N.03
Maggio/Giugno 1999

Il discernimento della vocazione del diacono

Reverendissimo Padre, la Santa Madre Chiesa chiede che questo nostro fratello sia ordinato diacono. Questa è la solenne richiesta che viene rivolta al vescovo all’inizio del rito di ordinazione e si presume non sia soltanto una formula liturgica pronunciata al momento della celebrazione, ma rappresenti davvero la conclusione di un cammino in cui “tutta la chiesa”, nelle sue diverse componenti (comunità, suo responsabile, vescovo) abbia contribuito, ciascuno per la sua parte, al discernimento della vocazione al ministero che viene conferito con l’ordinazione.

 

Il ministero apostolico

In generale, la designazione di un cristiano ad un certo servizio avviene in tre modi:

1. per designazione di Gesù: quella dei Dodici e degli apostoli chiamati a testimoniare la visione del Risorto;

2. per ispirazione dello Spirito Santo: secondo la lista dei carismi di Rm 12, 6-8; 1Cor 12, 8-11; 1Cor 12, 48; Ef 4, 11 (profezia, diaconia, didascalia, esortazione, sapienza, conoscenza, ecc.) in quanto fondati sulla fedeltà al kerigma e alla costruzione della chiesa;

3. per designazione della chiesa, in quanto il carisma diventa operante per un atto d’elezione e di missione che avviene nella comunità cristiana.

È il caso dei presbiteri-episcopi, cioè gli anziani che hanno una funzione di controllo e di sorveglianza al gregge (At 14, 23; Tt 1, 5) con i quali il passaggio dalla chiesa apostolica a quella sub-apostolica avviene con l’istituzione di un ministero voluto dagli apostoli, incaricato della guida delle comunità nelle età future, come indispensabile continuità della trasmissione nel tempo dell’unico messaggio fondante la chiesa, cioè il messaggio apostolico.

A questi possiamo affiancare anche l’elezione dei Sette di At 6, 1-6 (per essi non si può parlare ancora di “diaconi” in senso proprio, anche se l’attuale rito di ordinazione ne fa menzione insieme ai leviti) come collaboratori degli apostoli, caratterizzata dalla “imposizione delle mani”, oltre che dall’elezione da parte della chiesa e dalla presenza dei doni dello Spirito. La designazione dei presbiteri-episcopi, come l’elezione dei Sette, si manifesterà nell’articolazione precisa della terna vescovi-preti-diaconi soltanto in un secondo tempo[1], ma certamente sin dall’origine essi rappresentano, seppure in modi diversi, il carisma della “fondazione apostolica” della chiesa e della sua missione. “Se ci sono ragioni valide per una concentrazione del concetto di successione apostolica nella figura dei vescovi, non è detto che non si debba parlare prima di tutto della successione apostolica del ministero ordinato in generale. Questo in fondo è il senso dell’imposizione delle mani: significare e dare il carisma della radice apostolica. Quindi, in linea di massima, è tutto il ministero ordinato globalmente inteso che realizza la successione apostolica, in quanto l’imposizione delle mani ha la grazia e il compito di essere per la chiesa lo strumento del suo indispensabile aggancio alla missione apostolica”[2].

 

 

Il ruolo della comunità

Ogni comunità cristiana è chiamata a favorire il riconoscimento delle diverse vocazioni, così da essere strumento diretto di chiamata per i ministeri. Per quanto riguarda le vocazioni agli stati di vita (verginità e matrimonio) e ai ministeri (di fatto, istituiti, ordinati), la diversa natura dei rispettivi carismi implica una diversa funzione della comunità. Per gli stati di vita la funzione della comunità consiste soprattutto nel fornire segni visibili delle diverse vocazioni, e favorire il carisma del consiglio e della direzione spirituale. Per i ministeri la comunità ha una funzione più diretta nel riconoscere l’idoneità e quindi nel formulare la chiamata. Si può dire perciò che la vocazione ai ministeri è chiamata della chiesa che trova come criterio ultimo e determinante il giudizio del vescovo sull’idoneità e retta intenzione del soggetto[3].

Per quanto riguarda il diaconato, aperto anche a uomini sposati (l’ordinazione stabilizza soltanto lo stato di vita del soggetto), è stato possibile attuare la chiamata da parte della comunità cristiana attraverso vere e proprie elezioni dei soggetti da presentare al vescovo. Il primo documento italiano sul ripristino del diaconato permanente riconosceva espressamente questo ruolo della comunità affermando: “Prima di ammettere un candidato all’ordinazione diaconale, il vescovo ne valuterà le qualità, consultando anche le comunità ecclesiali in cui è vissuto per assicurarsi che egli possa esercitare un valido ministero[4]. Ma quello che è importante notare è che non si tratta di una generica consultazione delle comunità, in quanto queste sono chiamate a individuare e segnalare al vescovo “coloro che già esercitano un servizio apostolico”. Infatti “appare criterio normale per la scelta dei candidati chiamare all’ordinazione chi già di fatto esercita un servizio apostolico nell’ambito di una comunità[5].

Da un’indagine effettuata nel 1997[6] risulta che soltanto il 9% delle diocesi, che hanno ripristinato il diaconato permanente, ha seguito questa prassi di consultare le comunità ecclesiali, mentre per il resto il discernimento iniziale è stato compiuto dal prete responsabile della comunità. Così ne è scaturito il testo del successivo documento della CEI[7], dove viene precisato che gli aspiranti “siano ordinariamente presentati dal proprio parroco, il quale si farà premura di usufruire delle opportune consultazioni, sentendo, quando occorra, anche i responsabili delle realtà ecclesiali alle quali gli aspiranti appartengono e nelle quali operano”. In questo modo, mentre dai primi documenti della CEI risultava che referente del vescovo “in via ordinaria” era la “comunità” (non escluso ovviamente il suo responsabile), secondo l’attuale normativa, invece, il principale ed unico referente è il parroco, “il quale si farà premura di usufruire delle opportune consultazioni”, di cui però non si precisa né la natura (se facoltativa o obbligatoria), né alcuna modalità. Ma la Ratio fundamentalis[8] dispone: “La decisione di intraprendere l’itinerario della formazione diaconale può avvenire o per iniziativa dell’aspirante stesso o per esplicita proposta della comunità cui l’aspirante appartiene. In ogni caso tale decisione deve essere accolta e condivisa dalla comunità”. C’è da domandarsi, allora, se la chiesa oggi sia pronta per generare ed accogliere il diaconato, in quanto esso suppone una chiesa comunione e tutta ministeriale.

 

 

L’identità del diacono

Il discernimento della vocazione e l’identità del ministero sono aspetti necessariamente connessi e complementari, poiché, in qualsiasi modo il discernimento sia operato, esso richiede la conoscenza degli elementi costitutivi di quel ministero che dovrebbe essere conferito ad un soggetto il più possibile idoneo al ministero stesso. Dopo secoli di assenza del diaconato, se non quello di transizione al presbiterato, soprattutto dopo secoli in cui si è vista al centro della chiesa la figura del “sacerdote” (come ancora oggi da noi viene chiamato il “presbitero”), che si riteneva fosse inferiore al “vescovo” soltanto per la minore potestà di giurisdizione[9], si può dire del diaconato tutto e il contrario di tutto. Si fa per dire, ma certamente bisogna far chiarezza almeno su alcuni punti. Il primo riguarda la stessa definizione che LG 29 dà del diaconato: “In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani non per il sacerdozio, ma per il ministero[10]. Da questo testo sono nati non pochi equivoci. In particolare, per chi fa coincidere la “sacramentalità” con il “sacerdozio” ne consegue che il diaconato non sia sacramento, come sostiene Beyer. Non solo, ma secondo una concezione “lineare” o “a scalini” del ministero ordinato, ne deriverebbe anche la subordinazione del diaconato al presbiterato. Ma questi problemi sono stati superati oggi dalla teologia, che rifacendosi al testo originale della Tradizione apostolica di Ippolito “non per il sacerdozio, ma per il ministero del vescovo (la specificazione “del vescovo” era stata eliminata dagli Statuta ecclesiae antiqua, un documento del V secolo in funzione, per così dire, antidiaconale) e soprattutto richiamandosi alla sacramentalità dell’episcopato, vede nel presbiterato e nel diaconato due forme di collaborazione del vescovo[11]. Nella migliore delle ipotesi, però, partendo solo da questo testo, si finisce per arrivare ad uno “sdoppiamento” del ministero del vescovo, per cui della funzione sacerdotale sarebbero partecipi i presbiteri, mentre di quella ministeriale o diaconale sarebbero partecipi i diaconi[12]. Su posizioni opposte si pone, invece, A. Kerkvoorde[13] il quale, escludendo che il testo di Ippolito possa essere messo a fondamento di una teologia del diaconato e, in particolare, del rapporto presbiteri-diaconi, sostiene che la questione è molto più complessa. Infatti egli fa rilevare che LG 29 indica le diverse funzioni del diacono, ricapitolate nella triplice diaconia della liturgia, della parola, della carità, ma non c’è alcuna menzione dell’“assistere all’altare”, che è la funzione più stabile e tradizionale di tutta la storia del diaconato, della sua teologia e sacramentalità. A questa “dimenticanza” pone onorevolmente rimedio l’Ad gentes 16[14] con le parole “e siano saldamente congiunti all’altare”. In particolare questo autore sostiene che la partecipazione o meno dei diaconi al sacerdozio ministeriale dipende dal come lo si intende: o come il potere, riservato ai presbiteri e ai vescovi, di pronunciare nel nome di Cristo, nel banchetto eucaristico, di cui sono presidenti legittimi, le parole della consacrazione, mentre i diaconi sono non i presidenti, ma i “servitori” della mensa; o come il servizio generale dell’altare, riservato ai tre gradi della gerarchia sacramentale, vescovi, presbiteri, diaconi, ciascuno secondo il suo ordine. Ma soprattutto egli afferma che la vera identità del diaconato si trova nella “situazione gerarchica intermedia” tra quella dei “presidenti” della chiesa e quella dei fedeli o laici. Una tesi analoga era alla base del Motu proprio Ad pascendum[15], che considera il diaconato: 1. ordine intermedio tra i gradi superiori della gerarchia e il resto del popolo di Dio; 2. interprete delle necessità e dei desideri delle comunità cristiane; 3. animatore della diaconia della chiesa; 4. sacramento di Cristo Signore il quale non venne per essere servito ma per servire. Questa dimensione del diaconato è confermata anche dal recente Direttorio[16]. In particolare, per quanto riguarda il “servizio dell’altare” si afferma: “al ministero del vescovo e, subordinatamente, a quello dei presbiteri, il diacono presta un aiuto sacramentale, quindi intrinseco, organico, inconfondibile”; e ancora: “Ne consegue che nell’offerta del sacrificio, il diacono non è in grado di compiere il mistero, ma, da un lato, rappresenta effettivamente il popolo fedele, lo aiuta in modo specifico ad unire l’oblazione della sua vita all’offerta di Cristo; e dall’altro serve, a nome di Cristo stesso, a fare partecipare la chiesa dei frutti del suo sacrificio”. 

Un altro punto di non secondaria importanza per un adeguato ripristino del diaconato è quello che riguarda la sua natura “costitutiva” del ministero ordinato o, invece, quella soltanto “pastorale”. La recente Ratio fundamentalis[17] ha stabilito che la restaurazione del diaconato permanente in una nazione non implica l’obbligo della sua restaurazione in tutte le diocesi, ma il vescovo, sentito il consiglio presbiterale e, se esiste, quello pastorale, procederà o meno al riguardo, tenendo conto delle necessità concrete e della situazione specifica della sua chiesa locale. Anche il recente “Calendario dell’anno santo 2000”[18] conferma una prassi a dir poco equivoca riguardo al diaconato. Infatti in esso si afferma che nel 2000 “è prevista la celebrazione solenne di tutti e sette i sacramenti” in date diverse: “…dell’Ordine sacro nella solennità dell’Epifania (6 gennaio) per le ordinazioni episcopali e nella IV domenica di Pasqua (14 maggio) per le ordinazioni presbiterali”. Il diaconato è così del tutto ignorato, come se non facesse parte dell’unico sacramento dell’ordine, a conferma di una prassi ecclesiale che non aiuta in nessun modo a fare chiarezza sul ripristino del diaconato operato del Concilio. È pertanto da condividere la tesi sostenuta da B. Pottier[19], secondo cui “una teologia più pneumatica potrebbe farci percepire i ministeri non come subordinati gli uni agli altri, ma come complementari… Il fatto che nessuno dei tre gradi possa fare a meno degli altri due significa che è solamente insieme che essi rappresentano Cristo, unico grande sacerdote”. Per questo l’A. ritiene che l’attuale pratica del diaconato come tappa di passaggio al presbiterato rischia di togliere al diaconato la sua identità, in quanto esso non può essere semplicemente un “tempo di prova” in vista di qualcos’altro. Infatti, per i futuri preti lo scopo perseguito dal “diaconato provvisorio in vista del presbiterato” è l’entrata nel clero con l’impegno del celibato e l’incardinazione, effetti soltanto strumentali che potrebbero ottenersi direttamente dall’ordinazione presbiterale per quei ministri che la chiesa non destina al diaconato in via definitiva. La chiesa, invece, ha fatto la scelta di due forme di diaconato: quello di transizione per il presbiterato e quello cosiddetto permanente, benché il diaconato come sacramento sia “unico”[20].

Concludendo, il diaconato “come grado proprio e permanente della gerarchia”[21] dovrebbe essere punto di riferimento stabile, cioè sacramentale e costitutivo del ministero ordinato, per il servizio, con particolare attenzione ai lontani, ai più poveri e ai sofferenti, così da introdurli, con la parola di Dio e la carità, a sperimentare nell’Eucaristia la comunione come momento decisivo del Regno. Per questo il servizio della Parola e della carità del diacono sono sempre finalizzati all’Eucaristia. Oggi il pericolo maggiore non consiste tanto nel fatto che i diaconi possano svolgere con zelo e talora in prevalenza il servizio all’altare, quanto piuttosto che essi esauriscano il loro ministero in una dimensione puramente sociologica della carità, trascurando cioè l’annuncio della Parola e il servizio all’altare, di cui sono “intermediari” tra la presidenza e il resto del popolo di Dio. Certamente il diaconato, come dicono i francesi, è anche il ministero della “soglia”, in quanto i diaconi dovrebbero arrivare, partendo dall’altare, “sulla soglia” e anche fuori della chiesa, là dove non possono arrivare né preti, né vescovi. Ma tutto questo non tanto come nuovo strumento organizzativo di una chiesa “estroversa”, quanto piuttosto come “segno” del dono di grazia che è dato solo dallo Spirito per mezzo di Cristo Signore e servo di tutti. Il diaconato non è una generica ministerialità a tutto campo, un volontariato stabilizzato e caratterizzato da una grazia, ma è “un grado del ministero ordinato” e, come tale, di origine apostolica con tutto quello che ne consegue.

 

 

 

Note

[1] IGNAZIO D’ANTIOCHIA, “è necessario che anche i diaconi, i quali sono ministri dei misteri di Gesù Cristo, riescano in ogni modo di gradimento a tutti. Essi infatti non sono diaconi che distribuiscono cibi e bevande, ma ministri della chiesa di Dio”. Così si esprimeva, già nel 100 dopo Cristo, Sant’Ignazio nella Lettera ai Trallesi (II), mentre addirittura affermava nello stesso scritto (III) che “senza vescovi, presbiteri, diaconi non si ha chiesa”.

[2] S. DIANICH, Teologia del ministero ordinato. Una interpretazione teologica, Bologna 1993, pp. 111 ss. Vedi anche LG 21: “dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione la grazia dello Spirito Santo è così conferita”.

[3] Cfr. Acta Apostolicae Sedis, Città del Vaticano, 15-VII-1912, p. 485.

[4] CEI, La restaurazione del diaconato permanente in Italia (dicembre 1971) n. 29.

[5] CEI, Norme e direttive per la scelta e formazione dei candidati al ministero diaconale, aprile 1972, n. 8. Per esercizio apostolico di fatto s’intende il servizio in ordine alla Parola, alla liturgia, alla carità.

[6] Cfr. V. CENINI, Il percorso della vocazione al diaconato permanente, in Il diaconato in Italia, Quaderni 106 (1997), 32.

[7] CEI, I diaconi permanenti nella chiesa in Italia. Orientamenti e norme (giugno 1993), n. 12.

[8] CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti (22 febbraio 1998), n. 40. Il documento prevede una nuova struttura per la formazione, costituita dal Direttore per la formazione; da uno o più tutori, che accompagnano gli aspiranti e i candidati; dal direttore spirituale, scelto da ogni aspirante o candidato e approvato dal vescovo; da un parroco o altro ministro; dai professori.

[9] Ancor oggi, nonostante il Concilio abbia dichiarato la sacramentalità dell’episcopato (“Insegna quindi il Santo Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, somma del sacro ministero”, LG 21), J. Beyer invece afferma: “Il sacramento del sacerdozio, conferito in quanto presbitero, sarebbe il sacerdozio completo, ma legato quanto al suo esercizio; non si esercita pienamente se non dai presbiteri che sono ordinati vescovi o per privilegio, come per molti abati a favore dei loro monaci”. Lo stesso A. ritiene che il diaconato non è sacramentale, ma missione ministeriale. Il diaconato, infatti, conferirebbe una grazia che rafforzerebbe la missione del cristiano che in tal modo è “consacrato” e “mandato” a compiere un servizio ecclesiale. Dal momento che LG 29 dice che “i diaconi sono sostenuti dalla grazia sacramentale”, sembrerebbe che il diaconato, secondo questo A., sia un “altro genere” e non un “altro grado”, rispetto al presbiterato e all’episcopato, poiché “il sacramento dell’ordine è  il sacerdozio […]. Non vi è alcun atto posto da un diacono che non possa essere posto da un laico” (J. BEYER, Il diaconato permanente nell’attuale vita della chiesa, in Quaderni di diritto ecclesiale 2 (1997), pp. 135-136. In antico la non sacramentalità del diaconato era sostenuta da Caietano, Bellarmino e S. Alfonso Maria de’ Liguori. Inoltre dal Medioevo e dalla Scolastica tutta la teologia si è concentrata sul sacerdozio e sui poteri sacramentali del presbitero da allora divenuto il “sacerdos” propriamente detto.

[10] In proposito si veda il mio scritto: Il diaconato nella lex orandi: “non per il sacerdozio, ma per il ministero”, in Il diaconato in Italia 101-102 (1996), p. 7 s.

[11] “I vescovi dunque assunsero il servizio della comunità con i loro collaboratori, presbiteri e diaconi” (LG 20); “Il ministero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi” (LG 28).

[12] Cfr. in particolare J. COLSON, La function diaconale aux origines de l’Eglise, Paris 1960; Y. CONGAR, Diacres aujourd’hui, marzo 1960, p. 14; A. BORRAS – B. POTTIER, La grâce da diaconat. Questions actuelles autour da diaconat latin, Bruxelles 1998.

[13] A. KERKVOORDE, Abbozzo di una teologia del diaconato, in Il diaconato nella chiesa e nel mondo, Padova 1968.

[14] “È bene, infatti, che uomini, i quali, di fatto, esercitano il ministero di diacono, o perché come catechisti predicano la parola di Dio, o perché a nome del parroco e del vescovo sono a capo di comunità cristiane lontane, o perché esercitano la carità attraverso appunto le opere sociali e caritative, siano confermati e stabilizzati per mezzo dell’imposizione delle mani, che è tradizione apostolica, e siano più saldamente congiunti all’altare, per poter esplicare più fruttuosamente il loro ministero con l’aiuto della grazia sacramentale del diaconato” (Ad gentes 16).

[15] PAOLO VI, Motu proprio Ad pascendum (15 agosto 1972).

[16] CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti, (22 febbraio 1998), n. 28.

[17] CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti, n. 16.

[18] COMITATO CENTRALE E CONSIGLIO DI PRESIDENZA PER IL GIUBILEO DEL 2000, Calendario dell’Anno Santo 2000 (21 maggio 1998) n. 7. Il segretario generale, che ha sottoscritto questo documento, è mons. Crescenzio Sepe che, prima di passare al Comitato per il Giubileo, aveva ricoperto la carica di segretario della Congregazione per il clero e in tale veste è stato il principale artefice del Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti.

[19] B. POTTIER, Rivisitare la sacramentalità del diaconato, in Discernere oggi, a cura di G. BELLIA, Reggio Emilia 1998, p. 79.

[20] Nelle Premesse al rito di ordinazione è precisato che il diaconato è “unico” e che, pertanto, lo stato di vita dei candidati non è essenziale (n. 203).

[21] LG 29.