N.03
Maggio/Giugno 1994

La sofferenza: un valore e un itinerario vocazionale

Nell’esperienza quotidiana dell’uomo c’è dolore, sofferenza, malattia: sono tanti “enigmi”, ma anche tanti “segni” e “voci” che si levano dalla condizione umana.

Il presente numero monografico di Vocazioni – approfondendo lo stretto rapporto tra pastorale della sofferenza e pastorale delle vocazioni – si propone di ascoltare queste “voci”, leggere i “segni” che si elevano dalla sofferenza umana.

La “Salvifici Doloris”, la Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II sul senso cristiano della sofferenza umana, resta il punto di riferimento unico a cui ricondurre i vari contributi che nelle pagine seguenti – dal punto di vista biblico, teologico, pastorale ed esperienziale – cercano di affrontare, con comprensibile fatica, un tema da sempre sfuggente nei suoi significati profondi all’esperienza e alla riflessione umana.

 

Il senso salvifico e vocazionale della sofferenza

“Quasi sempre ciascuno entra nella sofferenza con una protesta tipicamente umana e con la domanda del suo perché”[1].

“…È un interrogativo circa la causa, la ragione, ed insieme un interrogativo circa lo scopo e, in definitiva, circa il senso della sofferenza”[2].

Ci conforta il fatto che “l’uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio con tutta la commozione del suo cuore e con la mente piena di stupore e di inquietudine; e Dio aspetta la domanda e l’ascolta, come vediamo nella Rivelazione dell’Antico Testamento”[3].

Se infatti proviamo ad andare al cuore della storia di ogni vocazione- da quelle documentate dalla Bibbia a quelle documentate dalla vita della Chiesa e dalla storia della vocazione di ciascuno di noi – riemerge costantemente il “perché” ovvero la “ricerca” della motivazione e del senso ultimo del coinvolgimento della vicenda di un uomo nella vocazione stessa di Dio.

Solo scoprendo il “senso”, e specificatamente il “senso salvifico della sofferenza” di Cristo, è possibile cogliere lo stretto rapporto tra pastorale della sofferenza e pastorale delle vocazioni.

Evitando superflui giri di parole – pur consapevoli che “l’uomo nella sua sofferenza, rimane un mistero intangibile” [4]– è opportuno con il S. Padre centrare il nucleo del tema che stiamo trattando: “la redenzione si è compiuta mediante la Croce di Cristo, ossia mediante la sua sofferenza”[5].

Ogni volta che l’uomo credente si allontana da questo nucleo essenziale e centrale del mistero pasquale, s’incammina più o meno consapevolmente, non solo verso l’incomprensione e la non accoglienza della sofferenza ma anche, pari passo, verso una sequela debole del suo Signore.

Per chi vive un cammino di fede – nell’esperienza vocazionale delle possibili espressioni umane di sofferenza o nell’esperienza della vita accolta e vissuta in uno stato di vita come vocazione – la Croce resta l’icona di riferimento indiscussa e inconfondibile, a tutto tondo.

“Bisogna, soprattutto, accogliere la luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l’ordine trascendente della giustizia, ma in quanto illumina questo ordine con l’amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L’Amore è anche la sorgente più piena della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all’uomo nella Croce di Gesù Cristo” [6].

Illuminante in merito anche questa sintesi del S. Padre: “per poter percepire la vera risposta al ‘perché’ della sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la rivelazione dell’amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste” [7].

D’altro canto il senso di ogni “chiamata” è incomprensibile se non a partire dall’Amore di Dio e ogni “risposta” dell’uomo non è autentica se non è partecipazione reale all’amore della Croce.

Emblematica in proposito è la testimonianza vocazionale e l’esperienza di sofferenza dell’apostolo Paolo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

 

La malattia: un itinerario vocazionale

Dall’insieme dei contributi che seguono – seppur in ordine sparso, causa l’inafferrabilità per sua natura del tema affrontato – mi sembra che emergano le condizioni per cui la malattia assurge a itinerario vocazionale: quasi un “luogo teologico” in cui si può sperimentare la chiamata di Dio e la risposta dell’uomo. Anche a partire da una parentesi della mia vita – che mi ha visto immobile e non autosufficiente per lunghi mesi – mi permetto rileggere e sintetizzare alcuni aspetti teologici e pedagogici che si possono misteriosamente intrecciare nell’esperienza di malattia del credente.

 

La malattia “luogo di ascolto”

Il letto della malattia diventa spontaneamente, per dono di Dio – soprattutto quando la malattia è grave o prelude ad un cambiamento di stile di vita temporaneo o permanente rispetto a quello vissuto precedentemente – un “luogo di ascolto” nuovo della Parola di Dio.

Ricordo, e chiedo scusa al lettore se attingo al taccuino della mia esperienza personale, il sapore nuovo che assumeva la preghiera dei Salmi che arrivava alla mia anima, di primo mattino o alla sera, dai microfoni dell’ospedale o dalla voce di qualche buon amico che accanto a me – impotente anche a muovere un braccio – mi faceva la carità attesa di pregare la Liturgia delle Ore.

La preghiera dei Salmi – una preghiera di lode, di supplica, di ringraziamento, di lamento… – che Gesù stesso, durante la sua vita ha fatto propria, fino sulla Croce, per rivolgersi e mettersi in ascolto del Padre.

Quanto sentivo, e rivivevo come mai vere, queste espressioni usurate a volte dall’abitudine: “Volgiti, Signore, a liberarmi…”; “Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia, perché ti nascondi?”; “Tu vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e prendi nelle tue mani…”; “Mia forza e mio canto è il Signore…”; “Tu, o Signore, ci custodirai…”; “Il Signore guarda dal cielo, egli vede tutti gli uomini…”.

E così il dono, di imparare a “non far cadere nessuna delle Parole uscite dalla Sua bocca”!

A partire da questo “ascolto nuovo”, cioè con cuore libero, della Parola di Dio, la malattia diventa un osservatorio completamente nuovo da cui riascoltare la propria esperienza di fede e rileggere la propria storia vocazionale: allora comprendevo di più il dono della fede ( … il “ti basta la mia grazia!”, proprio dei Santi); il valore della vita (…unico e irripetibile dono personale da trafficare al massimo); le relazioni con gli altri (… vere solo secondo il comandamento dell’amore, non competitivo…); le relazioni con il mondo esterno (… il creato a portata di mano e accolto poco come dono); le relazioni con il proprio corpo (. ..ora davvero arreso alla disponibilità e accoglienza degli altri…).

La sofferenza è quindi una Parola – “di cui non c’è l’eguale”- inviata all’uomo: alla luce della quale prende avvio un ascolto e una lettura nuova e vera della vita, della propria fede e della propria vocazione: l’uomo “nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita e della propria vocazione”[8].

 

La malattia “luogo di obbedienza”

La malattia è “luogo”, “tempo di grazia”, per conoscere Cristo; per stabilire o rinnovare una più profonda “relazione” con Lui.

La vita quotidiana può essere occasione di dispersione o di usura di ogni rapporto: non è insolito o improbabile che la stessa “relazione” con il Signore rischi l’usura dell’abitudine o di essere relegata nell’ordinarietà dei tanti rapporti che la quotidianità porta con sé.

La malattia obbliga a radunare le forze e a concentrarsi: viene spontaneo rileggere il vissuto, dare qualità ad ogni relazione, soprattutto nella misura in cui il malato ha la grazia di dare un senso all’esperienza in atto.

“Il cristiano ha una via di assunzione della malattia e la possibilità di attribuirle un senso: la via della sottomissione a Dio. Evitando atteggiamenti titanistici e demissori io mi sottometto nella fede a Colui che dà senso alla mia esistenza, che vi ha dato senso fino a ieri nella salute, e che dà senso anche ora nella malattia”[9]. È l’esperienza di S. Paolo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” Forse la malattia…?

“È questa fede che fa superare al cristiano malato la tentazione della rivolta e lo porta all’accettazione e all’obbedienza, a rinnovare la propria relazione con il Signore nella malattia” [10].

La malattia è così la chiamata concreta a esercitarsi nell’obbedienza – “il fare la volontà del Padre” – come corsia preferenziale per coltivare e approfondire una relazione autentica con Dio.

Una relazione obbedienziale, maturata al vaglio della sofferenza, favorisce nella persona l’accoglienza di un dono dello Spirito: la fortezza. Numerosissime virtù – la pazienza, la sopportazione, il coraggio, la rassegnazione, l’autocontrollo, la mansuetudine… – espressioni di quella fortezza d’animo maturata nella relazione obbedienziale con il Signore, sono il bagaglio indispensabile per la fedeltà alla vocazione cristiana e, in essa, per la maturazione di una vocazione di speciale consacrazione.

 

La malattia “luogo di discernimento”

Il discernimento, come ascolto profondo e riconoscimento della voce inconfondibile di Dio, è forse il passaggio più difficile di ogni ricerca e maturazione vocazionale.

La mediazione della Chiesa – come mediazione nello Spirito attraverso mezzi e segni umani – accompagna ordinariamente il chiamato nella percezione e riconoscimento della voce del Signore, nel discernimento delle tracce del passaggio di Dio nella vita dell’uomo, diventando garanzia dell’autenticità di una chiamata divina.

Dio – questa è la pedagogia divina – chiama l’uomo “in situazione”, mai avulso dalla vita e dalla storia quotidiana. Uno di questi “luoghi umani” che Dio privilegia, per far arrivare la sua voce, è senza dubbio la sofferenza: fisica, morale, spirituale.

Nella sofferenza la voce del Signore si percepisce nella sua essenzialità: forse perché viene meno e si ridimensiona il “chiacchiericcio interiore” provocato dalle tante voci che ordinariamente si contendono la mente e il cuore dell’uomo.

Per il credente la sofferenza è anzitutto il “luogo” in cui discernere la chiamata alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle: il discernimento del senso e del valore salvifico della sofferenza.

“Ciascuno si chiede il senso della sofferenza e cerca una risposta a questa domanda al suo livello umano… Certamente pone più volte questa domanda anche a Dio, come la pone a Cristo… Tuttavia c’è bisogno di tempo, persino di lungo tempo, perché questa risposta cominci ad essere internamente percepibile. Cristo, infatti, non risponde in astratto a questo interrogativo umano, cerca il senso della sofferenza. L’uomo ode la sua risposta salvifica man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo. La risposta che giunge mediante tale partecipazione, è infatti, soprattutto una chiamata. È una vocazione. Cristo non spiega in astratto le ragioni della sofferenza, ma prima di tutto dice: ‘Seguimi!’ Vieni! Prendi parte con la tua sofferenza a quest’opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia Croce. Al tempo stesso, però, da questo livello di Cristo, quel senso salvifico della sofferenza scende al livello dell’uomo e diventa, in qualche modo, la sua risposta personale”[11].

La sofferenza, di qualsiasi genere, è quindi una “chiamata in diretta” da parte di Dio. Questa chiamata, e il dialogo che ne consegue, ha anche il vantaggio di aiutare a discernere ciò che è “valore assoluto” nell’esperienza umana da ciò che è “relativo”, secondario.

L’esperienza di sofferenza è come un obiettivo che mette a fuoco l’essenziale. In un cammino impegnativo, qual’è ogni maturazione vocazionale e specificamente la maturazione di una vocazione di speciale consacrazione, è determinante liberarsi dipesi superflui e mirare all’essenziale della vita e di una vita secondo Cristo.

È anche utile, in vista di una maturazione vocazionale fondata, imparare a “dare un ordine” agli stessi valori: c’è infatti una priorità di valore tra l’Amore di Dio, l’amore del prossimo, il servizio alla Chiesa ecc… Nella esperienza quotidiana del credente, più o meno consapevolmente, l’uno o l’altro di questi valori può giustapporsi o prevaricare sull’altro: il discernimento che la sofferenza mette in atto ricolloca pressoché naturalmente al primo posto Dio e l’Amore di Dio.

 

La malattia “luogo di dono”

La malattia, e ogni forma di sofferenza, oltre che condurre a rinnovare la propria relazione con Dio, è anche occasione privilegiata per approfondire rapporti nuovi con i fratelli.

È noto come una solidarietà, nuova e profonda, nasce spontaneamente in una corsia d’ospedale o in altre situazioni di sofferenza.

In quanto la malattia purifica, essenzializza, mette anche in situazione di far trovare e sperimentare al cristiano nuove vie di solidarietà.

L’incontro con la sofferenza apre a nuove sensibilità, fa vibrare corde rimaste inattive nel tempo, educa al dono, alla gratuità.

Il buon samaritano è l’icona biblica inconfondibile e l’elogio della “gratuità” verso colui che soffre ed è nel bisogno.

“Si può dire che il buon samaritano dà se stesso, il suo proprio ‘io’, aprendo questo ‘io’ all’altro. Tocchiamo qui uno dei punti-chiave di tutta l’antropologia cristiana. L’uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé… Seguendo la parabola evangelica, si potrebbe dire che la sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro mondo umano, vi sia presente anche per sprigionare nell’uomo l’amore, proprio quel dono disinteressato del proprio ‘io’ in favore degli altri uomini, degli uomini sofferenti[12].

In un clima sociale e culturale che sembra sempre più invitare a ripiegarsi su se stessi, la solidarietà tra coloro che soffrono e la solidarietà dei credenti verso coloro che sono nella sofferenza è una voce nitida che annuncia la qualità dell’amore cristiano: la gratuità, il “dono di sé”, che sintetizza tutta l’antropologia cristiana, che lo stesso Giovanni Paolo II va annunciando in ogni angolo della terra.

Non può darsi vocazione cristiana senza gratuità. Gli stessi giovani si rivelano sempre più desiderosi di un modo più gratuito di rapportarsi a Dio e ai fratelli.

Tra di essi c’è l’attesa – in un mondo affannato sul respiro corto dei compromessi – di proposte forti ed esigenti, e tra queste la gratuità, con tutto ciò che essa comporta: il dono libero e trasparente di se stessi, lo spirito di servizio, l’ascolto e l’attenzione disinteressati.

L’esperienza della sofferenza e la partecipazione alla sofferenza dei fratelli è una scuola unica di educazione alla gratuità.

La maturazione vocazionale dei giovani non può cercare scorciatoie o deviare di fronte alla sofferenza, evitando di “leggere” in profondità il messaggio che emerge dalla propria esperienza personale di sofferenza o dalla partecipazione alla sofferenza altrui.

Tutte le forme di servizio, espresse oggi dal volontariato giovanile come risposta alle forme di sofferenza, costituiscono un itinerario di formazione prezioso in vista della maturazione e discernimento della propria vocazione personale.

Concludendo. La sofferenza umana, “che rimane sempre un mistero”[13], è il filone principale di quell’economia sommersa di salvezza su cui regge l’umanità e sorgente inequivocabile di grazia.

A questo livello, e solo qui, s’innesta e scaturisce lo stretto rapporto tra la sofferenza umana e il dono delle vocazioni.

La malattia è così – sia nell’esperienza personale del malato sia di coloro che partecipano alla sua sofferenza – luogo pedagogico in cui si può sperimentare la chiamata di Dio e la risposta dell’uomo.

 

 

 

Note

[1] Giovanni Paolo II, Salvifici Doloris, n. 26.

[2] Idem, n. 9.

[3] Idem, n. 10.

[4] Idem, n. 4. 

[5] Idem, n. 3. 

[6] Idem, n. 13.

[7] Idem, n. 13.

[8] Idem, n. 26.

[9] AA.VV. L’esperienza della sofferenza e della malattia, in Servire, Rivista Scout per educatori, n. 4, 1994, p. 31.

[10] Idem, p. 34.

[11] Giovanni Paolo II, Idem, n. 26.

[12] Idem, n. 28-29.

[13] Idem, n. 13.