Ciò che le nostre mani hanno toccato (1Gv 1,1)
L’incontro con la realtà personale di Cristo è il desiderio che ogni credente porta nel cuore. Ne cogliamo tutta la forza nelle scene evangeliche che ritraggono Gesù che guarda, insegna, ascolta, interroga, cammina, lavora, condivide e incontra la gente. La sua mano si tende verso chi lo cerca e desidera sentirsi accolto e sanato. Tale relazione assume una valenza progettuale che manifesta l’aspirazione più profonda dell’uomo, la comunione di amore con Dio e i fratelli.
La concretezza della relazione con Cristo si manifesta anche attraverso l’immagine delle mani: Gesù tocca il lebbroso (Mt 8,3), solleva la suocera di Pietro (8,15), la bambina di Giairo (Mc 5,41), guarisce il sordomuto (7,32), guida e sana il cieco di Betsaida (8,22-26), prende per mano il giovane epilettico (9,27), applica il fango sugli occhi del cieco di Gerusalemme (Gv 9,6-7), lava i piedi dei discepoli (13,1-11), appare risorto con le mani trafitte (20,20.27).
Colpisce l’inizio del prologo di 1Gv 1,1 che recita: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita». Giovanni descrive l’esperienza vissuta «fin da principio» come memoria viva e operante della Parola incarnata. Le parole tradiscono l’emozione di una sorpresa: la presenza del Risorto che dona la gioia di ricominciare. La lettera ha come interlocutori soprattutto i giovani. La lontananza e la solitudine del peccato possono essere vinte dalla fede condivisa nella «storia» delle relazioni (cf. l’aoristo: «toccarono»). L’intreccio ecclesiale della testimonianza tra il «noi» e il «voi» si declina nella descrizione realistica della vita piena (1,2), che proviene del Verbo «udito, venuto, contemplato, toccato». È l’umanità di Gesù crocifisso e risorto la «via privilegiata» attraverso la quale si scopre la gioiosa bellezza della vocazione cristiana e il suo dinamismo missionario (1,3) (Cf. Francesco, Evangelii Gaudium, 264).
Il culmine di questo processo è la comunione (koinōnia) che supera ogni solitudine e ci conferma figli di Dio e fratelli in Cristo.
L’insistenza di 1Gv 1,1 sul realismo dell’esperienza cristiana è motivata dal rischio accattivante di inseguire una spiritualità teorica, idealistica, che sembra serpeggiare fin dai tempi della comunità giovannea. Di fronte alle «mani che cercano» di tanta gente, alcuni credenti non accettano la logica dell’incarnazione, preferendo una spiritualità mondana. Papa Francesco mette in guardia da questo modello di fede, parlando del «fascino dello gnosticismo». Le sue parole sono quanto mai incisive: «Questa mondanità può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro. Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (EG 94). Contemplare la vita di Cristo significa lasciarsi trasformare il cuore e aprirsi ad un autentico discernimento spirituale insieme ai fratelli.
Una delle pretese del cristianesimo delle origini è la scoperta della «fraternità» che supera particolarismi e settarismi. Toccare il Verbo della vita e testimoniare l’amore liberante significa andare alla sorgente della propria identità e missione. Non si può essere osservatori passivi della storia, ma occorre impegnarsi per trasformarla radicalmente, con il «si» al progetto divino. In questo senso il cammino di santità proposto nella Prima lettera di Giovanni consiste nel saper discernere la volontà di Dio e costruire relazioni di verità. L’immagine delle mani strette in un abbraccio di amore evoca la fiducia e apre alla speranza. Mani che servono e che cercano, che proteggono e che accarezzano, che donano e che difendono.
Sono quelle mani che hanno toccato il Verbo della Vita!