N.05
Settembre/Ottobre 1998

Uomo e donna nella direzione spirituale e nell’accompagnamento vocazionale

La domanda di fondo di questa relazione è la seguente: ci sono attenzioni da dare alla differenza di sesso nella direzione spirituale? È possibile porre questa domanda in due sensi: circa la differenza di sesso tra chi dirige e chi è diretto (è importante fare attenzione al fatto che si sta dirigendo una persona di sesso diverso dal proprio?); e circa la differenza di sesso tra le persone che si dirige (è importante fare attenzione se si sta guidando un giovane o una giovane, un uomo o una donna?).

 

Qualche riga di premessa

In primo luogo: si farà più facilmente riferimento alla situazione di un direttore spirituale uomo che dirige una donna. È solo perché è ancora la situazione più comune rispetto all’inverso, anche se è sempre meno rara la situazione opposta. Tuttavia, quanto si dirà può ben essere applicato in entrambe le direzioni.

In secondo luogo: le osservazioni che seguono possono parere banali e forse lo sono. Certamente sono semplici e fanno parte del quotidiano. L’accento è posto sulla vita vissuta e sulle situazioni concrete che si incontrano facendo direzione spirituale. Tuttavia, nonostante l’impressione di dire cose ovvie, è pur vero che l’esperienza suggerisce invece che queste stesse cose non sono abbastanza dette, o forse sono scritte in qualche luogo, ma sono disattese nella pratica. Meglio allora che si mettano a tema e si facciano oggetto di riflessione, ripensando alla propria personale esperienza.

Infine: la domanda che ci poniamo – relazione tra persone di sesso diverso nella direzione spirituale – delinea un contesto ben ampio, nel quale possono rientrare temi che spaziano dalla questione femminile alla affettività nel celibato. Qui si diranno solo alcune cose, nella consapevolezza che certamente ce ne sono molte altre da considerare. Ciò che in particolare risulta interessante è che si possono individuare in tale contesto problemi che non dipendono propriamente dal sesso diverso. È quanto qualcuno ha significativamente chiamato “il corto circuito della sessualità”, l’esistenza cioè di problemi che hanno radice altrove, ma che nell’area della sessualità trovano il terreno adatto per emergere o per esprimersi. Un contesto dunque che ha i suoi problemi, ma che più spesso è cassa di risonanza di altro.

 

Tre piste di risposta

Ci sono dunque attenzioni da dare alla differenza di sesso? Occorre innanzitutto un’attenzione particolare che sia comprensione della persona che si ha davanti. In altre parole, questa prima pista dice che occorre un’attenzione particolare semplicemente perché una donna è diversa da un uomo. Se ne tiene conto nella direzione spirituale? Come guide spirituali, è necessario comprendere la persona che si ha davanti in quanto donna, attenti sia agli ostacoli che sorgono in se stessi nei confronti di questa comprensione, sia alle difficoltà provenienti dall’altra parte.

In secondo luogo occorre un’attenzione particolare che sia stima della vocazione femminile di consacrazione. È in parte una conseguenza del primo punto: la comprensione della femminilità diventa stima delle sue possibilità di espressione nella vita consacrata, in una spiritualità, in uno stile di servizio e di vita, in una modalità di fraternità “femminile”.

Occorre infine un’attenzione particolare alla relazione che si instaura tra chi dirige e chi è diretto, in quanto persone di sesso diverso. Anche questa attenzione è in parte conseguente alla prima: dalla consapevolezza della differenza, la coscienza che la propria affettività è coinvolta in maniera diversa se nella relazione interviene anche la differenza di sesso.

 

 

 

I. COMPRENDERE

 

Si accetta l’esistenza di una differenza tra i sessi che non sia solo fisica, si accetta la propria identità di persona di un determinato sesso? In termini semplici, nella relazione di aiuto spirituale, chi è donna sa cosa significa ed è per questo contenta di esserlo e chi è uomo sa cosa significa ed è per questo contento di esserlo? E ciascuno è contento che l’altro sia quello che è?

Presupposto indispensabile a questo primo passo di comprensione, è accettare che ci sia una differenza, e che questa differenza sia significativa, non marginale. Partiamo da una constatazione di chi opera nella pastorale giovanile. Si nota spesso nei gruppi giovanili, e per la verità anche in chi li guida, una tentazione all’unisex, un’affermazione pratica più che teorica (a volte però anche teorica) che “siamo tutti uguali”. Modo di vestire, linguaggio, interessi… tutto accuratamente indifferenziato. Tutti in jeans, ad esempio, felpe o magliette con le scritte. Perché? Solo perché è più comodo? Viene legittimamente il dubbio che ci sia in questo anche la fatica di accettare la propria identità, di ammettere che si è diversi. Perché un tentativo di non evidenziare per niente la differenza di sesso, soprattutto da parte delle ragazze? Siamo tutti uguali. Perché c’è bisogno di negare la differenza? Non possiamo qui entrare nel dibattito se le differenze tra sessi siano naturali o culturali, per il quale dibattito si rimanda all’utile testo di Zuanazzi, e in particolare al suo capitolo molto buono e chiaro “Maschile e femminile”[1].

Tuttavia, ricordiamo il nucleo centrale del problema: al di fuori della sfera puramente biologica, la differenza tra sessi e la loro conseguente complementarità è solo un’operazione culturale o è davvero inscritta nella natura? Esiste davvero una differenza tra i sessi, non solo biologica, al di fuori della cultura? Esiste davvero una complementarità che non sia solo un prodotto, finalizzato al dominio di un sesso sull’altro? Una posizione limite è il ritenere tutto genetico: è per natura, è perché sta scritto nei suoi cromosomi che la donna è buona, mite, sottomessa… che la donna può fare questo e non può fare quello…

Un’altra posizione limite, opposta, è che tutto è culturale: diventiamo uomini o donne perché ci hanno fatto giocare con i soldatini o con le bambole. Ma “credere la donna soltanto cultura è altrettanto poco giudizioso del crederla soltanto natura”[2].

Fin qui il dibattito. Facendo riferimento alla “questione femminile” e rileggendo il cammino di presa di coscienza operato dalle donne in questi ultimi decenni, possiamo riconoscere in questa storia l’esistenza di tre tappe: la tappa della presa di coscienza dell’uguaglianza tra i sessi, dopo l’esperienza della discriminazione; poi della presa di coscienza della differenza esistente, pur nella pari dignità; e infine della complementarietà[3].

Quest’ultima tappa, la coscienza della complementarità, è l’esito buono di tutto il processo, come descritto da Giovanni Paolo II nella sua Lettera alle Donne:

“La donna è il complemento dell’uomo, come l’uomo è il complemento della donna: donna e uomo sono tra loro complementari. La femminilità realizza l’umano quanto la mascolinità, ma con una modulazione diversa e complementare. Quando la Genesi parla di aiuto reciproco, non si riferisce soltanto all’ambito dell’agire, ma anche a quello dell’essere. Femminilità e mascolinità sono tra loro complementari non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico. È soltanto grazie alla dualità del maschile e del femminile che l’umano si realizza appieno” (n.7)[4].

Ora, il passaggio alla consapevolezza della pari dignità tra uomo e donna è avvenuto attraverso una difficile fase della negazione della differenza, i cui strascichi permangono ancora. Credere che la differenza sia solo un’operazione culturale, secondo una delle posizioni sopra descritte, porta ovviamente al rifiuto della femminilità. Perché infatti prestarsi a una differenza imposta da un ambiente culturale condizionato da stereotipi sociali?

Ma è vero anche che la paura della differenza porta a negare la sua realtà oggettiva e a farne solo una questione di ambiente e di educazione, una questione che si pone “fuori” e non “dentro”, più facile perciò da trattare. Perché la differenza è sentita come inferiorità, è essere di meno: io donna nego la differenza perché nella differenza io ci perdo.

“La donna è stata vista come un essere inferiore; anzi, come una sorta di impoverimento dell’umano, poiché di fatto l’umano veniva fatto coincidere con l’uomo”[5].

Infatti, anche là dove si riconoscono caratteristiche femminili peculiari della donna (la sensibilità, la tenerezza, la capacità di sacrificio, il tipo di intelligenza…), lo si fa in modo svalutativo:

“Quando si dice, per esempio che la donna è più emotiva dell’uomo o che l’uomo è meno emotivo della donna, è inteso, anche senza che sia detto, che una minore emotività è normale e che la sensibilità femminile è una deviazione che chiede di essere spiegata. Nessuno considera un mistero l’uomo, ma tutti considerano un mistero la donna”[6].

Ora, se accettare di essere femminile è accettare di essere inferiore, ci si pensa due volte, soprattutto se la paura dell’inferiorità gioca un ruolo centrale nel sistema motivazionale della persona. La differenza percepita come inferiorità esaspera ogni fragilità e insicurezza: per questo la si annulla e ci si adegua a quella che sembra la maggioranza forte.

Ancora troppo spesso la giovane rifiuta a parole la superiorità maschile, ma in realtà non sa cogliere altri modelli di successo e di valore davanti a sé. Si fa difficile allora l’accettazione della propria identità femminile, che diventa il luogo in cui si amplifica ogni senso di insicurezza personale e di inadeguatezza,
il dubbio su di sé, la paura dell’inferiorità, con conseguente timore dell’intimità. 

C’è tuttavia anche il rischio di esasperare la seconda tappa, la tappa del riconoscere l’esistenza di una differenza. Esasperandola si arriva a risultati di autonomia aggressiva, quando le persone di un sesso dicono a quelle dell’altro sesso: “non abbiamo bisogno di voi”. La paura della vulnerabilità, legata alla percezione della differenza, può travestirsi anche così, dietro la maschera di un rifiuto aggressivo.

È molto interessante al proposito un lavoro di ricerca compiuto anni fa nei campus americani, a partire dalla constatazione di un rapporto di indifferenza tra ragazzi e ragazze studenti, di una mancanza di desiderio generalizzata, di un’impotenza diffusa, come frutto di una aggressività proveniente dalla paura della vulnerabilità[7].

La donna rifiuta il rapporto intimo come pericoloso per la propria realizzazione; si deve difendere perché “sente” l’intimità pericolosa per il proprio successo e il coinvolgimento affettivo come un rischio, come una minaccia di svalutazione della sua persona. L’uomo sente invece pericolosa la competizione esasperata cui è sottoposto (tra rischio del fallimento che umilia e rischio del successo che espone all’ostilità), si sente vulnerabile di fronte all’aggressività della donna, al pericolo che corre il suo ruolo. Come esiti: ostilità reciproca, aggressività che diventa passività, mancanza di desiderio, o uso del sesso in modo frammentato, senza coinvolgimento affettivo, percepito come debolezza e minaccia per la propria persona.

Questi cenni sono sufficienti per chiederci: sul versante degli accompagnatori, siamo in grado di aiutare la giovane ad essere contenta di essere donna? Se si nega la differenza, se ne ha paura, se si svaluta la femminilità percependola in chiave di caricatura dell’umano, o anche se la si idealizza superficialmente, che è un altro modo di trattarla impropriamente, se non si apprezza e non si valorizza il contributo delle donne, se la guida è una donna che non è contenta di essere donna… è l’accompagnatore stesso a mandare un messaggio che non educa all’assunzione della propria identità. Accettare l’esistenza di una diversità significativa tra i sessi porta a chiedersi: ma quale diversità? Tentare di rispondere richiederebbe troppo tempo per una riflessione breve come questa. Ma una risposta va cercata.

Ci limitiamo perciò di nuovo a suggerire il lavoro di Zuanazzi[8]. O quello di Anna Bissi, che evidenzia alcune caratteristiche della donna proprio a partire dalla sua identità sessuale, dalla differenza fisica che diventa differenza psichica e spirituale: capacità di accogliere, di intuire, di compatire, di relazionarsi, con i risvolti negativi della passività, dell’eccesso di sensibilità, del vittimismo, della seduzione e della manipolazione[9].

Chissà se si “studia” la donna nei seminari… È più di metà del genere umano e quindi più di metà (direi ben di più poi nel concreto delle relazioni ministeriali) delle persone che sono affidate a un prete… Concludiamo con la domanda di apertura come invito alla verifica: sappiamo che c’è una differenza significativa che non è solo fisica tra i sessi e quale è? E a che punto ci troviamo del cammino a tre tappe sopra delineato?

 

 

II. STIMARE

 

Data la prima pista, ne consegue naturalmente questa seconda, che tocca lo specifico del cammino che stiamo approfondendo in questi giorni: la direzione spirituale a servizio dell’animazione vocazionale.

Nel trattare con persone dell’altro sesso, abbiamo stima della vita consacrata che le riguarda? Abbiamo stima, noi guide spirituali, della vita consacrata femminile, della vita missionaria femminile, della vita contemplativa femminile? Le conosciamo e le stimiamo? Forse abbiamo già sentito sacerdoti dire: Proporrei a un giovane il seminario, ma a una giovane la vita religiosa no… Non si tratta certamente di chiudere gli occhi su difficoltà reali o su infedeltà all’ideale effettivamente esistenti nel concreto della vita consacrata femminile. Si tratta però anche di verificare la nostra stima per le proposte. Che idea ne abbiamo? Completa? Corretta?

Se non si affronta questo aspetto, ne deriva un messaggio contraddittorio, svalutativo, o la delega ad altri di un accompagnamento giunto a un certo punto di chiarezza vocazionale. La mancanza di conoscenza potrebbe portare anche al rischio opposto, quello di spingere o di ritenere superficialmente adatte alla vita religiosa ragazze che non lo sono affatto, per una carenza di conoscenza delle esigenze della vita consacrata (oltre al sempre possibile bisogno di prestigio: quanti “ne ho mandati/e” in seminario o in convento…).

O ancora, ci sono direttori spirituali “interessati” a non perdere forze attive nella parrocchia e che per questo scoraggiano, direttamente o indirettamente, una giovane dal dedicarsi “a tempo pieno”. La ragazza che sceglie la vita consacrata o, peggio, missionaria è “persa” (prima di pensare alla missione ad gentes bisogna risolvere tutti i problemi della parrocchia e dell’oratorio e della diocesi e della Chiesa italiana…). Di nuovo, quanto nei seminari si parla della vita consacrata e di quella femminile in particolare? E come? Eppure, chi finisce poi per fare da direttore spirituale alle ragazze?

Fa parte di questa pista anche il coltivare rapporti buoni e maturi con la vita religiosa femminile, perché la stima di cui parliamo si radichi nella realtà di un’esperienza positiva, senza idealizzazioni, ma anche senza riduzioni, per essere liberi di proporre e di non proporre.

 

 

III. ENTRARE IN RELAZIONE

 

Ci possono essere delle immaturità che, coinvolgendo le emozioni, i bisogni, le potenzialità della persona, giocano maggiormente nelle relazioni di aiuto tra persone di sesso diverso. Certamente perché esiste una forza di attrazione in più. Ma non solo: perché, come dice Zuanazzi, “l’alterità umana più radicale è sotto il segno della sessualità”[10].

Quanto si sottolineava sopra, insicurezza, aggressività, paura della vulnerabilità e dell’intimità, o ancora il bisogno di esibizionismo, di dominazione, di prestigio, non sono certo esclusivi di una relazione tra uomo e donna. Riguardano le relazioni in quanto tali. Ma appunto l’alterità nella differenza di sesso ha una caratteristica di maggior radicalità: maggior attrazione, maggior paura.

Diciamo subito che un problema è l’esistenza di dinamiche immature che possono portare a comportamenti errati. Ma un altro problema, il primo da affrontare, è la razionalizzazione delle dinamiche immature: che significa riuscire a trovare dei buoni motivi per giustificarne la gratificazione, prima ai propri occhi e poi a quelli degli altri. Pensando ad alcuni equivoci circa la relazione di aiuto, fraintendimenti che non sono nuovi, viene fatto di domandarsi se sono ormai sostanzialmente superati o se invece non siano ancora abbastanza diffusi.

Certamente si può dire che oggi i libri che circolano sulla direzione spirituale sono buoni e le idee giuste. Ma le osservazioni che seguono partono da fatti accaduti e non da teorie. Si può legittimamente pensare che ci siano ancora persone ingenue e ignoranti in materia: l’esperienza direbbe infatti che le ignoranze, le incomprensioni, fino agli abusi veri e propri in questo senso non sono affatto superati. Ecco dunque una serie di “equivoci” ancora in circolazione.

 

Primo equivoco:

occorre una relazione intima tra uomo e donna per una crescita della persona.

È l’idea (sbagliata) che senza una intima relazione con un uomo, la donna non può crescere come donna. O che il prete che non ha relazioni intime non sarà mai veramente umano, non capirà le persone. Si tratta di razionalizzazioni che in genere seguono, non precedono, il sorgere di una relazione intima.

Tutto questo fa parte del nostro tema perché è facile che sia proprio all’interno di una relazione che parte come relazione di aiuto, quindi di comunicazione spirituale, una relazione in cui un uomo guida una donna, che succeda che, sentito come una necessità, la relazione evolva in un rapporto di intimità. È convinzione di alcuni che stimolando il desiderio sessuale si cresca come uomo e come donna, mentre invece la rinuncia non faccia crescere. Parte da qui la dinamica del compromesso, sostenuta dalla domanda “Cosa c’è di male?”[11].

Accade a volte che a queste proposte la giovane si senta inclinata a compiacere. A volte, invece, nella direzione spirituale, giovani, o anche consacrate, si sentono sottoposte alla pressione di richieste o esperienze che turbano molto. Non è una cosa rarissima, che la persona a cui ci si è affidati abusi della semplicità, dell’ingenuità o dell’ignoranza.. Non è un comportamento necessariamente in mala fede o patologico, ma alimentato da immaturità personali, da razionalizzazioni e da convinzioni confuse su ciò che è aiutare la persona a crescere, avere un rapporto di confidenza…

È prudente parlare di problemi dell’area sessuale solo quando si è sicuri della serietà della persona con cui ci si apre. Alla fine, infatti, in una relazione fondata su presupposti errati, soffrirà di più chi è più debole.

 

Secondo equivoco:

se si sente un’attrazione per l’altro o per l’altra è bene dirlo alla persona interessata.

C’è chi crede che se esiste una attrazione all’interno della relazione di direzione spirituale, se si percepisce qualcosa di simile a un innamoramento, più o meno chiaro, è sempre bene comunicarlo. Perché dirlo? Si risponde: per essere aiutati a resistere; per onestà e sincerità; perché la guida deve sapere tutto. In genere non è vero: è meglio non dirlo alla persona interessata.

Dire sì, dire va bene, come consiglia anche Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi[12], là dove paragona il diavolo al “falso amante che vuole restare nascosto e non vuole venire scoperto”, per riuscire a sedurre una donna “proibita”: ma dirlo a un’altra persona di fiducia.

Parlare, dunque, ma non alla persona interessata: perché non si è affatto obbligati a dire tutto; perché la persona coinvolta è la meno adatta ad aiutare; perché se è attratta anche lei sarà ancora più difficile; e se non lo è, si possono crearle problemi inutili; perché la sincerità e l’onestà non sono le uniche virtù e soprattutto non si esercitano solo nella comunicazione.

In queste situazioni, infatti, spesso nella persona coinvolta c’è un gran desiderio di dire, ma c’è anche molta ambiguità nella motivazione del dire. Perché questo bisogno, le cui giustificazioni teoriche non tengono? Perché, anche se non lo si vede e non lo si ammette, si vuole comunicare per ricevere qualcosa in cambio. Il fatto che l’altro sappia, unisce; avvicina, non allontana. E così ci si consegna e si riceve la ricompensa della reciprocità. È un passo avanti verso il rendere una relazione intima possibile. Proprio l’onestà direbbe di non barare e non autoingannarsi: se si desidera davvero il distacco, bisogna farlo, non dire di volerlo fare.

 

Terzo equivoco:

in una relazione di aiuto, occorre la reciprocità.

Ci sono direttori spirituali che sentono di dover dire tutto di sé, di dover comunicare i loro problemi, le loro difficoltà personali, magari simili a quelli che la persona diretta espone. Abbastanza spesso finisce che il direttore spirituale parla di sé. Perché? Forse, soprattutto all’inizio, parlare di sé serve soprattutto a diminuire l’ansia del non saper come affrontare il problema dell’altro. Si comunica piuttosto la propria esperienza, che in qualche modo è già elaborata, già pronta. Si evita la fatica del silenzio che ascolta e riflette.

Oltre che ricerca di sicurezza, può anche essere desiderio di avvicinare l’altra persona a sé. Il bisogno di raccontarsi a tutti i costi indica facilmente desiderio di dipendere. Comunicare è dare qualcosa di sé che suscita una risposta.

In genere non è positivo. Chi infatti era venuto per parlare non si sente davvero ascoltato e, anzi, si sente un poco costretto al ruolo non cercato di ascoltatore. Ha l’impressione che la guida stia pensando al proprio mondo più che, con grande libertà di ascolto, incontrare il suo, quello di chi parla. Ha l’impressione che la sua esperienza venga filtrata attraverso quella dell’altro.

A volte si trova addosso il peso delle fatiche di chi dovrebbe essere la guida. Perché raccontare i propri problemi, la propria stanchezza, la propria solitudine alla ragazza dell’oratorio, alla ragazza che cerca una guida spirituale? Nella situazione di direzione spirituale, l’offerta di reciprocità toglie libertà. E può nascondere la gratificazione di una debolezza.

Non parlare di sé non è una strategia per mostrarsi torri d’avorio, ma per essere totalmente disponibili all’altro. Non significa voler meno bene. Anzi: si vuole più bene, perché si rinuncia, per l’altro, a ciò che fa semplicemente piacere, a ciò che solleva dall’ansia, a ciò che ricompensa.

Se poi questo tipo di reciprocità è chiesto o preteso, la relazione va espressamente chiarita. Ma i giovani cercano proprio un compagno in più, una compagna in più, una persona alla pari, allo stesso livello? O una guida? Non vale la pena svendere l’aiuto spirituale che si può dare per gratificare il bisogno di sentirsi immediatamente e superficialmente ben accolti. Favorire l’amicizia tra preti, ecco piuttosto cosa sarebbe bene per gioire di sane relazioni alla pari[13].

 

Quarto equivoco:

occorre essere sinceri, cioè spontanei nel linguaggio, nel comportamento, nell’espressione dei propri sentimenti.

Nel dire questo, si fa coincidere che l’autenticità coincida con la spontaneità; e si suppone che a manifestare tutto quello che si sente e come ci si sente, l’altro capirà il messaggio così come si intende comunicarlo. Perciò, se non si intende niente di particolare, “niente di male”, con questo gesto, questo atteggiamento, questa parola, l’altro non capirà o non sentirà niente di più o di diverso. Qui sotto c’è o molta ingenuità o molto egocentrismo.

Per esempio, si può ritenere che alcune manifestazioni fisiche di tenerezza esprimano amicizia e basta e quindi non ci sia nessun problema a manifestare così tenerezza all’altro all’interno del rapporto di direzione spirituale. Ma chi garantisce che per l’altro quelle manifestazioni di tenerezza significhino la stessa cosa, restino nei confini che sono stati assegnati dall’intenzionalità, non provochino niente? Frequenza di telefonate, appuntamenti in luoghi diversi da un ufficio parrocchiale o simili, gesti particolari di attenzione, regalini… È sufficiente dirsi: io intendo solo questo e questo? Quale il significato di un bigliettino, di un gesto affettuoso… di una prossimità fisica più stretta? Di raccontare qualcosa dicendo: “non lo dico a nessun altro, lo sai solo tu”?

Ci sono segni di affetto che fanno credere in una preferenza che ha dell’esclusivo, che fanno nascere attese, gelosie. Nessuna intenzione di esclusività da parte della guida, può darsi. Ma questo comportamento fa crescere la persona o alimenta e gratifica l’immaturità?

In realtà, dire “per me non c’è niente di male” è in fondo una forma di mancanza di rispetto. Quando si dice “per me non c’è niente di male, per me non è importante…”, può essere mancanza di rispetto del modo di esprimersi e di sentire dell’altro. Non è questione di rigidità. È questione di giustizia. Non si dovrebbero fare “promesse” che in fondo non si intende mantenere. 

Qui si potrebbe anche aprire tutto un capitolo sulla gestualità e il suo significato. Per approfondire, allargando un poco il discorso, rimandiamo di nuovo a Zuanazzi, al capitolo “La protesta dell’eros”, sul pudore[14].

 

Quinto equivoco:

per aiutare una persona a liberarsi se percepiamo che è bloccata in alcune aree, occorre farle recuperare quello che non ha avuto.

E dunque, quando si capisce che la persona che io dirigo vuole la mamma, o il padre, o non ha fatto alcune esperienze al momento giusto, o ha esigenze infantili di attenzione e di affetto, si deve permettere che recuperi, che le faccia nella relazione che si instaura? In realtà, non è utile e non è possibile. Occorre semmai far fare esperienza di fiducia, di amicizia matura.

Interessanti sono a questo proposito le osservazioni di molti psicoterapeuti seri: sottolineano la futilità dei tentativi di gratificare le richieste immature dei pazienti. Più si tenta di gratificare, più le richieste diventano insaziabili[15].

Il discorso può venire molto bene applicato alla situazione dell’accompagnamento e anche della formazione iniziale. Tutti questi equivoci sono alimentati dall’immaturità (psicologica, ma anche spirituale e morale) che inquina la motivazione del dare direzione spirituale.

La domanda di verifica qui può risuonare così: sono disposto a indagare in me per un aiuto più libero? Sono disposto ad affrontare le aree meno libere della mia personalità, sapendo che allargare la libertà significa allargare la capacità di dono e di aiuto efficace? Infatti, è evidente che le conseguenze del non affrontare le proprie immaturità si ripercuotono sulle persone che si guidano.

Per esempio, si rischia di inviare doppi messaggi, non si toccano i punti che mettono in questione, si fatica ad accompagnare l’altro nelle sue debolezze se non si sono accettate e affrontate in se stessi. Lo dice con chiarezza Martini nel suo “La radicalità della fede”, considerando in particolare le aree della preghiera e della castità[16].

Se non si è affrontato, pur senza la pretesa di aver risolto tutto, come si aiuterà? Occorre quindi il coraggio di domandarsi: dare direzione spirituale gratifica le proprie immaturità? Gratifica le proprie necessità di successo e di prestigio? Di affetto e di dipendenza? Di dominazione e esibizionismo? Quali segni si sanno scoprire di tutto questo? Si è disposti a fare la fatica di conoscersi, accettare, cambiare? Non è perdita di tempo. È preparare l’olio per il momento del sonno, per quando servirà conoscersi, prevedere, aver lavorato su se stessi prima. È faticare oggi per essere più liberi: liberi di servire gli altri, e non di servirsene.

 

 

 

 

Note

[1] ZUANAZZI, G. Temi e simboli dell’eros, Città Nuova Ed., Roma, 1991, pp. 35-54.

[2] Ivi, p. 36.

[3] Per questa rilettura e l’approfondimento del tema, cfr. FARINA, M. Sentieri profetici femminili nell’attuale transizione culturale, in VALERIO, A. DONNA, Potere e profezia, D’Auria, 1995, pp. 235-276. Cfr. anche FARINA, M. Nuova evangelizzazione: vie profetiche femminili, in: ROSANNA, E., CHIAIA, M. Donne per una cultura della vita, LAS, Roma, 1994, pp. 65-110.

[4] GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle donne, 1995.

[5] ZUANAZZI G., cit., p. 38.

[6] Ibidem.

[7] HENDIN H., The revolt against love, sexual Ivarfare on campus, in The Age of Sensation, Norton Ed., 1975.

[8] ZUANAZZI G., cit.

[9] BISSI A., La maestra di spirito, in: AA.VV, La Donna consacrata, testimone e guida tra i giovani, Monti Ed., Saronno, 1993, pp. 46-67. Cfr. anche la ricerca su “Difficoltà vocazionali differenti tra gli uomini e le donne”, in: BISSI A., Maturità umana: cammino di trascendenza, ed. Piemme, Casale Monferrato, 1991, pp. 219-226.

[10] ZUANAZZI G., cit., p. 35.

[11] Cfr. sul tema del compromesso in campo affettivo: CENCINI A., Nell’amore: libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, ed. Dehoniane, Bologna, 1995, pp. 123-126.

[12] IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi Spirituali, Regole per il discernimento degli spiriti, 13a regola.

[13] Cfr. BROVELLI F., Quando eri più giovane, “entrare” nel ministero, ed. Ancora, Milano, 1995, pp. 96-98. Cfr. anche, dello stesso autore, Camminare nella luce, dialogo sulla vita del prete oggi, ed. Ancora, Milano, 1993, pp. 38-44.

[14] ZUANAZZI G., cit., pp. 122-137.

[15] Cfr. ad esempio, GABBARD G., Psichiatria psicodinamica, ed. Cortina, Milano, 1992, pp. 446-452: gli otto principi tecnici descritti per la psicoterapia di pazienti “borderline” contengono spunti utili per molte situazioni di accompagnamento.

[16] MARTINI C.M., La radicalità della fede, ed. Piemme, Casale Monferrato, 1991.