N.03
Maggio/Giugno 1998

La Chiesa comunità e comunione di vocazioni

La prima impressione che si ricava da Nuove vocazioni per una nuova Europa[1] è che finalmente la pastorale vocazionale è riconosciuta in tutta la sua decisiva importanza, perché la Chiesa abbia il volto che le spetta. Volendo ricorrere a paragoni certo impropri ma accessibili, potremmo dire che la pastorale vocazionale dall’anticamera è stata ammessa alla sala da pranzo. O che da collaboratrice domestica è promossa regina della casa. Da extracomunitaria è divenuta cittadina a tutti gli effetti. Sono paragoni impropri, perché la posta in gioco è molto più seria: la pastorale vocazionale va riconosciuta come anima della casa-Chiesa. E Nuove vocazioni per una nuova Europa ci permette almeno di farcene una ragione. Poi, se proprio vogliamo fare orecchie da mercante…

 

 

Un occhio alla struttura

A guardare la struttura di questo documento, la dimensione ecclesiologica non è oggetto di una trattazione a se stante. In altre parole, non c’è una parte dedicata a “Chiesa e vocazioni”. Ad occhio e croce, potremmo dire che questo rapporto emerge sempre più evidente nel testo, nei numeri che vanno dal 19 al 26, vale a dire a cavallo tra la seconda metà della seconda parte (Teologia della vocazione) e la prima della terza parte (Pastorale delle vocazioni). Prima di questi numeri c’è la descrizione dell’icona trinitaria, nella quale ogni vocazione ha senso e fondamento. Dopo, la descrizione degli itinerari vocazionali, dei luoghi, dei formatori e degli organismi della pastorale vocazionale. Credo che in questo accenno alla struttura c’è anche la chiave di lettura del modo in cui la Chiesa si rapporta a ogni vocazione: non un coinvolgimento fine a se stesso, ma come riflesso sul mondo dell’amore trinitario, e preludio ad un’operatività, che a questo punto non appare giustapposta o velleitaria, ma naturale scaturigine di ciò che la Chiesa semplicemente è: racconto dell’amore di Dio in questo mondo, appunto. “Da una parte, è afferrata dal mistero di Dio, ne è icona visibile e, dall’altra, è totalmente coinvolta con la storia dell’uomo nel mondo, in stato di esodo, verso i cieli nuovi” (n. 15).

Mi sembra però riduttivo fermarsi ai confini segnati dalla struttura. Qui e là nel documento la Chiesa è provocata a rivedere il suo rapporto con le vocazioni. Cercheremo di richiamare queste sollecitazioni, pur senza la pretesa di portare alla luce tutte le gemme che questo “solco” continua a custodire.

 

 

La posta in gioco

Un grande merito di Nuove vocazioni per una nuova Europa è di rompere gli argini. Per troppo tempo il discorso vocazionale era rimasto stretto appannaggio di alcuni addetti ai lavori. Per quanto fosse applicata al problema “fondamentale” della Chiesa, quella della vocazione rimaneva un’etichetta: importante quanto si voglia, ma pur sempre e soltanto un’etichetta. Con la sua grafica, con il suo “logo”, con poco spazio a disposizione. Per il nostro documento, invece, “vocazione” è qualcosa che riguarda la vita, con tutto ciò che di grande e di magnifico questa parola significa. In altre parole, possiamo dire che per tutta la lunghezza del testo si mantiene fede a quel circolo ermeneutico tra “esistenza”, “riflessione”, “concreto esistenziale” che il Documento si propone inizialmente come ipotesi di lavoro (cfr. n. 9).

La posta in gioco, dunque, non è un servizio di pur vitale importanza per la Chiesa, né tanto meno la pretesa di ripopolare seminari e noviziati. Il problema è un altro: quella in cui viviamo è una “cultura della distrazione” (n. 14), in cui “le domande fondamentali corrono il rischio di essere soffocate, o di essere rimosse” (n. 14). Tutto questo, però, non è un pretesto per piangersi addosso, per dipingere a tinte fosche un periodo storico, che – al pari di tutti gli altri che l’hanno preceduto – riesce a bilanciare a meraviglia luci e ombre, gioie e delusioni. Si apre invece un varco, suggestivo e per tanti aspetti inedito, per chi vuol lavorare in campo vocazionale: un varco che – se affrontato con l’ “intelligenza del cuore” – può accendere di passione un lavoro altrimenti asfittico e controcorrente.

In altre parole, al di là del pessimismo o della fiducia con cui guardare alla missione della Chiesa oggi, si fa sempre più chiaro uno spazio che le compete per natura: quello delle domande di senso ultimo, quello stesso spazio che solo un Amore crocifisso e risorto riesce degnamente a occupare. Alla luce di questo mistero, è la vita in quanto tale ad essere interpellata; e la vocazione – rompendo appunto gli argini – si rivela come “la categoria biblico-teologica più comprensiva e più aderente per esprimere il mistero della vita, alla luce di Cristo” (n. 15), anzi “è ciò che spiega alla radice il mistero della vita dell’uomo” (n. 16).

Con questi presupposti, il documento auspica l’allargamento dell’idea di vocazione (n. 26d). Ne offre anzi in diverse occasioni esempi molto chiari, come ad esempio quando dice:

Nell’uomo, e lungo la sua vita, esistono vari tipi di chiamata: alla vita, anzitutto, e poi all’amore; alla responsabilità del dono, quindi alla fede; alla sequela di Gesù; alla testimonianza peculiare della propria fede; a essere padre o madre, e a un servizio particolare per la Chiesa o per la società. Fa animazione vocazionale chi tiene presente, per prima cosa, quel ricco complesso di valori e significati umani e cristiani da cui nasce il senso vocazionale della vita e d’ogni vivente. Essi consentono di aprire la vita stessa a numerose possibilità vocazionali, convergendo poi verso la definitiva scelta personale” (n. 26c).

Oppure quando invoca una “giovinezza dello spirito” che renda il credente disponibile ad ogni chiamata, in qualsiasi momento questa lo raggiunga (n. 26e).

 

 

Pastorale vocazionale: salvare la vita

Tutto questo può apparire un discorso lontano da un orizzonte ecclesiologico, che dovrebbe caratterizzare questo studio. Lontano soprattutto dall’ecclesiologia a cui noi siamo abituati, con i paletti ben piantati sulla struttura-Chiesa e sulle parti che la compongono; e in qualche modo la distinguono dal resto. Ma – è forse il caso di ripeterlo – questa ecclesiologia nel nostro documento non c’è. Se il mistero della Chiesa ha senso, è perché va ad occupare quello spazio magmatico e pure estremamente reale che c’è tra il mistero di Dio e quello dell’uomo. In questa missione della Chiesa, si può ben dire che “la pastorale vocazionale non conosce frontiere” (n. 26e), proprio perché ha da confrontarsi con questi due estremi grandiosamente vicini, Dio e l’uomo. 

Si capisce allora come in questa nostra epoca una nuova cultura diventa il “primo obiettivo” della pastorale vocazionale (n. 13b). E se ancora tutto questo ci sembrasse astratto e fumoso, il documento ci dà precise esemplificazioni di cos’è “cultura vocazionale”:

È cultura della vita e dell’apertura alla vita, del significato del vivere, ma anche del morire. In particolare fa riferimento a valori forse un po’ dimenticati da certa mentalità emergente (‘cultura di morte’, secondo alcuni), come la gratitudine, l’accoglienza del mistero, il senso dell’incompiutezza dell’uomo e assieme della sua apertura al trascendente, la disponibilità a lasciarsi chiamare da un altro (o da un Altro) e a farsi interpellare dalla vita, la fiducia in sé e nel prossimo, la libertà di commuoversi di fronte al dono ricevuto, di fronte all’affetto, alla comprensione, al perdono, scoprendo che quello che si è ricevuto è sempre immeritato ed eccedente la propria misura, e fonte di responsabilità verso la vita. Fa parte ancora di questa cultura vocazionale la capacità di sognare e desiderare in grande, quello stupore che consente d’apprezzare la bellezza e sceglierla per il suo valore intrinseco, perché rende bella e vera la vita, quell’altruismo che non è solo solidarietà d’emergenza, ma che nasce dalla scoperta della dignità di qualsiasi fratello” (n. 13b).

Il lettore perdonerà la lunghezza delle citazioni, ma proprio la vastità e multiformità di un impegno -come quello esemplificato da Nuove Vocazioni per una Nuova Europa – provoca a rivedere molta della nostra ecclesiologia, a concentrare gli sforzi sull’essenziale e a scartare ciò che è periferico, o – come dice il nostro documento – a passare “dalla patologia della stanchezza agli interrogativi giusti” (n. 13c), convinti finalmente e senza ulteriori tentennamenti che “la vocazione è il cuore stesso della nuova evangelizzazione” (n. 12a).

 

 

Espressione della maternità della Chiesa

Se questo è l’orizzonte culturale e teologico in cui si muove la Chiesa, la pastorale vocazionale non è qualcosa che le viene cucito addosso, come un vestito griffato più o meno costoso. Nella stessa “chiamata della Chiesa a comunicare la fede è radicata la teologia della vocazione” (n. 25). Se “vocazione” è il codice che spiega la vita, la pastorale vocazionale è “espressione stabile e coerente della maternità della Chiesa” (n. 13c). Essa si radica nell’intima natura della Chiesa come “mysterium vocationis” (n. 25) e di una “comunità che prende coscienza di essere chiamata” (n. 19d). Giustamente, in questo senso, la “crisi vocazionale dei chiamati è anche crisi dei chiamanti” (n. 19d), cioè di coloro che dovrebbero far risuonare “fuori”, con chiarezza e decisione, la voce della loro stessa coscienza.

L’immagine di Chiesa che Nuove Vocazioni per una Nuova Europa ci consegna è dunque nuova ed esigente. Forse non ancora messa a fuoco: ma non per scarsa definizione della figura, bensì perché tocca a noi prendere le misure, metabolizzare un nuovo modo di essere e di rapportarsi. Se è vero che già negli Atti degli Apostoli c’è il DNA della Chiesa e di una “naturale” pastorale vocazionale (mirabile in questo senso è l’icona della prima comunità al n. 24), è vero anche che altre esigenze attendono di essere coniugate e tradotte in atteggiamenti feriali.

Pensiamo a come il nostro documento fotografa la struttura di comunione, ricordando che ogni vocazione è “necessaria” e “relativa”.

‘Necessaria’, perché Cristo vive e si rende visibile nel suo corpo che è la Chiesa e nel discepolo che ne è parte essenziale. ‘Relativa’, perché nessuna vocazione esaurisce il segno testimoniale del mistero di Cristo, ma ne esprime solo un aspetto. Soltanto l’insieme dei doni rende epifanico l’intero corpo del Signore” (n. 19b).

Se questa è la Chiesa, se è vero che l’agape è suscitata dallo Spirito non solo come etica dell’amore ma come struttura profonda della persona (n. 19c), se è vero che tutto questo genera una Chiesa come “comunità dei volti” (n. 19c), quanto grottesche risultano certe mutuae (sic!) relationes, quanto lungo il cammino che ci aspetta, quanto purificante e in un certo senso “logica” si rivela l’assenza delle vocazioni per certe nostre Chiese!

Nell’attesa, ci sarebbe quasi da… consolarsi, e in ogni caso mantenersi impegnati nella preghiera per le vocazioni, strumento cardine della pastorale vocazionale. Ma anche questa ci si rivela esigente per il singolo e per la comunità:

L’autentica preghiera vocazionale, giova ricordare, merita questo nome e diviene efficace solo quando crea coerenza di vita nell’orante stesso, anzitutto, e s’associa, nel resto della comunità credente, con l’annunzio esplicito e la catechesi adeguata, per favorire nei chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata, come a qualsiasi altra vocazione cristiana, quella risposta libera, pronta e generosa, che rende operante la grazia della vocazione” (n. 25e).

Ancora una volta, bando alle toppe nuove su vestito vecchio e a vino nuovo in otri vecchi (cfr. Lc 6,35-39). La novità più profonda, sulla quale lavorare, è che le nostre comunità siano così “innamorate della Chiesa e del mondo” (n. 12b), da non permettere a nessuno di sentirsi “dispensato” (cfr. n. 6 e 25c) da un impegno tanto radicale.

 

 

Una riconsiderazione della pastorale

In una Chiesa simile, davanti a sfide tanto impegnative, la pastorale in genere è chiamata a rivedere il “passo”. E, ancora una volta, è la pastorale vocazionale a dargliene l’opportunità. Per la verità quest’ultima affermazione, lungo l’intero documento, è sostenuta da tutta una lunga serie di provocazioni, che solo una pastorale distratta e dal cuore cinico può trangugiare senza minimamente scomporsi. Ne riportiamo solo alcune, in un crescendo “rossiniano” che intreccia pastorale tout court e pastorale vocazionale (che a questo punto non ci si dovrebbe meravigliare nel vedere intimamente unite).

La pastorale vocazionale è la vocazione della pastorale (…). La vocazione è il caso serio della pastorale odierna” (n. 26b). 

La nostra “forse dovrà anche essere una pastorale più pro-vocante che consolante; capace, in ogni caso, di trasmettere il senso drammatico della vita dell’uomo, chiamato a far qualcosa che nessuno potrà fare al posto suo” (n. 26b).

C’è un primato della vita nello Spirito, che sta alla base di ogni pastorale vocazionale. Ciò richiede il superamento di un diffuso pragmatismo e di quell’ esteriorismo sterile che porta a dimenticare la vita teologale della fede, della speranza e della carità. L’ascolto profondo dello Spirito è il nuovo respiro di ogni azione pastorale della comunità ecclesiale” (n. 18c).

Se la pastorale non arriva a “trafiggere il cuore” e a porre l’ascoltatore dinanzi alla domanda strategica (che cosa devo fare?), non è pastorale cristiana, ma ipotesi innocua di lavoro” (n. 26g).

O la pastorale cristiana conduce a questo confronto con Dio, con tutto ciò che esso implica in termini di tensione, di lotta, a volte di fuga o di rifiuto, ma anche di pace e gioia legate all’accoglienza del dono, o non merita questo nome” (n. 26b).

Come si vede, la dimensione vocazionale costringe l’operatore pastorale – come una salita in montagna obbliga il ciclista – a “scalare” un rapporto di trasmissione: non per diminuire la velocità, ma per rendere possibile la salita. Qui c’è da ritrovare il rapporto con le persone, c’è da promuovere “un vero itinerario di ascetica e di rinascita interiore” (n. 18c), c’è da “far coincidere il compimento della persona con la realizzazione della comunità” (n. 18d), va riscoperto “il servizio da dare alla persona” (n. 13c) come criterio di ogni pastorale, che è sì comunitaria, ma contemporaneamente attenta al singolo (cfr. n. 26f).

Anche qui le esemplificazioni di questa nuova sensibilità sarebbero tantissime, e soprattutto speriamo che il cammino di questi prossimi anni, anche grazie all’aiuto di Nuove vocazioni per una nuova Europa, aiuti a tirarle fuori. Il documento per ora ce ne offre un saggio, quando si sofferma su di una doverosa lettura vocazionale della Parola di Dio, spesso invece allegramente snobbata sotto questo punto di vista:

Non esiste un brano del vangelo, o un incontro, o un dialogo, che non abbia un significato vocazionale, che non esprima, direttamente o indirettamente, una chiamata da parte di Gesù. È come se i Suoi appuntamenti umani, provocati dalle più diverse circostanze, fossero per lui un’occasione per mettere comunque la persona di fronte alla domanda strategica: Che cosa fare della mia vita?, Qual è la mia strada?” (n. 17a).

Oppure quando con rapide pennellate ci descrive una comunità “vocazionalmente” ispirata:

Il clima di fede, di preghiera, di comunione nell’amore, di maturità spirituale, di coraggio dell’annuncio, d’intensità della vita sacramentale fa della comunità credente un terreno adatto non solo allo sbocciare di vocazioni particolari, ma alla creazione d’una cultura vocazionale e d’una disponibilità nei singoli a recepire la loro personale chiamata. Quando un giovane percepisce la chiamata e decide nel suo cuore il santo viaggio per realizzarla, lì, normalmente, c’è una comunità che ha creato le premesse per questa disponibilità obbedienziale” (n. 19b).

 

 

Conclusione

Forse certe direttive del nostro documento sembreranno troppo “gravide” di novità. Si pensi in modo particolare a quella sfida-che mi sembra riassuntiva di tutte le altre – che tende a far diventare “popolare” un impegno, quello vocazionale, che abitualmente si è portati a considerare d’élite (n. 26e)[2].

Il tempo ci è dato per dare corpo a queste prospettive di cammino semplicemente per ora intraviste. Di una cosa non possiamo rimproverare Nuove Vocazioni per una nuova Europa: vale a dire, della mancanza di chiarezza. Da una parte, ci ha fatto capire senza mezzi termini l’alternativa sul tappeto: o la pastorale fa della vocazione il suo “caso serio” o diventa un’ipotesi tra le altre. Dall’altra parte, e sin dalle prime battute (n. 13c), ci ricorda il salto di qualità che la pastorale vocazionale è chiamata a fare, per passare ad una fase finalmente “adulta”, successiva ad una preistoria ed ad una storia, di cui dobbiamo ringraziare gli instancabili e meritevoli protagonisti.

Di questo salto di qualità dovrebbero essere interpreti non solo gli animatori e i responsabili, ma anche i giovani, “frutto” di questa pastorale vocazionale. In altre parole, andrebbero applicate anche ad essi le esigenze sopra accennate: quelle del servizio alla vita e alle sue domande, dell’attenzione alle persone, del superamento del pragmatismo, di una passione intelligente per una cultura vocazionale, ecc. Non è il caso di indugiare oltre, su questo punto. C’è piuttosto da augurarci che il “filo rosso” della speranza (n. 13c), che ha attraversato tutto il Congresso Europeo e che fa da trama al nostro prezioso documento finale, rimanga saldamente nelle nostre mani, in questo prossimo futuro che ci è dato di percorrere.

 

 

 

 

Note

[1] Nuove vocazioni per una nuova Europa, Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa (Roma, 5-10 maggio 1997), a cura delle Congregazioni per l’Educazione Cattolica, per le Chiese Orientali, per gli Istituti di Vita Consacrata e le società di Vita apostolica.

[2] E. MASSERONI, Per una pastorale vocazionale “popolare”, in L’Osservatore Romano, 138 (1998), 28 gennaio 1998, p. 9.