Il discernimento come vigilanza cristiana
Scopo precipuo della direzione spirituale è porre il soggetto in condizione di operare un discernimento (D) oculato, cioè da credente, sulla propria vita. È ormai un dato acquisito: se la direzione spir. non conduce alla capacità e al coraggio di discernere viene meno alla sua finalità essenziale. Singolare e a suo modo inedito è invece l’accostamento tra D e vigilanza. Un accostamento che non è frequente e che c’impone di chiarire dall’inizio il senso di quell’atteggiamento virtuoso che è, appunto, la vigilanza. È su di esso che vorremmo riflettere.
LA VIRTÙ DELLA VIGILANZA
Se non è virtù moderna, la vigilanza è senz’altro virtù biblica: ne parlano i testi sapienziali (Sap 6,15, ad es., o Pr 4,23. 8,34), ma ne parlano anche Gesù nel vangelo (Mt 24,43s) e Paolo nelle sue lettere (Ef 6,18 e Col 4,2).
La vigilanza nella Scrittura
Più precisamente nel testo sacro si fa riferimento al vegliare, nel suo senso proprio di rinunziare al sonno della notte, e in quello metaforico di esser vigilante, appunto, di lottare contro il torpore e la negligenza per giungere alla meta prefissa (Pr 8,34), cioè per accogliere il Signore quando verrà il suo giorno. In sintesi, nella Bibbia, la vigilanza caratterizza l’atteggiamento del discepolo che spera e attende il ritorno di Gesù, che potrebbe anche tardare e farsi attendere… più del previsto (Mt 25,1-13); consiste anzitutto nell’esser sempre all’erta, e per ciò stesso esige il distacco dai piaceri e dai beni terreni (Lc 21,34ss.), quella sobrietà e rinuncia a tutto ciò che può distrarre dall’attesa del Signore e che a volte può provocare una vera e propria lotta nella vita del credente. Gesù, nel Getsemani, è il modello della vigilanza nel momento della tentazione, con l’invito a vegliare e pregare (Mt 26,41). Altro modello è quello della chiesa primitiva in cui, come ci ricorda Paolo, esisteva la pratica delle veglie notturne di preghiera, pratica condotta “con perseveranza instancabile” (Ef 6,18)[1].
Da questa interpretazione del termine nella parola di Dio deduciamo quelle che potremmo considerare le componenti di questo atteggiamento virtuoso.
Componenti dell’atteggiamento vigilante
La vigilanza esprime un atteggiamento fondamentalmente credente, ma abbiamo l’impressione, anche da quanto abbiamo ora visto, che si tratti d’un atteggiamento complesso e articolato, espressione d’una ricca e matura sensibilità oltre che d’un certo cammino formativo, e che dunque sia utile cercare – per quanto possibile – di cogliere alcuni elementi di questa ricchezza e complessità.
Attenzione
Alla base della vigilanza c’è l’attenzione, come espressione tipica di chi cerca un senso e una presenza in ogni cosa. Secondo la sua derivazione etimologica, attenzione vuol dire tenere lo sguardo fisso su qualcosa che deve venire, dunque attenderlo pazientemente e cercarlo, per poi riconoscerlo quando viene senza distoglier da esso lo sguardo[2]. Nella dinamica educativa significa insegnare a rompere il flusso continuo e irriflesso degli avvenimenti che si succedono nella giornata con ritmo monotono e ripetitivo; è frapporre e insegnare a frapporre un “intervallo” fra stimolo e risposta, fra azione e reazione, per elaborare una risposta che non sia automatica, qualcosa che appare sul proprio schermo senza averlo voluto realmente, inevitabile risultato di dati memorizzati e mai calcolati.
L’attenzione, allora, è intelligenza, è capacità di intus-legere, di guardar “dentro” le cose e le persone, oltre l’apparenza spesso fallace, con intuito acuto; di conseguenza l’attenzione è anche alla base dell’atteggiamento contemplativo, e della possibilità di capire e intuire, di meravigliarsi e di godere, di assaporare il gusto e la novità della vita, ma pure di afferrare la complessità e drammaticità misteriose di certi risvolti esistenziali. Solo chi è “attento” può dire d’esser soggetto del suo vivere e, allo stesso tempo, diviene capace, come un radar sensibilissimo, di captarne i molteplici messaggi, lasciandoli risuonare nelle profondità del suo io. Per lui ogni avvenimento, anche quello imprevisto e sgradito, è carico di senso e denso di sacralità, anche se spesso senso e sacralità sono nascosti e vanno cercati, perché parte del mistero del vivere umano[3]. Esser attenti, infatti, significa cogliere la realtà umana come dimora del divino, luogo teologico in cui s’impara a incontrare Dio, ad ascoltarlo e pregarlo. L’attenzione, allora, non è più solo attività psichica, ma azione dell’uomo spirituale. Come tale, e per la complessità di ciò che significa, deve essere oggetto di educazione: l’attenzione, lasciata a se stessa, è selettiva e parziale, spesso superficiale e poco intelligente, va dunque educata e formata per favorire un discernimento adeguato[4].
Sobrietà
Nella misura in cui la persona è attenta, è pure completamente presa dall’oggetto dell’attesa e protesa verso di esso. S’impone, allora, la rinuncia a tutto il resto, o a tutto ciò che non s’identifica con quell’obiettivo o gli è addirittura opposto; oppure la capacità di staccarsi da quanto, in sé funzionale come traguardo intermedio a quell’obiettivo finale, rischia di prenderne il posto ponendosi al centro degli interessi dell’individuo. Esser sobri non vuol dire semplicemente avere abitudini spartane di vita o accontentarsi di poco o del minimo, ma -in buona sostanza- esser fedeli a ciò che si attende, resistendo alla facile tentazione di riempire l’attesa con surrogati vari che in qualche maniera ne leniscano l’asprezza, o riempiano la solitudine, distraendo in tal modo l’attenzione dall’obiettivo originario. Anche nel cammino della ricerca di Dio c’è una sobrietà da rispettare, o un’assenza di Dio che va vissuta fino in fondo se davvero si vuole incontrarLo. Anzi, come dicono i Padri (grandi conoscitori di queste leggi della vita spirituale), il Signore stesso si rende assente o non ci esaudisce o ci fa attendere a lungo quanto gli chiediamo proprio per purificare la nostra richiesta o la nostra stessa sete e fame di Lui e poi renderla ancora più intensa[5].
Sobrietà, allora, vuol dire capacità di attendere, di attendere e… tener duro, continuando a cercare e sperare, anche se e quando l’oggetto atteso sembra allontanarsi o non farsi più trovare nei luoghi soliti.
Desiderio
Colui che è vigilante è mosso e animato da un desiderio che diviene sempre più grande. C’è una bella immagine nella Scrittura che dice l’intensità dell’attesa quando il desiderio è forte: è nel salmo 130, ove per dire l’attesa e il desiderio di Dio il salmista ricorre all’immagine delle sentinelle che nella notte, lunga e fredda, attendono l’aurora (cfr. Sal 130,6). Di fatto spesso colui che cerca Dio è raffigurato come colui che veglia e cerca e attende nella notte. Non si può vegliare se non si è sorretti da un desiderio grande, e d’altro canto il vegliare aumenta e rinforza il desiderio. Oggi, per certi versi, ci troviamo di fronte a un’inversione di simbologia: la notte, vogliamo dire, sta diventando il tempo della devianza, della trasgressione, dell’alternativa alla normalità, della voglia d’evasione da una realtà priva di desideri, della ricerca di eccessi in una vita divenuta piatta… La notte, allora, non è più vigilanza, desiderio di qualcosa o qualcuno, non è più rispettata nel suo silenzio, nella sua quiete, nelle sue tenebre, nel suo mistero, nel suo velare e svelare la realtà, nel suo precedere e preparare la luce… Tutto questo è come bruciato in una consumazione frenetica di qualcosa d’immediato, in un’impazienza che non sa più attendere e che non ha più nulla da desiderare. Significativa la breve parabola con cui Bianchi descrive il senso della vocazione monastica o della consacrazione a Dio in questo mondo… notturno. I monaci sono come “quelle persone che, nel momento culminante di una festa gioiosa, si sentono irresistibilmente attratti fuori nella notte, perché capiscono che queste feste sono solo una pregustazione della festa di Dio che deve venire”[6]. In quell’essere “irresistibilmente attratti” è nascosto il senso del desiderio che rende vigilanti.
Memoria
Ancora, la vigilanza dice attesa di qualcosa, è protesa verso il futuro, ma è fatta di memoria. Fondamentalmente perché può attendere solo chi ha fiducia e sa sperare proprio perché il suo passato gli dice… che ne vale la pena, che l’attesa viene premiata, che la fedeltà e costanza del desiderio di solito hanno buon esito, che ci si può fidare della vita, degli altri, del tempo, che l’attesa e il rinvio spesso rendono più intensa la gioia per l’obiettivo raggiunto. La costanza della ricerca vigile è possibile solo per chi ha già sperimentato la possibilità di cercare e il gusto di trovare. Chi non è riconciliato col suo passato guarderà con sottile diffidenza e paura il suo futuro; o sarà vigilante per difendersi, per tenersi stretto tra le mani quel che ha conquistato, non per aprirsi al futuro stesso o scrutarvi gli appelli della vita, tanto meno per riconoscere in esso la sua propria identità. Con una sola parola potremo dire che solo la persona grata nei confronti del suo passato potrà esser autenticamente vigilante al presente.
Discernimento
Infine la vigilanza conduce al discernimento, o alla capacità di discernere, che in sostanza consiste nel saper riconoscere ciò che si è atteso più o meno lungamente e nel saperlo scegliere con un’azione coerente. È importante sottolineare che il D, o l’elemento che lo suscita o che diviene oggetto d’un D più o meno decisivo, fa parte di quel più generale atteggiamento virtuoso che è la vigilanza; non capita dunque improvviso, come qualcosa che brilla d’una evidenza intrinseca che elimina ogni dubbio e di fronte al quale un certo D si pone come inevitabile per qualsiasi persona. Al contrario il vero D ha sempre una sua storia o preistoria, è preparato da specifici atteggiamenti e disposizioni dell’animo, è faticoso, procede per dubbi e interrogativi, attraversa alti e bassi, momenti d’adesione entusiastica e di paure e reticenze, specie se il D riguarda una scelta che compromette tutta una vita com’è il discernimento vocazionale (DV).
È importante ricordare che quanto abbiamo ora visto su un piano teorico, o queste componenti atteggiamentali della vigilanza, fanno parte anche d’un percorso pedagogico che conduce lentamente alla decisione vocazionale. L’impressione, infatti, è che molto spesso il DV sia qualcosa di piatto e anemotivo, o di puntuale e immediato, da attendere o da trovare già pronto, e non qualcosa che deve esser lentamente preparato attraverso un paziente cammino d’accompagnamento. E proprio per questo sono così rari gli autentici discernimenti vocazionali, quelli, cioè, che giungono all’azione corrispondente! Preparare adeguatamente un D significa educare all’attenzione, alla sobrietà, al desiderio, alla memoria…, con tutto ciò che significa la formazione in queste aree della personalità. È impossibile e ingenuo pretendere che un giovane possa fare un autentico DV se prima non è stato aiutato ad assumere un atteggiamento vigilante, e dunque attento, sobrio, desiderante, grato nella memoria, libero di decidersi, capace di scegliere… La realtà è piena di segni e segnali, di segni dei tempi e di segnali della storia di tutti i giorni, di provocazioni e appelli che dovrebbero scuotere chiunque e far capire l’urgenza del por mano al proprio futuro, la drammaticità d’una situazione che chiede a ognuno di farsene carico. Ma sono così pochi i giovani che sanno percepire, o che sono aiutati a percepire segni e segnali, a esser vigilanti, e ad agire di conseguenza. O sono come le vergini sciocche della parabola, che vanno incontro allo sposo, hanno un certo interesse, prendono parte alla festa, ma non hanno l’olio di riserva per la lampada, non sono adeguatamente preparati a vegliare, a tener duro, a sperare, ad agire, a rischiare…
Noi siamo come naufraghi sulla zattera. Passerà una nave a salvarci o il mare ci inghiottirà? Qualcuno si mostra sicuro della salvezza. Qualcuno pensa che tanto vale buttarsi subito ai pesci, senza soffrire di più. Altri, e sono i più, organizzano alla meglio, anche litigando, il razionamento del poco di acqua e di cibo e alzano ogni segnale per poter essere avvistati. Chi avrà ragione? Per il momento, ha ragione chi mantiene possibile il futuro, evitando tanto l’illusione quanto la disperazione. Ha ragione ora, anche se alla fine dovesse verificarsi la previsione disperata. Forse la nave non passa, ma se passa deve poterci avvistare e trovare vivi (…) Se non attendo, non veglio, non cerco e non offro, non posso trovare né ricevere. Solo se l’aspetto, la nave mi vedrà. Anzi, passerà soltanto per chi scruta l’orizzonte[7].
Proprio a questo mira la direzione spirituale, ad aiutare i giovani a “scrutare l’orizzonte” della loro vita e del loro futuro, perché non finiscano come naufraghi alla deriva…
LIBERTÀ D’APPASSIONARSI
Facciamo ora un passo avanti, e domandiamoci come lo stato di vigilanza, in quanto virtù cristiana, possa liberare la capacità di decidersi in prospettiva vocazionale. Scopo di questo paragrafo, dunque, è ancora una sorta di spiegazione dei termini, ma anche – al tempo stesso – il tentativo di avviare una proposta metodologica circa la sollecitazione della decisione vocazionale. Molte volte i nostri ragazzi e giovani si lasciano ben condurre nel cammino spirituale, ma poi s’arrestano, quasi colti da un improvviso attacco di paralisi, dinanzi alla decisione da prendere. La vigilanza non dovrebbe ben disporre, l’abbiamo or ora ricordato, proprio alla capacità di prendere una decisione sulla propria vita? Vediamo in che modo, o almeno puntualizziamo bene i termini della questione. Lo faremo in modo schematico, partendo dal presupposto che la formazione alla vigilanza dovrebbe liberare progressivamente la libertà d’appassionarsi per qualcosa. Attraverso questi cinque passi progressivi.
Libertà convertita
Anzitutto la vigilanza diventa passione solo se si libera, anzitutto, il giovane da quanto gl’impedisce di coinvolgersi intensamente e di consegnarsi a qualcosa che lo supera, la passione, infatti, è prima di tutto una libertà convertita. Pensiamo oggi alle tante paure che inibiscono nel giovane la capacità di fare grandi scelte; i giovani d’oggi vivono di paure, quasi mai confessate, neanche a se stessi, anzi, spendono una mole incredibile d’energie per fingere il contrario e mostrarsi disinibiti.
Libertà trascendente
L’educatore deve avere il coraggio di proporre un grande ideale, che il giovane stesso sente e deve sempre più sentire come bello e ricco di prospettive, alla sua portata ma anche molto esigente, massimale nelle richieste, anzi al di là delle sue capacità; la passione, in questo senso, è la libertà di andare al di là di se stessi perché affascinati da qualcosa di bello, una libertà trascendente. In una cultura che ha smarrito il senso e il gusto della bellezza, l’animatore vocazionale è un marziano che corre il rischio, pensate un po’, di proporre una scelta motivata solo dalla sua bellezza. E invece no, niente marziani, ma semplicemente un credente che ha fatto davvero l’esperienza “stellare” della bellezza dell’appartenere completamente a Dio, e tale esperienza vuol condividere.
Libertà responsabile
Questo ideale, ancora, deve corrispondere a un progetto che non è solo in funzione della persona e non si ferma al diretto interessato, ma s’estende agli altri, apre la sua vita e il suo essere al rapporto, fino a farlo sentire responsabile non solo di sé, ma anche degli altri; la passione, da questo punto di vista, è una libertà che si fa carico di altri, una libertà responsabile. Si pensa ancora troppo alla vocazione come a una scelta soggettiva, in funzione della propria perfezione o in vista della propria realizzazione in prospettiva un po’ narcisista. Tutto ciò è vero, ma di solito attrae molto poco proprio perché l’uomo non è fatto per pensare solo a se stesso, è molto più avvincente, invece, la proposta di uscire da sé per farsi carico degli altri.
Libertà vera
Altro aspetto essenziale per liberare la passione è il raccordo tra libertà e verità quale si gioca nell’ideale vocazionale. II quale rappresenta qualcosa di nuovo e misterioso, dà al giovane la possibilità di essere se stesso, ma al tempo stesso gli svela la parte inesplorata della sua personalità, del dono ricevuto, della vita stessa, e proprio per questo l’attira ancor di più. La passione, in ultima analisi, è libertà illuminata dalla verità, non è sregolata, libertà impazzita o che ti fa andare “dove ti porta il cuore”, ma obbedienza alla verità, libertà vera. “Se la libertà non obbedisce alla verità può schiacciarvi”, ha detto recentemente ai giovani romani il Papa, “la libertà deve essere guidata dalla verità”[8]. La vigilanza è il cammino di una libertà che cercando verità nell’ideale vocazionale diventa passione.
Libertà attiva
Infine, l’ideale va vissuto, il giovane va provocato ad agire, a sperimentare sulla sua pelle la ricchezza dell’ideale, a riconoscere in esso i tratti della sua identità, a trovare la sua personale strada per giungere a viverlo e testimoniarlo, a scoprirlo come fonte di beatitudine, per sé e per gli altri; la passione, in tal senso, è una libertà diventata azione. È difficile o impossibile, appassionare senza stimolare a fare un’esperienza diretta. Il modello della virtù cristiana della vigilanza è il servo che attende il padrone in modo operoso, dandosi da fare, vivendo ogni istante come tempo possibile della sua venuta, proprio perché l’ora in cui verrà è avvolta dal mistero (cfr. Mt 24,45-51), e così ogni ora è buona per la proposta vocazionale.
La direzione spirituale dovrebbe disporre a questo tipo di vigilanza, così intesa, o a una libertà che apre il cuore alla passione. Allora la decisione vocazionale è più vicina…
VIGILANZA E ACCOMPAGNAMENTO VOCAZIONALE
Vediamo allora come realizzare questo tipo di accompagnamento perché sia davvero vocazionale. Partiamo da un presupposto che abbiamo prima menzionato: il D non è azione puntuale, che s’esaurisce nel momento in cui si compie, con un inizio e un punto terminale ben identificabili, ma è stile dell’esistenza cristiana, espressione d’un atteggiamento credente, conseguenza naturale e del tutto inevitabile d’una disposizione interiore costantemente aperta e protesa sul mistero della volontà di Dio. Imparare (o insegnare) a discernere, allora, vuol dire, né più né meno, imparare a credere; è attraverso le scelte quotidiane, piccole o grandi che siano, che alimentiamo l’organismo credente e manifestiamo la vitalità del credere. In una giornata, sarà bene ricordare, sono migliaia le scelte che noi facciamo, ma la maggioranza di esse non sono consapevoli, purtroppo, sono automatiche; non sono occasione di crescita, ma espressione d’una certa inerzia psicologico-spirituale; non dicono vigilanza dell’animo, attento nel cercare il Signore che viene, ma disattenzione dello spirito distratto dalle cose e dalle preoccupazioni della vita. Sono pochissime le “scelte credenti” in una giornata!
È importante, allora, che la guida conosca un metodo preciso o dei modelli attraverso cui egli stesso ha imparato a crescere in una fede vigilante che sa discernere, e sa ora come accompagnare il giovane nella medesima crescita che lo conduca a scoprire la strada che il Signore gli sta tracciando. Io sono molto convinto che oggi vi siano molti sacerdoti e religiosi/e che vorrebbero aiutare i giovani nel loro cammino spirituale, sono disponibili e desiderosi di fare direzione spirituale, ma poi – e non vorrei che alcuno s’offendesse – non sanno bene che metodo usare, o dopo i primi incontri hanno l’impressione d’aver esaurito le cose da dire e rischiano di ripetere le solite cose, o non hanno alcuna proposta precisa, alcun cammino pedagogico, con tappe intermedie e finali da indicare. Forse è proprio per questo che la direzione spir. è più chiacchierata, raccomandata, analizzata… che concretamente praticata. Con le conseguenze negative che sappiamo per quanto riguarda l’animazione vocazionale, legata per natura sua a questo servizio. Altro punto debole: molti in questa situazione s’affidano al “fai-da-te” dello spirito, al “bricolage pedagogico”, tirando a indovinare o inventando percorsi e metodi; come non vi fosse una certa oggettività anche per quanto concerne il metodo, e questi fosse affidato totalmente all’improvvisazione della guida o al suo presunto istinto spiritual-pedagogico. La questione del metodo, al contrario, è centrale nella vita dell’uomo e in qualsiasi progetto di crescita, anzi, spesso l’avere o il saper proporre un buon metodo è la miglior conferma o la prova dell’autenticità del proprio cammino.
Proponiamo, in concreto, allora, tre modelli di crescita nella e della fede. Nulla di trascendentale o particolarmente originale, ma neppure di generico e puramente ripetitivo. I modelli che ora proponiamo vorrebbero rispondere all’esigenza di prevedere un cammino mirato di maturazione dell’adesione credente che porti per natura sua, come un frutto tipico di questa maturazione, alla decisione vocazionale. Per questo motivo tali modelli toccano aree strategiche della maturità o del processo di maturazione del credente, da ciò che lo determina (il suo punto di partenza) sul piano oggettivo, a ciò che ne rappresenta l’esito sul piano personale soggettivo, da ciò che lo sostanzia e vivifica a ciò che lo provoca e sfida. Più in particolare, perché l’atto di fede sia tale da determinare la decisione vocazionale crediamo che debba
– seguire un percorso logico-lineare, con un punto di partenza e d’arrivo, lungo un’evoluzione che lo faccia crescere attraverso tappe precise intermedie e con un cibo che l’alimenti (non basta affidarsi alle intuizioni o agli entusiasmi del momento);
– mettere insieme o coniugare continuamente l’aspetto oggettivo-normativo con quello soggettivo-esistenziale (il pericolo è quello di continui sbilanciamenti);
– viverlo come atto totalizzante, rivolge un appello a tutte le facoltà umane, cuore, mente, volontà, sensibilità, memoria (dalle esperienze unilaterali-parziali derivano tutte le varie illusioni su Dio).
Il DV come atto umano psicologico-spirituale sarà la risultante di questo processo complesso, che in ultima analisi esprime il pieno concetto di vigilanza nella e della fede. O, quanto meno, attraverso tale processo crediamo d’indicare anche un progetto di preparazione almeno remota al DV, e a un DV che non si risolva in una considerazione astratta o in una valutazione teorica, ma che giunga al coinvolgimento esplicito dell’azione.
Sono i modelli che chiameremo genetico (o mariano), dinamico (o paolino) e storico-biblico (o autobiografico)[9], per dire come il DV sia espressione d’una adesione credente che
– nasce e rinasce ogni giorno dalla Parola, e dalla Parola del giorno, letta e vissuta negli eventi quotidiani;
– ritrova forza e stabilità nell’esercizio sempre quotidiano delle articolazioni vitali essenziali della fede, nel rapporto tra dinamismi del credere e verità creduta;
– diviene sempre più personale e personalizzata attraverso la scoperta e la memoria della presenza di Dio nella storia passata del credente.
Modello genetico (mariano)
Si tratta, anzitutto, di educare il giovane a ritrovare il punto di partenza e normativo dell’atto credente, costituito dalla Parola di Dio. Ma, al tempo stesso, si deve anche formare il giovane a una fede che non pretenda subito cambiare la vita e stimolare grandi decisioni, ma a una fede semplice e “feriale”, capace sempre più di tessere la trama dei giorni, attraverso le piccole scelte d’ogni giorno e nelle attività quotidiane, una fede che diventa sempre più stile ordinario di vita. D’altro canto è nell’ordinarietà del quotidiano che la fede trova il suo ambiente e pure il suo alimento naturale.
Maria ci sembra l’immagine ideale di questo modo di credere, semplice e tenace, di fede che nasce e rinasce ogni giorno dalla Parola e si realizza nell’evento, e grazie al potere della Parola-evento unifica la vita e i dinamismi vitali della persona. Quando è la fede che unifica la vita si sono create le premesse per una certa disponibilità vocazionale con relativo discernimento.
Per arrivare a questo occorre che il giovane impari lentamente a stabilire un particolare modo di vivere il rapporto con la Parola-del-giorno, come una disciplina del rapporto con Dio. E siccome ogni disciplina suppone un metodo, la guida deve saper dare un’indicazione precisa e articolata. Ogni giorno, infatti, ci è data una Parola, come la manna che nutrì un tempo Israele, e che nutre oggi nella liturgia del giorno la comunità dei credenti. Questa Parola va
– attesa e desiderata, anzitutto, con la stessa ansia – come ricordavamo prima – con cui le sentinelle aspettano il mattino (Sal 119,148);
– e poi accolta e riconosciuta dal giovane, nella preghiera mattutina, come la rivelazione progressiva e quotidiana della propria, identità;
– di questa manna, data “per la razione d’un giorno” (Es 16,4), egli deve imparare a nutrirsi con avidità, quasi divorandola, come il veggente dell’Apocalisse che ne sperimenta assieme la dolcezza e l’amarezza, la bellezza e la violenza (cfr. Ap 10,8-11).
– Ma la lectio non s’esaurisce nella meditazione mattutina, essa continua lungo il giorno per il credente che impara a custodire e conservare come un tesoro la Parola, in tutto quel che fa, per esser a sua volta custodito e posseduto dalla sua potenza;
– e allora sarà importante che egli rimanga ben piantato in essa, affinché la Parola sia la radice d’ogni gesto, parola, pensiero, progetto…;
– che apprenda a discernere sempre tutto, anche l’imprevisto, alla sua luce per conoscere e imparare a desiderare i desideri di Dio.
– A questo punto, lentamente e sommessamente, la Parola si compie nelle cose d’ogni giorno, un po’ come s’è compiuta nel grembo di Maria, non certo in modo automatico e subito visibile;
– e allora è necessario che il giovane, al termine della giornata, riprenda la Parola-del-giorno per riconoscere e contemplare i segni della sua “incarnazione”, per quanto piccoli e discreti;
– ma anche per renderne grazie al Padre, e per scoprire, nell’esame di coscienza, quanto in sé ha impedito questo pieno compimento della Parola stessa. Così la giornata progressivamente s’unifica attorno alla Parola, e il giovane impara a costruire la sua unità di vita attorno alla Parola.
È un esercizio lungo e paziente, qualche giorno sembrerà anche infruttuoso, ma se la guida sa accompagnare e stimolare con la pressione giusta, la Parola-evento si compie, il giovane impara il gusto di scoprirla nella sua vita, ma scopre soprattutto che è essa che unifica la sua persona e dà una direzione alla sua vita. Sentire e scoprire questo è già entrare nella docibilitas vocazionale o nello stato di vocazionabilità, nella vigilanza di chi ha imparato a lasciarsi chiamare ogni giorno da una Parola che sa rivolta a sé e di fronte alla quale si sente respons-abile, non solo capace di risposta, ma tenuto a dare risposta.
E non diciamo, per favore, che questo metodo è troppo difficile per il giovane d’oggi. Il modello genetico della fede è cammino normale e normativo per tutti i credenti, dovrebbe esser regolarmente proposto come universale via alla fede. E noi sappiamo bene che l’animazione vocazionale è ben concepita ed efficace solo quando è inserita all’interno d’una pastorale d’insieme, solo quando è animazione rivolta a tutti, sui valori fondamentali del vivere da credenti.
Modello dinamico (paolino)
Il secondo dinamismo, o esercizio che contribuisce a render la fede forte e capace di DV, lo possiamo dedurre dall’esempio di Paolo, e dal suo stile di credente intraprendente e operoso, che vive la fede come un fatto dinamico, come passione che investe con la sua energia ogni azione. Nell’opzione credente, infatti, vanno distinte due componenti: una statica e l’altra dinamica. Quella statica è legata alla fede come atto di adesione, soprattutto mentale, a un insieme di verità rivelate; quella dinamica è connessa invece a tutte quelle operazioni che esprimono la fede e ne dicono la natura, al tempo stesso rendendola sempre più coraggiosa e convincente. La componente statica di solito non crea problemi particolari; l’opzione di fede nei confronti d’un certo nucleo di verità, una volta fatta, viene mantenuta e magari riespressa nel credo domenicale senza assolutamente batter ciglio né avvertire alcuna emozione particolare per ciò che si sta dicendo o ripetendo in modo anonimo e incolore. La componente dinamica è molto meno oggetto di attenzione, e forse non tutti sanno nemmeno in cosa consista. Eppure il segreto per credere è conciliare in modo puntuale e creativo le due componenti, in una osmosi salutare; ed è pure l’esercizio cui sottoporre la fede del giovane, spesso più statica che dinamica, solo domenicale e troppo poco feriale.
In concreto: l’atto di fede s’esprime in alcune articolazioni o attività tipiche, come delle dimensioni del credere, distinte tra loro e pure strettamente collegate. Tali articolazioni sono: la consapevolezza grata della fede come dono e la libertà di continuare a ricevere tale dono, la fede come preghiera e celebrazione, la fede vissuta e tradotta in opere, la fede studiata e compresa, la fede condivisa coi fratelli credenti, la fede annunciata a tutti. Credere vuol dire metter in atto tutte queste operazioni: l’una è legata all’altra in un rapporto di reciprocità complementare, tutte assieme irrobustiscono l’atto di fede e rendono la vita coerente con esso, in ogni momento e in ogni scelta, piccola o grande che sia, che riguardi il presente o il futuro; se ne manca qualcuna, invece, di queste articolazioni, l’atto di fede s’indebolisce e l’organismo credente diviene monco, al punto che non sarà capace di prendere alcuna decisione in quanto credente. Diciamo che quando le articolazioni della fede sono rispettate nasce un atteggiamento di base di vigilanza, da cui poi può nascere – a sua volta – un DV; diversamente, se elemento statico e dinamico non s’incontrano, scade il livello di vigilanza e attenzione dell’individuo, e con esso viene fortemente meno ogni possibilità di opzione credente sulla propria vita.
Nella formazione giovanile, allora, e nella direzione spir., è necessario facilitare e provocare questo raccordo, stimolando il giovane, ancora una volta, a osservare la disciplina intrinseca dell’atto credente, e dunque, in concreto, a pregare-celebrare ciò che crede, a tradurlo in gesti concreti e originali, a cercare di capirlo con la fatica dello studio o comunque con l’applicazione diligente della mente, a condividerlo nella comunità dei credenti, ad avere il coraggio d’annunciarlo, nella catechesi o anche al di fuori della comunità credente. È sempre lo stesso contenuto, allora, e proprio questa è la peculiarità di questo metodo, che non è solo creduto con la mente ma contemplato, pregato, gustato, raccontato, scrutato, personalizzato, spremuto nella sua ricchezza, forse anche sofferto…, qualcosa che si salda con tutta la vita, la valuta pregiata che circola liberamente nelle diverse aree della personalità, la dracma da ritrovare in continuazione e da metter sempre più al centro dell’esistenza. La fede è forte e bello è credere se è “tutto” l’uomo che crede, con il cuore, con le mani, coi piedi, con la fantasia, di giorno e di notte, nell’abbondanza e nell’indigenza, nella vita e nella morte… Il DV è espressione di questa fede totale e totalizzante.
Modello storico-biblico (autobiografico)
Dal modello mariano e paolino passiamo a quel modello di cui ognuno di noi dovrebbe esser esperto, perché legato intimamente all’esperienza di vita che ogni essere umano conduce sulla terra. La fede, infatti, non nasce dal nulla o da un’adesione a occhi chiusi a una verità che ci supera o a un mistero per altro irraggiungibile, ma da una constatazione, o da una lettura in profondità, che va al di là del dato subito visibile per cogliere dietro a esso una presenza che gli dà un significato, una logica di coerenza e provvidenza… Così il cristiano crede nella paternità di Dio: perché vede e verifica tale paternità nella sua propria esistenza. La vita passata diventa allora il luogo di questa lettura illuminata dalla fede ma che porta anche a una maturazione nella fede stessa; potremmo addirittura dire che la propria storia è la prova più convincente, perché la più personale, della presenza di Dio e d’un Dio non neutro e… uguale per tutti, ma con un volto, un atteggiamento, una parola, un gesto che il credente sente rivolti a sé, inconfondibili e irripetibili. Questo esercizio della lettura del vissuto, come abbiamo già avuto modo di dire in questi incontri, è importante per la conoscenza che il soggetto deve avere di sé, per l’integrazione del suo passato e di certe ferite d’esso, per l’apprendimento di quella memoria biblico-affettiva che consente di ricordare ciò che Dio ha fatto nella storia dell’uomo attraverso tante mediazioni umane e in ogni circostanza di vita, anche quelle più dolorose. E se la vigilanza è fatta anche di memoria, come abbiamo detto prima, allora questa disciplina della memoria diventa importante per esser vigilanti e saper discernere sulla propria vita.
Anche qui, allora, c’è una disciplina da apprendere o un metodo in cui esercitarsi, per imparare questa lettura credente in modo sistematico, attraverso l’impiego di precise categorie bibliche che consentano di cogliere nella propria vita il compimento d’una autentica storia di salvezza. Categorie bibliche sono quegli eventi centrali della vicenda d’Israele, la storia-madre d’ogni storia di salvezza, che il credente impara progressivamente a riconoscere anche nella misura piccola e limitata della sua esistenza: ad esempio l’elezione, la prova, la caduta, la schiavitù, la liberazione, il mar rosso, il deserto, la manna ecc. Leggere così la vita vuol dire riscoprire le innumerevoli seduzioni e attenzioni divine di cui si è stati oggetto. Ma vuol dire, soprattutto, ritrovarsi dinanzi all’esigenza di scegliere, come Israele, continuamente posto di fronte alla via del bene e del male. La chiamata è un’altra importante e centrale categoria biblica; è impossibile “leggere” la propria storia e non cogliervi i segni continui del Dio-che-chiama[10].
Ma è importante usare anche alcune categorie psicologiche in questa lettura-scrittura del vissuto: ci riferiamo in particolare alle categorie della riappropriazione e dell’integrazione, attraverso le quali il soggetto riconosce, anzitutto, come parte di sé e del mistero dell’io quanto è accaduto nell’avventura esistenziale, anche se di segno negativo, non lo nega né lo rimuove dalla memoria; ma neppure lo subisce come un destino irreparabile, bensì cerca di coglierne il senso profondo, spesso non subito comprensibile, né identificabile con il senso apparente, fino al punto di dargli un significato originale, in modo libero e responsabile, coerente con le proprie convinzioni e con la propria fede. È proprio con questo atteggiamento che l’uomo manifesta la sua libertà e cresce nella fede: l’uomo è libero fino al punto di dare significato al suo passato, il quale non è mai passato del tutto, ma è lì, sempre presente, che attende di ricevere un significato. La fede esprime esattamente tale libertà responsabile, segno della dignità altissima dell’uomo, il quale solo a questo punto, però, diventa soggetto della sua esistenza, quando si riappropria del suo esistere già trascorso, comprese le eventuali ferite, inserendolo in un contesto armonico di significati. L’uomo può anche non esser responsabile del suo passato e delle conseguenze negative d’esso, ma è in ogni caso responsabile dell’atteggiamento che assume ora di fronte a esso, o del significato che liberamente gli attribuisce. D’altro canto, raramente gli eventi della vita si lasciano subito interpretare, appena accadono, nel loro senso più profondo, “la spiegazione d’una vita è la storia stessa di quella vita”[11]; ovvero, molte volte è il séguito degli avvenimenti successivi che dà senso e coerenza a qualche evento incomprensibile o difficile da interpretare e accettare. Anche la fede non fa eccezione a questa norma: è la lezione che ci viene ancora una volta da quella “pellegrina nella fede” che è stata Maria, che c’insegna a “custodire in cuore” quanto è avvolto dal mistero, nella certezza serena che verrà il momento della luce. È come se il modello genetico della fede potesse applicarsi non solo all’arco d’una giornata, ma di tutta la vita. E tutto contribuisse a evidenziare quella certezza e verità consolantissima che è come il versetto responsoriale di quel lungo salmo personale che è la propria biografia: Dio mi è sempre stato padre e madre in ogni istante della vita, e continuerà a esserlo… È la legge della “costanza dell’oggetto”, secondo la psicologia, o della fedeltà di Dio, narrata in ogni storia umana. Il giovane che impara a legger così il suo vissuto, cresce nella fede e apprende soprattutto un metodo prezioso per esser sempre più se stesso, soggetto del suo esistere e reso sempre più vigile. Attento al dono della vita e deciso a rispondere da credente al dono della vita.
Note
[1] Cfr. M. DIDIER, Vegliare, in X. Leon-Dufour (a cura di), Dizionario di Teologia biblica, Casale M.1984,1343-1345.
[2] Cfr. G. DEVOTO, Attenzione, attendere, tendere, in Idem, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Firenze 1968, pp.33, 427.
[3] Cfr. M. DEL BOSCO, S. DE GUIDI, L’attenzione come esercizio di umanità, Milano 1987.
[4] Cfr. A. CENCINI, Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Emmaus, Cinisello B. 1994, pp. 194-195.
[5] Cfr., ad es., GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, Om. 25,1-2,4-5: PL LXXVI, 1189-1193; AGOSTINO, In Epistolam Joannis ad Parthos: PL XXXV, IV, 6.
[6] E. BIANCHI, Il monaco nel deserto di fronte alla città, in Avvenire, 28/7/1995, p. 15.
[7] E. PEYRETTI, C’è più bene che male, in Rocca, 6 (1997), pag. 49.
[8] GIOVANNI PAOLO II, in occasione della consegna del vangelo ai giovani di Roma per la missione cittadina, in L’Osservatore Romano, 22/3/1997, p. 7.
[9] Cfr. A. CENCINI, Nell’amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, Bologna 1995, pp. 160-163; idem, Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Emmaus, Cinisello B. 1994, pp. 262-265.
[10] Cfr., su questo tema, A. CENCINI, Il mistero da ritrovare. Itinerario formativo alla decisione vocazionale, Milano 1997; idem, La storia personale, casa del mistero. Indicazioni per il discernimento vocazionale, Milano 1997.
[11] M. POMILIO, Il quinto evangelio, Milano 1968, p. 222.