N.02
Marzo/Aprile 1999

Chiamati a ritornare. Appunti biblici sul rapporto tra vocazione e conversione

Per precisare l’angolatura delle nostre riflessioni ci rifacciamo ad una storia classica, la semplicità del racconto ci sintonizza con la riflessione sapienziale. “Il nipote di R. Baruch giocava una volta a rimpiattino con un altro ragazzo. Egli si nascose e stette lungo tempo là ad attendere, credendo che il compagno lo cercasse e non riuscisse a trovarlo. Ma dopo che ebbe aspettato a lungo uscì e non vedendo più quell’altro, capì che costui non l’aveva mai cercato. E corse nella camera del nonno piangendo e gridando contro il cattivo compagno. Con le lagrime agli occhi R. Baruch disse: ‘Lo stesso dice anche Dio’”.

È tutta questione di desiderio, è tutta questione di relazione. Vorremmo parlare di vocazione e di conversione con la stessa lunghezza d’onda, poiché ci pare di poter fare la seguente affermazione: essere in vocazione non è tanto intuizione iniziale ma è piuttosto mantenersi in un amore, essere in relazione costante verso un Tu che attrae e da cui ci allontaniamo irresistibilmente…

Vorremmo “teorizzare” la fatica della fedeltà, affermarne la connaturalità con il nostro essere uomini e donne, dirci con semplicità che il giusto pecca sette volte in un giorno e che lasciamo sovente di cercare il nostro Dio, come bambini che non sanno stare al gioco. La fedeltà alla vocazione è fatta di infiniti, quotidiani ritorni. Quando il ritorno tarda a venire e cresce la separazione, solo quando in questa situazione sentiamo acuta la sofferenza della lontananza e ci lasciamo sopraffare dalla nostalgia per quell’Amore che ci ha preceduto, solo allora la vocazione, a poco a poco, si fa storia nostra[1].

 

Vocazione e ritorno nei profeti

Ci poniamo alla scuola dell’Evangelo perché il Maestro ci dica, raccontandoci gli incontri da Lui avuti sulle strade della Palestina, quante volte ha dovuto ripetere ai suoi “seguimi”. Una sola, solo il mattino del lago, quando, lasciato tutto, lo seguirono? Metterci in ascolto dell’Evangelo significa anche ricercarne, con accuratezza, le radici. Farci ritornare alla memoria che mai, nelle Scritture ebraiche, si parla di conversione al di fuori del contesto di alleanza. L’invito, spesso accorato, di Dio è infatti rivolto al suo popolo, quel popolo a cui si è legato con patto d’amore. È a quel popolo che Egli si è scelto che il Signore si rivolge e alla sua sposa chiede di tornare a ciò che già conosceva: l’amore degli inizi (cfr. Osea 2).

Possiamo fare un’ulteriore riflessione: come nel rapporto di fede-alleanza Colui che prende l’iniziativa è Dio, così quando si tratta di riannodarne i fili. Proclamava Geremia: “Ritornate, figli traviati, io risanerò le vostre ribellioni” (Ger 3,22). L’assoluta e gratuita priorità dell’iniziativa divina esige una risposta. E la risposta consiste in un “tornare indietro, un volgersi” più teologico che fisico, a Colui che chiama. L’Antico Testamento descrive tale atteggiamento col verbo shub. Lasciando agli studi biblici di analizzarne testi e contesti citiamo qui solamente l’uso fattone nel capitolo 6 di Isaia, poiché ci offre la possibilità di cogliere il nesso fortissimo tra vocazione e conversione. Infatti, dopo che il Signore ha purificato con il fuoco le labbra del suo profeta, gli consegna un messaggio altrettanto incandescente: “Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d’orecchi e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi, né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito” (Is 6,10). La santità di Dio, rivelatasi nel tempio, aveva avvolto di timore e tremore l’uomo Isaia, gli aveva fatto crudamente percepire la infinita distanza dal Santo. Eppure proprio l’iniziativa gratuita del Santo lo ha raggiunto, chiamato-convertito[2].

I suoi occhi che hanno visto diverranno testimoni per quegli occhi che non potranno vedere. Vedere l’Invisibile per raccontare ai fratelli la sofferenza di dover non-vedere. Vocazione a lasciarsi convertire, col fuoco, perché Colui che è fuoco divorante possa purificare tutto il popolo attraverso la lontananza e la deportazione. Isaia ha sperimentato in sé una chiamata a lasciarsi rendere santo dal Santo; ha vissuto, nella grazia del suo sostare nel tempio, una separazione, un patire Dio e la sua azione, anche per il suo popolo che l’avrebbe patita, per mano di nemici, alcuni anni più tardi.

 

 

 

Convertirsi, credere, seguire. 

 

Volgersi-ritornare nei Vangeli

Continuiamo a lasciarci condurre dallo shub che la versione greca dei 70, seguita dall’Evangelo, traduce con epistrepho[3]. Il termine si trova solo una volta in Marco e Matteo, quando gli evangelisti citano il testo isaiano; Luca lo usa per descrivere il volgersi di Pietro dopo il tradimento; Giovanni lo cita a proposito dell’incapacità della folla di credere in Lui nonostante i segni compiuti.

Interessante è l’uso che ne fa Giovanni nel capitolo 20 quando, il mattino della risurrezione, Maria chiamata per nome “si voltò e vide”. C’è un’infinita gratuità in questo voltarsi, poiché scaturisce non dalla debole fede di Maria, chiusa nel pianto, ma dalla libera e gratuita azione del Risorto. Gli occhi di Maria vedono perché il Signore si offre gratuitamente a lei. Egli è Signore e con questa signoria si concede: con la risurrezione non è più in possesso degli occhi di nessuno. Parafrasando Sartre che scriveva: “Se mi guarda io ho coscienza di essere oggetto” possiamo dire che il Risorto è sottratto ad ogni cosificazione, ad ogni possesso e a chi si lascia espropriare, anche del proprio pianto, egli si mostra e parla. Il volgersi di Maria si attua per gradi[4]. È un accogliere la chiamata per nome come ritorno totale al Signore, totalmente nuovo e sconvolgente, fruibile solo nella fede, esigente al punto da chiedere a una donna (la prima comunità) di farsi carico della sua stessa missione.

 

Seguire Gesù in Marco[5]

Convertirsi, credere, seguire: questa sequenza costituisce il portale d’ingresso dell’Evangelo di Marco e accompagna tutto l’itinerario di sequela fino alla croce, fino a quel “veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (15,39). Ma il passaggio tra questi verbi-atteggiamenti è tutt’altro che semplice o scontato: tutto l’evangelo di Marco sta a testimoniarlo. La croce fa paura, è scandalo e inciampo per chi vuol farsi discepolo.

Per evidenziarlo analizziamo sinteticamente la sezione che va da 8,22 a 10,52, cioè dal cieco di Betsaida al cieco di Gerico. Vi sono ininterrotti richiami alla fatica di seguire quel Gesù che si autorivela in modo così sconvolgente (8,31-33; 9,30-32; 10,32-34). L’inizio del discepolato è cecità che solo progressivamente si lascia sanare, poiché, per seguire Gesù, bisogna vedere-credere con quegli occhi che Egli concede. Ci si deve lasciar porre non solo in una nuova luce, ma in una nuova capacità visiva.

Per approfondire il senso mistico di queste affermazioni ci si può rifare all’esperienza paolina: “la vita che vivo nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi amò” (cfr. Gal 2,20). La fede è trasformazione radicale della capacità di entrare in relazione di conoscenza con il mondo e il discepolo la acquisisce per virtù del suo rapporto con il Risorto. 

“Voi chi dite che io sia?”: a questa domanda, cuore dell’Evangelo e cuore del discepolato, non si risponde senza aver fissato gli occhi sulla croce. Non si segue senza aver indugiato a lungo sul Volto di Colui che chiama così da riconoscerne i tratti anche nei chiaroscuri che segnano ogni cammino. Distogliere gli occhi da Colui che, morendo in quel modo, mostra quanto ci ama e quanto sia onnipotente la sua impotenza, significa cessare di essere discepoli.

“Prese a seguirlo”: termina così il miracolo di Bartimeo, cieco delle strade di Gerico, ma il suo vedere si apre subito su Gerusalemme, la città dell’estremo amore. Lì devono fissarsi gli occhi di ogni chiamato e indugiare… Forse è per questo che il giovane ricco non si è fatto discepolo. Il brillio degli occhi con cui il Maestro lo ha guardato non è riuscito a fugare dai suoi non il dubbio (lo ha riconosciuto come maestro), ma la paura. È la paura la vera nemica della conversione-vocazione. Paura di perdere le proprie cose e la propria autonomia, paura di un incontro che espropria, fino all’inverosimile, paura di un cammino in cui la libertà stessa si fa rischio.

“Forse è per questo che il Vangelo termina in modo ambiguo, con le donne davanti al sepolcro vuoto: ‘E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura’ (16,8). Una simile ambivalenza lascia sulle spalle del lettore-uditore del Vangelo tutto il peso dello sforzo di capire. Le donne sono chiamate a prendere una decisione: o lasciare che la paura impedisca loro di obbedire al comando dell’angelo di annunciare la risurrezione, o superarla e proclamare il Vangelo…. È probabile che abbiano optato per la seconda soluzione… ma Marco non lo dice. Chiunque aspiri a diventare discepolo di Gesù si troverà di fronte alla stessa alternativa delle donne e sarà costretto a operare le stesse scelte descritte da Marco per i seguaci di Gesù”[6].

 

Pietro, icona del chiamato che ritorna

Per concludere questi brevi appunti possiamo indicare alcuni tratti della ricca esperienza di Pietro, poiché in lui appare in modo chiarissimo la costituiva debolezza del chiamato che continuamente deve essere ri-chiamato dal proprio Maestro. “Egli è il pescatore di Betsaida chiamato a diventare pescatore di uomini mettendosi alla sequela di Gesù (Mc 1,17); è il povero Simone che con l’imposizione del nome Pietro riceve il dono e la responsabilità di una particolare vocazione da adempiere (Mc 3,16); è l’uomo fragile e debole chiamato a diventare Cefa, roccia di fondamento e di stabilità nella comunità del suo Signore (Mt 16,18); è il peccatore, l’uomo dalla fede vacillante, colui che, come pecora che si smarrisce, arriva a rinnegare il suo Signore (Gv 21,17)”[7].

È interessante che, proprio nel momento centrale del suo Vangelo, Marco usi il verbo epistrafeis per indicare il repentino volgersi di Gesù verso Pietro. Pare quasi che il Signore debba convertirsi nuovamente a quella vocazione da cui il discepolo cercava di distoglierlo. In effetti era il discepolo che, volendo farsi maestro, si sottraeva alla sequela (cfr. Mc 8,33).

Pietro è colui che sprofonda nella propria fragilità e paura, che non riesce a portare a compimento il cammino dietro a Gesù: è l’episodio narrato dal solo Matteo (14,28-31) del cammino sulle acque. Ed ancora il solo Matteo contrappone i due nomi di Pietro Cefa e scandalo: “Tu sei Pietro” (Mt 16,18); “Tu mi sei di scandalo” (Mt 16,23). Come in Matteo così anche in Luca e Giovanni è evidente un nesso profondo tra la missione di Pietro e la sua debolezza. Egli, la roccia che deve confermare i fratelli, è il primo di cui viene sottolineata la fragilità.

Se fissiamo l’attenzione sull’invito che il Signore gli rivolge, durante la Cena, a confermare i fratelli dopo essersi ravveduto (Lc 22) e sul pianto di Pietro guardato da Gesù dopo il rinnegamento (Lc 24); come pure sulla tristezza che fa seguito alla triplice domanda del Risorto “mi ami tu?”, allora possiamo confermare l’ipotesi da cui siamo partiti. Veramente la fedeltà alla propria vocazione e missione riposano sul riconoscimento della propria debolezza.

 

Conclusione

“Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2,17) è affermazione da attribuirsi alla vocazione ad essere discepoli. La differenza tra chi accetta di farsi discepolo e chi no è quella tra il giovane ricco, che non piange di fronte al proprio rifiuto e il pianto amaro di Pietro. Il giovane resta prigioniero della tristezza, esce da sé e dal proprio peccato. Pietro si lascia guardare dal Maestro e si lascia sanare. La sua tristezza diviene pianto: beati coloro che piangono! Rispondere alla propria vocazione, essere fedeli alla propria missione è poter accedere alla beatitudine del pianto.

 

 

 

 

 

Note

[1] Per un esame dettagliato dei testi e per un confronto interessante tra le tematiche vocazione e conversione è utile il testo di RONALD D. WITHERUP, La conversione nel Nuovo Testamento, Ancora 1998.

[2] Le due parti del testo versetti 1-7 “io vidi” e 8-11 “io udii”, corrispondono ai due momenti di visione e di audizione presenti in ogni vocazione. Dopo l’esperienza personale di Dio se ne ascolta il messaggio e se ne diviene annunciatori, qualunque esso sia!

[3] Metanoia: poco usato nei Vangeli con il significato di conversione sia come sostantivo che nella forma verbale, anche se molto presente nel suo significato spirituale: Giovanni non usa mai né il sostantivo né il verbo; Marco una volta il sostantivo e due il verbo; Luca cinque il sostantivo nove il verbo; Matteo due volte il sostantivo e cinque verbo.

[4] Nel versetto 14 si volge parzialmente, totalmente nel versetto 16.

[5] Questo blocco di riflessioni si articola all’interno del Vange1o di Marco. Tale scelta esclude la presentazione della vocazione-conversione di Matteo-Levi,ma il testo di questa vocazione-conversione pare molto evidente e non necessita di alcuna sottolineatura.

[6] R. D. WITHERUP, o.c.

[7] E. BIANCHI, Il ritorno di Pietro, Parola, Spirito e Vita 22, 1990/2, pag 173-174.