N.03
Maggio/Giugno 2009

Dare senso e stile alla mia vita

“C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (cf At 20,35), è un’affermazione che, nell’ascoltarla, ci fa piacere, ci col­pisce positivamente, ma subito dopo la scordiamo e ritor­niamo dentro il nostro piccolo mondo. Siamo chiamati a cercare la ragione e il senso da dare al nostro vivere perché la vita trovi la sua pienezza, ma soprattutto dobbiamo saper cercare quegli elementi che possono dare “gioia” alla nostra esistenza e capacità di metterci in gioco, così da “dare noi stessi” agli altri.

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un mes­saggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristia­ni si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (GS 1).

L’ho sempre visto come un testo di sintesi fondante e importante per scoprire come muoversi e verso chi andare per realizzare il sé con uno sguardo attento agli altri, per essere comunità che si fa ca­rico dell’altro, ma anche assunzione di responsabilità personale…

Con queste premesse, vorrei soffermarmi sul senso e la scoperta del come “giocarsi” la vita, di dove spenderla, di quale stile dare ad essa e vorrei suggerire alcune linee per il futuro.

 

“Giocarsi” la vita

Alle volte il pericolo che si corre è quello dello scontato: “fare tutto come fanno tutti”. Dentro un contesto come quello d’oggi, bisogna avere il coraggio di cercare-trovare-seguire il proprio “spe­cifico”, che ci differenzia rispetto ad ogni altra persona ed è determi­nato dalla storia personale, dal carattere, dalle doti e dai carismi che ognuno possiede, così da scoprire il nostro modo di essere unici ed irripetibili. Per fare questo bisogna uscire dal “già visto” per capire quale deve essere il “mio” modo di giocarmi l’esistenza, ma anche cercare di capire cosa il Padre ha pensato per me, quale indicazione mi rivolge e come voglio mettere a frutto le mie peculiarità, le capa­cità, i doni da spendere.

È certo che per raggiungere questo obiettivo devo sapermi fer­mare, guardare dentro di me, saper leggere sotto le pieghe per sco­prire il bello per il quale vale la pena intraprendere percorsi che mi realizzano con pienezza.

Più tradizionalmente ciascuno potrebbe chiedersi: a quale voca­zione sono chiamato? Viene spontaneo pensare subito alla chiama­ta alla consacrazione, ma la vocazione parte da molto lontano: sono chiamato alla vita, in un certo contesto, a partecipare ad un’associa­zione o ad un movimento, ad avere una certa compagnia di amici, seguire un certo percorso scolastico, incontrare alcuni educatori; sono chiamato ad una scelta responsabile sul versante del mio cre­dere o non credere. Certo, ad un certo punto sono anche chiamato a scegliere se spendere la mia vita in una relazione affettiva esclu­siva, oppure se spendermi per più soggetti, anche se questa mi ri­manda al senso del mettermi a servizio per gli altri. Potremmo quasi dire che ogni istante del vivere di ciascuno è “vocazione”: dare una risposta, possibilmente concreta, al proprio essere protagonista del­la storia umana e quindi della Storia di Salvezza.

Scoprire il “come vivere” vuol dire intraprendere un cammino, fare scelte che ne escludono altre, sentirsi pienamente realizzati, anche se è sempre un divenire, così da mettere a frutto tutto quello che si possiede per servire con pienezza l’altro/a, gli altri.

È un “mettersi in gioco” in modo serio, responsabile, con l’obiet­tivo di dare “gambe” alla propria vita, con quella maturità umana e cristiana che permette a ciascuno di noi di assumere e rispondere ad ogni circostanza e in ogni momento.

 

Dove spendermi

Guardare il mondo da una “serratura” vuol dire vederlo in modo parziale e unilateralmente e questo avviene quando restringiamo i nostri orizzonti. Il mondo “ampio” rischia di restare quello per di­vertirsi, fare una vacanza, oppure per lavoro, poi si ritorna dentro il proprio guscio, tra le proprie cose e le ordinarie abitudini. Scoprire il mondo come “casa comune”, contesto nel quale spendersi, può anche far paura, ma è allo stesso tempo entusiasmante. Qualcuno può pensare che ci sia il pericolo di perdersi, invece il mondo può essere il luogo dove mi posso ritrovare, perché nell’incontro con l’altro/a, chiunque esso sia, ed in qualunque contesto, trovo una parte di me stesso, trovo bellezza, stupore, meraviglia. Il tutto è cer­tamente determinato dalla ragione per la quale mi faccio prossimo all’altro e che mi spinge a farmi compagno di viaggio di molti, di tutti.

Una dimensione determinante è quella della gratuità[1], nel senso che, se incontro l’altro/a in sé e non per “rubare” qualcosa, o solo per egoismo, allora mi lascio arricchire cercando di mettere a frutto il molto o il poco che possiedo. La gratuità è un darsi senza attende­re, è fare con continuità e non in modo occasionale, è farlo per sé, prima ancora che per l’altro. È dono.

Una forma di gratuità è il volontariato (quello vero, quello che effettivamente si mette in gioco gratuitamente) che sceglie di pren­dere contatto con contesti, realtà e persone che non fanno parte del quotidiano, ma con le quali si pensa ci possa essere uno scambio che arricchisce reciprocamente e migliora la propria e altrui vita. Può sembrare quasi banale, eppure alle volte è l’unico percorso che ci aiuta a scoprire un senso.

Alle volte ci meravigliamo di fronte a persone, anche giovani, che operano in contesti di marginalità, di povertà, oppure che operano in Paesi “scomodi” o in contesti a rischio, eppure sono sereni. In un contesto come quello di oggi, desta stupore chi fa scelte radicali, di consacrazione, viene quasi visto come uno fuori dal normale: sono forse dei pazzi, degli incoscienti, ma hanno trovato un senso, hanno risposto ad una chiamata, hanno imparato a fare una scelta di liber­tà, fuori dagli schemi precostituiti, dai luoghi comuni, con la voglia di mettersi alla prova, di dare senso, prolungato e compiuto, al pro­prio vivere. Rimane lo stupore, ma emerge anche una domanda: cosa dà loro tutta questa forza? Cos’è che si muove all’interno del cuore e che fa giungere alla determinazione che si possano seguire altri percorsi, diversi dal fare “come fanno tutti”?

 

Uno stile

Una risposta la possiamo trovare nella dimensione della carità. C’è una difficoltà però: quando sentiamo parlare di carità subito ci viene in mente l’elemosina, che può essere una forma embrionale di carità. Ma se questo termine lo traduciamo nel nostro linguaggio, viene fuori una parola “pesante”: amore[2].

La parola amore, in questi tempi, è inflazionata, così che se ne abusa e viene pronunciata a sproposito in troppe circostanze; tante volte viene usata anche con un senso che non le appartiene e con­traddicendola nel suo significato: il dono gratuito e totale si inter­preta in modo egoistico, autoreferenziale, escludente. Amare è la capacità di sentire l’altro così importante per me che sono pronto a spendere tutta la mia vita e darla fino a morire. Si capisce, allora, che amare è un evento di una straordinarietà quotidiana che porta in sé il definitivo. Due persone che si dicono “ti amo”, affermano qualco­sa di definitivo, a meno che non sia soltanto un’espressione oppor­tunistica o istintiva, priva di radici. Allo stesso modo, se io affermo di amare gli altri, i poveri, gli amici… affermo qualcosa che nulla potrà mai rompere: né il tempo, né la lontananza, neppure la morte.

Solo l’amore, se diviene uno stile, punto di partenza e di arrivo, riempie ogni spazio della mia esistenza, la fa vibrare, mi porta ac­canto all’altro, mi invita alla condivisione gratuita e piena, perché l’altro diventa parte di me ed io gli appartengo.

Amare non può mai essere banale, ma punto di partenza e di ar­rivo di ogni mio gesto, di ogni mio incontro, del mio vivere ogni cir­costanza e momento. Mi rende libero anche dai risultati, dall’esito delle mie azioni, perché so di aver dato tutto, tutto me stesso, pro­prio perché ho agito in forza dell’amore, gratuito, totale: ho amato l’altro “da morire”.

Su questo versante dovremmo un po’ tutti spogliarci della pre­sunzione di saper amare, quasi a relegare questa dimensione ad un fattore istintivo, biologico, naturale. Imparare ad amare parte dalla consapevolezza che noi amiamo perché qualcuno ci ha amati per primo (cf 1Gv 4,19), ci ha educati ad accogliere la gratuità dell’amo­re, insegnato a compiere gesti d’amore. Mi colpisce sempre l’espres­sione evangelica: «Non c’è amore più grande che dare la vita» (cf Gv 15,13), eppure è quella che mi svela proprio la necessità che un Altro mi prenda per mano e mi conduca verso questo mondo inesplorato e sempre sconosciuto dell’amore gratuito, che non ha limiti se non l’amore stesso.

 

Questa è la mia storia

Fin qui ho raccontato quello che io ho vissuto nel tempo e quello che sto vivendo ora, mi sono “autoesposto”: ho incontrato l’Altro, non ho accettato il “conformismo”, ho scoperto di essere amato al di là del limite, della fragilità, ho intrapreso il cammino del darmi agli altri, di dilatare il mio sguardo per scoprire i segni che la durez­za della vita traccia sul volto e nel cuore delle persone; ho imparato a sperare anche lì dove mi veniva detto che non ne valeva la pena, ad accogliere chi era pregiudizialmente escluso. Ho scoperto i molti volti di uomini e donne, di “poveri cristi” (espressione di Giovanni Paolo II in visita in Africa) che mi hanno insegnato il gratuito, il vivere da volontari nell’attenzione a chi, dicono loro, hanno più bisogno. Ho scoperto cosa vuol dire amare da morire. Tutto questo mi ha entusiasmato, mi permette di dire che è bello vivere la storia da protagonisti e dare il proprio contributo alla Historia Salutis. Ma anche scoprire di essere “servi inutili” (cf Lc 17,10), «perché se non è il Signore che costruisce la casa…» (cf Sal 127).

Bisogna però evitare di essere o sentirsi dei supereroi: non man­cano di certo i momenti di buio, quelli in cui la testa e il cuore sono troppo occupati per sentire il soffio di Dio, la stanchezza, alle volte il peso delle responsabilità. Credo, però, che se si è maturata una scelta di vita con pazienza, ascolto, riflessione, confronto, preghie­ra, abbandono, tutte le fatiche non mettono mai in discussione ciò che stai vivendo, perché senti che è “l’abito” che meglio ti si addice. L’amore, la vocazione, la scelta di libertà, la missione, il mondo: tut­to è dato perché tutto venga restituito, possibilmente un po’ meglio. «Bene, servo buono e fedele…» (cf Mt 25,21ss.).

Scopri il ruolo di madre e maestra che la Chiesa svolge nei tuoi confronti, della sua pazienza, del suo fidarsi di te, del suo accom­pagnarti, sorreggerti, istruirti, amarti rompendo la tua solitudine collocandoti all’interno della comunità dei discepoli. Quante volte ho detto e mi sono detto: ne vale proprio la pena!

 

Ciò che ci sta davanti

Credo che il mondo adulto debba uscire da un pregiudizio stan­tio nei confronti dei giovani, per ritrovare il coraggio della prossi­mità, affinché si alimentino la fiducia ed il coraggio, direi anche l’entusiasmo, di saper percorrere “vie altre”, “vie alte”. Sapendo che non c’è vocazione costruita in laboratorio che tenga nel tempo, né gratuità indotta o forzata che diventi dono per sé e per gli altri. Usci­re dagli schemi vuol dire prendere atto dell’azione che Dio compie: Pietro portato da Cornelio ha dovuto prendere atto che Dio aveva scelto e operato prima di lui (cf At 10,1ss.). Sapremo vedere giovani capaci di amore, nel gratuito, con lo sguardo aperto, così sapranno essere domani uomini e donne veri, liberi, capaci di conoscersi, così da sapere quali sono i limiti e le debolezze, i carismi, i doni, i talenti che hanno da spendere, comprendendo che sono stati dati non per se stessi, ma per tutti.

I giovani hanno bisogno degli adulti: hanno bisogno di modelli, maestri e testimoni che li aiutino a credere e sperare, guardare al domani con occhi carichi di gioia: «Mi vuoi bene?»… «Seguimi» (cf Gv 21,15-19).

 

Note

[1] A. Scola, Come nasce e come vive una comunità cristiana, Marcianum Press, Venezia 2007.

[2] Benedetto XVI, Deus Caritas est, 26.