’eterno ritorno dell’identico”, è semplicemente “puntuale”, aperto e senza determinazioni. La situazione psicologica e culturale dei giovani oggi, di fronte alla mole ingovernabile di informazioni e di possibilità che viene loro continuamente e da tutte le parti offerta, potrebbe essere pensata secondo questa modalità assolutamente “possibilista”.

Il discorso su una progettualità nella vita che voglia mantenersi fedele ad un ideale (che potrebbe essere un modo per chiamare la “vocazione”) non può più essere fatto negli stessi termini nei quali è stato fatto finora, in una società che era caratterizzata da “semplicità” (invece che l”attuale “complessità”), da “atomismo” nelle relazioni (invece che l’odierna “globalità”), da “staticità” (invece che l’attuale “accelerazione”); da precisi riferimenti di significato in grado di fornire l’orientamento e il fondamento dell’esistenza (invece che il crollo di ogni “ideologia”, l’assenza del fondamento e il relativismo degli atteggiamenti ai quali si assiste oggi)… Non si può certo pensare che questi fattori siano ininfluenti ai fini delle decisioni del soggetto “nel tempo”.

Dalla rivista americana “Wired”, ecco un “sillabario” di voci che possono rappresentare il glossario di un immediato futuro:

– Congiunzioni disarmoniche quale principio organizzativo di un mondo “caotico” nel quale più nulla avviene come concatenazione di avvenimenti, e nel quale le decisioni vengono prese sulla base di convergenze casuali.

– “Stili di vita situazionali” (con relativo “amore situazionale”) ossia quelli basati sulle “opportunità”/“occasioni” e non sulla lealtà ad un determinato progetto; per vivere nel modo migliore in quella che viene chiamata “società dell’avventura” che risponde al motto: “essere in relazione senza legami” e solo per alleanze temporanee, nelle quali il “progetto” (= vocazione) non è mai l’elemento risolutivo, la sovranità rimane sempre al soggetto. Questo significa il rigetto di qualsiasi “istituzione totale” (come sono la Chiesa e la vita consacrata) che include, esaurisce e fornisce motivazione a tutti gli ambiti della vita del soggetto. Oggi c’è la non comprensione e il rifiuto di tutte le istituzioni e tradizioni che avanzano la pretesa della “totalità”.

– “Flessibilità permanente” (= la capacità di rigenerarsi continuamente a seconda dei mutamenti delle situazioni). A livello vocazionale si potrebbe dire che non è diminuita la volontà di impegnarsi, ma la volontà di decidersi in modo vincolante e a lungo termine.

– “Multipli di te” (= la capacità di ricreare la tua identità a seconda di ciò che richiede la situazione); l’idea di un “quoziente della diversità” (= capacità di sopravvivere, muoversi liberamente e prosperare nell’Era dell’Accesso).

– “Patchwork identity” (“patch-work” è quella coperta composta da riquadri cuciti insieme), (in francese: “bricolage”), ossia un’identità che si compone di singole parti e di esperienze parziali e non segue un modello integrale e totalizzante.

– “Adesione selettiva”: ciò che caratterizza questo tempo non è l’assenza della religione, ma la mescolanza di diversi elementi di varie religioni, e il rapido “consumo” di questi elementi, nello stile del “fast-food”. Se questo oggi è vero per una problematica adesione di fede, come pensare che sia differente per l’accoglienza della vocazione?

Nel Documento presentato dalla Commissione episcopale per il clero nel corso della 46a Assemblea CEI (Maggio 1999) dal titolo: “Linee comuni per la vita dei nostri seminari” i vescovi rilevano che le principali sfide culturali ai quali i seminari sono chiamati oggi a dare una risposta sono: la provvisorietà, la complessità, la soggettività e il disincanto. Se la soggettività la si legge come “autoreferenzialità”, come illimitato esercizio di libertà di scelta sganciato da tutto e in totale potere del soggetto (= la libertà creatrice), allora si capisce come il soggetto di oggi non voglia annegarsi alcuna scelta, alcuna possibilità, perché negarsi ciò sarebbe come rinunciare a qualcosa che non ti capiterà più nella vita. La cultura telematica odierna alleva in serie i Peter Pan, il perpetuo adolescente che confonde la libertà con l’assenza di vincoli.

Una sensibilità per la quale il soggetto, di fronte all’ampio spettro nella possibilità delle opzioni, nulla si nega immediatamente; così come nulla vieta che la scelta attuale compiuta dalla persona, possa precluderne un’altra diversa in una prospettiva a breve o lungo termine. Vi è, pertanto, la tendenza a considerare reversibili tutte le scelte (quando addirittura “indifferenti” tra loro), dal momento che una scelta irreversibile sarebbe considerata come un ostacolo sulla via della propria realizzazione. La realizzazione personale come adesione ad un progetto unico e totalizzante la vita, viene percepita oggi in forte contrasto con le molte opportunità che, invece, la vita mette a disposizione, e per le quali il tempo sembra sempre troppo breve. Inoltre, quella che oggi viene chiamata la “pluralità” delle appartenenze, la “pendolarità” con cui si transita nelle varie condizioni di vita, il “nomadismo” delle identificazioni – necessariamente temporanee e successive – (cfr. il “fare molte esperienze”), non consentono o non facilitano certo nel soggetto una continuità e una congruenza interna. Ci possono essere, allora, piccole fedeltà per piccoli progetti senza grandi sogni.

Il vissuto dei giovani ai quali viene proposta la vocazione, è oggi talmente diversificato, discontinuo e confuso, che è davvero arduo pensare di far passare un progetto unificante e “totalizzante” come la vocazione. Manca un quadro generale, culturale di riferimento che torni a legittimare una tale proposta, come è accaduto fino a non molti decenni fa. Si è in attesa di una nuova sintesi culturale, che forse non verrà perché – dicono gli esperti – non è più tempo di sintesi (come nel Medioevo o nel Rinascimento o nell’Illuminismo). Si vive nel “frammento”, e questa è la paradossale condanna di questi tempi di “villaggio globale”, un prodotto creato dai mass-media. Il puzzle è impazzito, i pezzi non si compongono.

 

La “crisi” delle vocazioni e la legge del mercato globalizzato

In genere si è soliti affermare che la crisi delle vocazioni di specifica consacrazione è sintomo di una crisi più profonda dei valori religiosi e morali, e questa è un’affermazione che ha le sue ragioni di plausibilità; ma non è sufficiente fermarsi a questa constatazione. Occorre – proprio in ragione del boom vocazionale dei paesi cosiddetti “poveri” – analizzare il livello delle “motivazioni” di una vocazione (e non tanto motivazioni a livello psicologico), al suo non essere, la vocazione, una variabile indipendente, bensì al suo essere fortemente debitrice al contesto sociale, al “brodo di coltura” nel quale essa fiorisce. Un esempio tipico è quello del modello familiare.

Se non sono possibili “ritorni” a modelli familistici del passato; se è improponibile una pastorale voca-zionale di pura tutela e conservazione delle aree geografiche nelle quali è ancora, per poco, presente un modello tradizionale, rurale, patriarcale di famiglia, culla di vocazioni; occorre approntare strategie e tattiche per i nuovi scenari che stanno sorgendo. La tendenza ad imporsi da parte del nuovo modello di famiglia “sfavorevole” alla vocazione, sembra una tendenza su scala mondiale, per cui non sarà possibile costituire delle “zone protette”, nelle quali far sopravvivere gli ultimi esemplari – in via di estinzione – di famiglie “tradizionali”, ricche riserve di vocazioni: la secolarizzazione della mentalità e dei costumi, l’urbanizzazione della società, la frammentazione e pluralità del vivere delle persone (tutti fattori che determinano la struttura della famiglia), sembrano, nell’attuale frangente storico, fenomeni irreversibili e in rapida espansione “colonizzatrice” delle mentalità e dei costumi a livello planetario. Concausa – se non principale causa – la comunicazione di massa e l’era telematica.

Allora è pensabile che il fenomeno della globalizzazione si stia progressivamente attuando anche a livello religioso e sul versante delle vocazioni? Che il modello societario sarà livellato ed unico (cfr. il “Villaggio globale” di Marshall McLuhan); che tra poco non ci saranno più isole felici, o oasi floride dal punto di vista vocazionale nelle quali andare a “trovare” le vocazioni per tutto il restante pianeta “desertificato”? L’Occidente è chiamato a risolvere “in casa propria” il problema delle vocazioni, senza aspettarsi miracolistici soccorsi “numerici” dall’esterno, perché, in breve tempo, il generoso serbatoio “non-occidentale” si troverà, verosimilmente, a doversi confrontare con le medesime difficoltà che oggi attanagliano l’Occidente. Sembra di poter dire che – a livello mondiale – non si possono cullare facili illusioni sui numeri delle vocazioni contando sul movimento dei “mercati”, perché tra non molto il “mercato” anche in questo campo delle vocazioni, sarà un mercato “unico”. Da questo punto di vista il Documento elaborato dal Congresso sulle Vocazioni in Europa, unisce bene un sano realismo, una indovinata ed esauriente diagnosi della situazione; insieme con indicazioni e linee di approfondimento che sono un’apertura e un autentico invito ad esplorare il problema delle vocazioni in Europa con coraggio e con fiducia nello Spirito, che potrebbe soffiare di nuovo sulle “ossa vocazionalmente aride” dell’Occidente post-cristiano.

 

Alcuni percorsi possibili

Un’indicazione di metodo. Deve cambiare la pastorale vocazionale nell’era telematica? Deve reinventarsi. Non può riposarsi su niente di acquisito. Se credeva di aver raggiunto delle certezze fruibili per almeno qualche decennio, le deve rimettere in gioco. Sì, ci sono alcuni punti che non sembrano più controvertibili, e si trovano tutti bene esposti nel Documento: Nuove Vocazioni per una Nuova Europa. Ma non se ne faccia un feticcio. Se si crede di avere in mano la “Magna Charta” della pastorale vocazionale per i prossimi… 50 anni? già si comincia a restare indietro. Se c’è una certezza nella pastorale vocazionale (che non è la dogmatica) è quella di non avere certezze assolute, di avere pochi punti fermi, e nessuna voglia di mettere i puntini sulle “i” (ossia di precisare tutto minuziosamente).

La pastorale vocazionale, soprattutto oggi, deve adottare il massimo di intelligente flessibilità. Occorre immaginare il sistema della pastorale vocazionale come un modello scientifico (anche se si sa bene che c’è differenza tra le scienze della natura e le scienze umane). Per esempio, la teoria della relatività generale, come tutti i modelli scientifici moderni, è una teoria con una sola invariante. Quale costante naturale, valida per qualsiasi parametro di riferimento, resta solo la velocità della luce nel vuoto, secondo le equazioni di Maxwell. Ecco, nella pastorale vocazionale oggi, questa sola invariante, questa “velocità della luce nel vuoto” è la Parola di Dio. Tutto il resto è “in gioco”.

La vocazione nella sua realtà teo-logica non cambia, ma tutto il resto sì, anche nella sua stessa realtà antropologica (si è parlato di “mutazione antropologica”), figuriamoci nelle sue coordinate psicologiche, sociologiche (che cambiano con una rapidità impressionante) e – da parte degli operatori – cambiano le coordinate pedagogiche e pastorali. Un’indicazione di contenuto sul quale incamminare il discorso di una pastorale vocazionale che riesca davvero a comunicare in un’epoca telematica, in un’epoca della comunicazione che paradossalmente non comunica: l’indicazione è teologica e antropologica, (riscoperta dalla teologia “non debole” di Bruno Forte, e dalla filosofia “non debole” di E. Lévinas, M. Buber e, in Italia, di I. Mancini), e può essere praticata nella pastorale della vocazione. L”indicazione, molto generale, è “l’altro”. Che sia questa la strada da percorrere lo si evince, indirettamente, da quanto detto da A. Cencini nella relazione tenuta alla riunione USG del 26-29 Maggio scorso: ha parlato dello “smarrimento della relazione” costitutiva con l’altro, come segno di crisi nella vita consacrata.