Cristo, pietra angolare di ogni vocazione
Il breve brano di Efesini (2,19-22) della Liturgia della Parola di questa festa di San Tommaso apostolo è caratterizzato da una sequenza di immagini in successione rapidissima: la comunità dei credenti viene rappresentata nel giro di pochi versetti come città, famiglia, edificio e costruzione, tempio. Esso sembra voler dire che nessuna immagine riesce ad esprimere tutto ciò che la Chiesa è; ma anche che ciascuna immagine ha qualcosa di importante da apportare alla sua comprensione e alla sua esperienza. Perciò siamo avvertiti del valore delle relazioni personali instaurate in Cristo che superano tutte le differenze, della organicità di tali relazioni e del loro ordinamento attorno ad alcune strutture portanti, del dinamismo che attraversa la costruzione ben ordinata che è la Chiesa.
Tra il dinamismo di crescita insito nella vita della comunità e il ruolo di pietra angolare di Cristo, trova posto il fondamento degli apostoli e dei profeti. Come intendere tale fondamento? Innanzitutto esso dipende dalla pietra angolare, sulla quale si regge tutta la costruzione.
Il punto ultimo di stabilità e di equilibrio della Chiesa è Gesù Cristo, dal quale ricevono il carattere di fondamento i chiamati all’apostolato, al servizio specifico, cioè, di sostenere la fraternità e l’unità nella fede e accompagnare la crescita ordinata dell’edificio ecclesiale. È Cristo che dà stabilità e fa crescere, ma egli agisce attraverso apostoli e profeti, attraverso ministeri e servizi, attraverso mediazioni che dicono il carattere umano e storico dell’opera di salvezza senza per questo ridurre, ma, anzi, rendendo possibile il suo compiersi.
Sono in gioco una scelta divina e una necessità umana e storica. L’unico mediatore rimane sempre e solo Cristo, ma la sua salvezza si inserisce nel tessuto della vita umana avvalendosi di intermediari che non si sostituiscono, ma, piuttosto, manifestano il primato e il rapporto che, attraverso la loro mediazione apostolica, egli instaura direttamente con i credenti in lui, membri della sua Chiesa. Il compito degli apostoli rimane unico e irripetibile nella vita della Chiesa, ma il loro servizio continua nel cammino mai terminato della sua edificazione.
Raccogliamo così l’invito a riferirci sempre alla originaria testimonianza apostolica che ci giunge dalle pagine della Scrittura e dalla tradizione viva della Chiesa. Guardiamo con gratitudine e docilità a questa mediazione originaria e storica, che accompagna ancora oggi il nostro cammino credente. Accogliamo nello stesso tempo l’invito a riconoscere nell’orizzonte ecclesiale lo spazio per l’individuazione del cammino specifico di ciascuno di noi. L’incontro con la nostra personale chiamata, vocazione, nella vita e nella vita di credenti, non avviene in uno spazio disincarnato e spiritualistico come di fronte ad un Dio solamente interiore, ma si compie nell’orizzonte di fede delineato dalla vita e dalla esperienza della Chiesa. C’è una mutua implicazione tra vocazione e Chiesa per la qualità inseparabilmente divina, in Cristo risorto e nel suo Spirito, dell’una e dell’altra. Per questo motivo vocazione ed esperienza ecclesiale non si possono confondere e, tuttavia, si richiedono l’una con l’altra. Non si può scoprire alcuna specifica vocazione “apostolica” senza l’adesione cordiale piena alla comunità degli apostoli e dei profeti, alla Chiesa. Nel legame ecclesiale ogni percorso personale è attraversato dalla visita di Dio, che in modi e con intensità diversi non cessa di chiamare ad una risposta sempre più specifica ed esigente.
Anche Tommaso deve entrare appieno nella comunità ecclesiale per scoprire la propria vocazione. Ciò che il Vangelo (Gv 20,24-29) fa capire è però che a qualificare l’esperienza ecclesiale, il suo nucleo vitale e propulsivo, è l’incontro personale con Cristo risorto. Si tratta di un incontro che avviene pur sempre nella forma del segno, nella mediazione del segno. Tommaso proclama il suo Signore e il suo Dio, ma ciò che vede e tocca sono i segni umani delle ferite, delle piaghe. E quando Gesù risorto rimanda a quelli che credono pur non avendo visto, non ha cancellato i segni, ma li ha ricondotti alla loro forma più essenziale, l’ascolto dell’annuncio e della proclamazione.
Qui entrano in gioco la responsabilità dell’apostolo e quella del testimone. C’è una responsabilità di Tommaso, a cui è chiesto di ascoltare nella disponibilità e nell’accoglienza; ma c’è anche una responsabilità dell’annuncio della risurrezione di Gesù, che è tentato sempre di ridursi ad uno sbrigativo: «Abbiamo visto il Signore». Di tutta una esperienza di incontro a dir poco sconvolgente non rimane che un resoconto freddo e scarno, incapace di scaldare il cuore ad alcuno e di far percepire la potenza trasformante dell’incontro con il Risorto. Qui entrano in gioco, insieme, l’impegno a tenere viva la fiamma della propria vocazione e quello ad essere un mezzo perché Dio l’accenda anche in altri.
La vocazione rimane un mistero divino, oltre ogni tecnica pastorale ed esercizio spirituale. E, tuttavia, essa non si compie in un vuoto intimistico senza storia e senza Chiesa. Essa accade dall’alto in simultaneità e coordinazione imponderabile, ma effettiva, con la qualità della testimonianza apostolica, che continuamente rivive nella Chiesa e con la rinnovata esperienza dell’incontro personale ed ecclesiale con Cristo.
L’Eucaristia che ci accingiamo a celebrare rinnovi in ciascuno di noi e in tutti l’intensità dell’incontro con il Risorto, perché il servizio alla pastorale vocazionale in Europa conosca una stagione di rinnovato slancio per una crescita del tempio santo di Dio che è la Chiesa e per la vita del mondo.