N.03
Maggio/Giugno 2006

Seminatori di speranza nel cammino spirituale della comunità cristiana 

In una lettera del 1954 Giorgio La Pira scriveva: «Non ho mai voluto essere né deputato né sindaco: mi ci hanno violentemente posto in questi luoghi…io non ho nessuna vocazione sociale, non desidero riformare niente: non ho nessuna dottrina sociale o metafisica da annunciare. Se un desiderio io possiedo, è quello soltanto di stare col Signore nella pace dell’orazione e della riflessione»

Da questa pace dell’orazione e della riflessione nasce il suo insegnamento e, soprattutto, la sua testimonianza dirompente di vita come esempio di una missionarietà che, senza sottovalutare né la densità del peccato né la presenza dell’azione dello Spirito nel mondo, ha saputo ridare speranza ai suoi contemporanei e illuminare il nostro stesso cammino. 

Anche per noi, dunque, la capacità di essere testimoni credibili della speranza, capaci di evangelizzare davvero la società in cui viviamo, ci viene molto più dall’orazione e dalla riflessione che dall’acquisizione di “competenze”, di tecniche speciali e di “tattiche pastorali”, di cui il mondo, e la stessa Chiesa, oggi parrebbero affamati. In realtà, la speranza si comunica principalmente con la vita. Il cristiano è, cioè, missionario, e con lui la comunità cui appartiene, se fa esperienza profonda di incontro con il Cristo Risorto (cfr. Convegno di Verona). 

È proprio questo il percorso che faremo. 

La prima parte dell’intervento prenderà in esame la missionarietà della Chiesa che, nel tempo, si è andata articolando fino a sentire l’esigenza di puntare dritto ad una testimonianza della speranza. La sorgente di tale speranza è l’incontro con il Risorto e, soprattutto, il rimanere innestati in Lui. Come comunità è nell’Eucaristia che si trova il centro e il fulcro di tutto ciò. 

Come diceva già Paolo VI, è finito il tempo dei maestri, occorrono testimoni: testimoni della fede e della speranza. Occorre un annuncio che sia credibile, per lo stile di vita, l’accoglienza, la carità…; occorre saper discernere la presenza dello Spirito e permettergli di agire. 

Attenzione che certi “modi” tristi e affannati (le tentazioni della tristezza e degli affanni del mondo) di alcune comunità contraddicono proprio ciò che vorremmo testimoniare! Evidentemente il punto centrale sta nella formazione del cristiano. 

Entreremo così nella seconda parte dell’intervento: mentre ci affanniamo sulle cose da fare, dimentichiamo che sono le persone quelle su cui puntare. Solo cristiani adulti nella fede possono diventare testimoni credibili di speranza. In quest’ottica la direzione spirituale e la pratica del discernimento appaiono come strumenti indispensabili. 

E lo sono per tutti: laici e consacrati. Per quanto riguarda i laici occorre investire partendo dalle loro domande e cercando di aprirli alla trascendenza del Vangelo che, peraltro, è già presente nei loro cuori. 

In un contesto globalizzato, poi, anche le nostre forze necessitano di “lavorare in rete”: la collaborazione, dunque, intesa come reciprocità, va colta come “valore” e non solo come necessità dettata dalle urgenze. Il terreno comune di partenza sta proprio nell’uguale dignità delle vocazioni come chiamata di ogni battezzato alla santità, pur nella diversità della scelta di vita. 

 

Chiesa missionaria comunicatrice di speranza 

La missionarietà della Chiesa lungo la sua storia 

Parlare di missionarietà non è una novità in ambito ecclesiale: nella storia, infatti, la comunità cristiana ha conosciuto diversi modi di proporsi. 

La Chiesa primitiva non è stata da subito una “chiesa missionaria” nel modo in cui noi intendiamo questo termine: essa viveva la lode, la gioia, la fraternità, senza avere alcuna preoccupazione di espansione. La sua era una missionarietà per attrazione, che tuttavia portava molto frutto. Infatti la folla vedeva i cristiani e si aggiungeva spontaneamente ad essi, anche accorrendo dalle città vicine a Gerusalemme, come ci dicono gli Atti (5, 16). 

Pietro, nella sua prima lettera, che ci farà da guida nel prossimo Convegno di Verona, invita i cristiani ad essere evangelizzatori con la vita: «…al vedere le vostre opere buone giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio» (1Pt 2,12). Ed ancora: «se alcuni si rifiutano di credere alla Parola (possono) senza bisogno di parole essere conquistati considerando la vostra condotta» (cfr. 1Pt 3,1-2). 

Con Paolo inizia, invece, una sistematica irradiazione della Parola ai pagani: ne sono testimonianza i suoi viaggi, le molte comunità che si costituiscono, le sue lettere… 

Nei secoli successivi nasce la preoccupazione di dare stabilità a ciò che si è raggiunto attraverso, per esempio, la formazione di comunità forti e significative nelle città, il cammino di catecumenato… Si ha poi la grande fase della missionarietà della conquista: nel Medioevo interi popoli divenivano cristiani perché il loro re accoglieva la fede in Cristo. Con la scoperta del Nuovo Mondo la Chiesa varca, soprattutto ad opera dei grandi Ordini religiosi, i confini fino ad allora conosciuti, per raggiungere le Americhe e l’Asia più lontana. 

Dal 1700 in poi la stessa Chiesa di Occidente, mentre sperimenta una forte impresa di irradiazione negli altri continenti, comincia, in Europa, a vivere il tempo della perseveranza e della resistenza. Infatti è proprio in questo tempo che si fa più forte un atteggiamento critico verso la Chiesa e la fede. 

Oggi tale criticità si conferma unendosi anche ad un progressivo disinteresse per il cristianesimo in sé. Come cristiani siamo così chiamati, come ha scritto il card. Martini, ad una «missionarietà diversa che conquista attraverso la forza della sua resistenza»[1]. È una missionarietà prevista con chiarezza nel Vangelo (cfr. Mc 13, 13; Lc 21, 19. 28. 36) e davanti alla quale non abbiamo ragione di scoraggiarci ma, anzi, dobbiamo fare della nostra speranza il centro propulsore e la possibilità stessa della nostra resistenza e della nostra missione. In un tempo in cui le tentazioni più grandi per tutti, cristiani e non, sono proprio la sfiducia, lo scetticismo e la disperazione, la nostra speranza ci permette di scoprire e discernere i segni dello Spirito, che è al lavoro nella storia e nei cuori. Darne ragione è lo scopo della nostra missione. Tuttavia è necessario che questa speranza ci sia davvero nel nostro cuore, che il Vangelo ci illumini interiormente, che lo stile del Regno ci sia sempre più familiare e che tutto ciò traspaia dal nostro modo di comunicare ed agire. 

 

L’urgenza di oggi: comunicare speranza 

È dunque la realtà stessa del momento storico in cui viviamo che ci chiede sempre più di essere testimoni credibili del Vangelo della speranza. Infatti assistiamo al «tramonto di un’epoca segnata da forti conflittualità ideologiche, all’emergere di un quadro culturale e antropologico inedito, segnato da forti ambivalenze e da un’esperienza frammentata e dispersa. Nulla appare veramente stabile, solido, definitivo. Privi di radici, rischiamo di smarrire anche il futuro. Il dominante “sentimento di fluidità” è causa di disorientamento, incertezza, stanchezza e talvolta persino di smarrimento e disperazione»[2]. Nel mondo odierno, allora, in cui si può comprare e vendere di tutto, manipolare e distruggere persone e cose, persino la stessa vita e la morte, ciò che non si può acquistare né vendere, ma di cui si ha un estremo bisogno, è proprio la virtù della speranza. 

In questo contesto, già nel 2001 i Vescovi italiani mettevano in guardia dal fatto che «non è cosa facile, oggi, la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa» [3]

È importante rivitalizzare, allora, la prospettiva della missionarietà nella prospettiva di “comunicare la speranza”; la necessità, cioè, di risvegliare una coscienza missionaria e di ritrovare, non solo da parte dei singoli ambienti, ma come capacità dell’intera comunità ecclesiale, un anelito nuovo all’annuncio del Vangelo in grado di dare un senso ed uno spessore alla vita in tutte le sue fasi. 

La speranza cristiana non è il semplice ottimismo naturale, ma l’aprirsi al futuro assoluto e trascendente di Dio, riconosciuto come un suo “dono”, che quindi non può essere conquistato, ma solo accolto. 

Sperare è credere alle promesse di Dio e alla sua fedeltà, per la quale porta a compimento tutto quanto ha promesso e ha già iniziato in noi facendoci suoi figli, sua dimora, suo tempio. 

 

Le radici della speranza: il “rimanere” in Gesù 

“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (Gv 15, 1-11). 

Non possiamo fare un’esegesi esaustiva di questa pericope; tuttavia è importante sottolineare la parola chiave: “rimanere”. Ricorre infatti dieci volte ed è qualificata dalla parola “in me”. Il rimanere, riferito all’uomo, rimanda alla fedeltà, alla perseveranza, non ad un contatto sporadico e superficiale; riferito a Dio, dice il suo essere forza viva che ci muove e ci spinge. 

Questo rimanere in Gesù da parte nostra e il rimanere in noi da parte sua è la condizione per portare frutto. Non basta “essere in Gesù”. C’è uno scopo: portare frutto. Solo se è nella vite il tralcio è fecondo e porta l’uva. Solo se siamo e restiamo in Gesù possiamo portare frutti di vitalità, di gioia, di speranza. 

È questo che le persone devono poter vedere con gli occhi della fede: che in ognuno di noi, come tralcio dell’unica vite, c’è Gesù. Non necessariamente si presenterà come uno spettacolo grandioso, da lasciare a bocca aperta: è piuttosto uno stile quotidiano di scelte, di relazioni, di servizio della carità. Il portare frutto significa concretamente vivere un’esistenza che anche il mondo riconosce significativa, ricca di frutti buoni e desiderabili come la gioia, l’amore, la pace, la speranza… 

Persone come Giorgio La Pira e Giuseppe Lazzati, laici impegnati fino in fondo per gli altri, sono testimoni credibili perché hanno portato frutto dicendo con la vita che sperare è possibile, anzi indispensabile. Nonostante tutto e, paradossalmente, persino contro tutto. Del resto, la gente lo capisce immediatamente se “siamo in Gesù” oppure no. Essa non ci giudica dalle parole, dalle dichiarazioni che facciamo, ma da come ci comportiamo, dalla gioia e dalla pace che comunichiamo, dalla speranza con cui sappiamo leggere la storia e la vita, persino gli avvenimenti dolorosi. E questa speranza non è un ottimismo poco convincente perché avulso dal reale: è la speranza di chi ha incontrato il Risorto e resta unito a lui. 

Nella quotidianità la Chiesa è costituita da ogni tralcio. Come basta un tralcio per riconoscere la vite, così basta incontrare un cristiano per riconoscere la presenza della Chiesa; e per farne un’esperienza che apra alla speranza oppure no. Ciascuno dunque ha la propria responsabilità di “come” e “se” rimane davvero in Gesù. Rimanere in Gesù per portare frutto. Nonostante tutto. Ecco la condizione per vivere con speranza e poterla comunicare. Tuttavia, spesso interpretiamo tutto questo soltanto come uno sforzo personale. È, invece, innanzitutto, il Signore Gesù che rimane come forza operante attivamente in noi. E noi, come tralci autentici, siamo chiamati a permettergli di agire, attraverso momenti di ascolto della Parola, di preghiera, di accoglienza dell’Eucaristia, di adorazione, di confronto con una guida spirituale… Sottolineo in maniera particolare l’Eucaristia, alimento della vita ecclesiale e della missione in cui la comunità riconosce Cristo come Salvatore dell’uomo e del mondo[4]

 

Come trasmettere la speranza in un mondo che cambia? 

Trasmettere la speranza. È questa la questione aperta che sempre ritorna: come fare nel concreto? Quali strategie usare? Che cosa evitare? Sembrerebbe quasi la ricerca spasmodica di ricette per risolvere tutto e subito, per ritornare ad avere le Chiese piene di gente, gli oratori capaci di catalizzare i giovani, le Associazioni significative in ambito sia ecclesiale che sociale… insomma, rivivere l’esperienza di quaranta o cinquanta anni fa. 

In realtà, mentre ormai abbiamo realizzato molte e precise indagini sociali ed ecclesiali che ci hanno dato una fotografia assai precisa della situazione, non abbiamo ancora trovato una soluzione capace di farci uscire dalla stasi in cui ci troviamo. Forse non la troviamo perché – dobbiamo dircelo – la soluzione non c’è. O meglio: non c’è secondo i nostri criteri, le nostre aspettative, i nostri bisogni di sicurezza. La soluzione consiste, per ogni cristiano e per la comunità tutta, nel “rimanere in Gesù” e così diventare suoi testimoni. Detto altrimenti, per essere capaci di una missionarietà di speranza, occorre puntare sull’essenziale e cioè sulla formazione di cristiani convinti, innestati profondamente in Gesù, capaci di elaborare, con discernimento e fantasia, nuove strategie adatte al luogo in cui si trovano ed alle persone che incontrano: “vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre”(Mt 5, 16). 

Evidentemente ciò implica tempi più lunghi ed il saper sopportare la frustrazione di non raggiungere subito risultati visibili e quantificabili… riferirsi al piccolo seme del Regno che cresce, che ci se ne accorga oppure no. 

 

Alcuni criteri sostanziali per trasmettere la speranza: 

– Credere che lo Spirito agisce e saperlo vedere ed ascoltare 

Le novità nella Chiesa non si sono mai fatte a tavolino, ma sono sempre state suscitate dallo Spirito. Dunque occorre credere sul serio che lo Spirito agisce, imparando a vedere dove sta suscitando energie autentiche e significative. Lo Spirito ci vuole in ricerca, attenta e costante, per cogliere i “segni”; ci vuole contenti della nostra fede e non preoccupati dei numeri. Non ci vuole ansiosi per non saper dove andare. Vuole invece che la speranza che abita nei nostri cuori sia comunicata: se siamo contenti noi, inviteremo anche altri a condividere la nostra gioia. Come comunità cristiana, bisogna smettere di recriminare su quelli che non ci sono, sul fatto che facciamo sempre troppo poco… dovremmo iniziare a “godere” delle cose che lo Spirito ci spinge a fare ed a comunicare a tutti. A volte ci preoccupiamo per gli altri e poi non sappiamo cosa offrirgli e ci chiediamo: cosa dobbiamo fare per portare il Vangelo? In realtà, chi ha in sé una buona notizia ha voglia di comunicarla, di far partecipi gli altri. Ma se non ha questa buona notizia, non sa neppure cosa dire e cosa proporre.

 

– Essere attenti allo stile di vita personale e comunitario 

È un dato di fatto che nel nostro mondo occidentale ci sia una certa diffidenza nei confronti della Chiesa: non sempre tutto ciò che nei secoli si è accumulato su di essa ne manifesta un’immagine luminosa per l’etica evangelica. Il buon esempio assume allora un valore missionario primordiale: è evidente che la maggioranza delle persone si muoverà di nuovo verso la Chiesa quando si accorgerà che le accuse mosse da secoli verso di essa, e verso l’etica evangelica, sono false; cioè quando incontrerà degli stili di vita delle comunità e dei singoli credenti che testimoniano proprio il contrario. 

 

– Praticare la carità e l’accoglienza 

Assistiamo al rifiorire del movimento del volontariato che coinvolge ed entusiasma molti, anche oltre i canali tradizionali della parrocchia. 

Sappiamo che il linguaggio della carità oltrepassa ogni ideologia e pregiudizio, perché parla al cuore. Saper dunque usare questo linguaggio permette di superare molti confini apparentemente invalicabili. In “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo” si legge al n. 8 che «la figura adulta della testimonianza è “la fede che opera per mezzo della carità” (Gal 5,6). (…) La testimonianza è la fede che diventa “corpo” e si fa storia nella condivisione e nell’amore. Vivere responsabilmente in questo modo, fiduciosi nel Dio vivente, carichi di speranza nella novità che si è manifestata nel Risorto, disponibili all’azione creatrice dello Spirito, comporta una coscienza battesimale viva non data una volta per tutte, capace di costruire cammini e progetti di vita cristiana nuovi, affascinanti e coinvolgenti». 

Ciò comporta anche la capacità di diventare sempre più capaci di accoglienza ed ospitalità non solo verso chi chiede alla comunità dei servizi che non trova altrove, ma anche, e soprattutto, verso chi è estraneo o addirittura straniero. Si tratta di realizzare uno «spazio aperto, ma discreto in cui, nel dialogo, poter esprimere il disagio e la fatica della propria ricerca. (…) Un tale spazio non si riduce ad incontri e conversazioni. Va articolato e programmato nella forma di una rete di relazioni con persone idonee, avendo riferimento all’ambiente domestico»[5]

 

– Evitare le tentazioni della tristezza e degli affanni 

Le preoccupazioni, grandi o piccole che siano, occupano comunque tutto il cuore fino ad ossessionarci e toglierci la pace. Attenzione alle preoccupazioni che ci portano tristezza e ci spingono a puntare tutto sulle nostre forze, perdendo così, ben presto, la speranza. Gesù condanna la preoccupazione e l’affanno: «chi di voi può aggiungere un’ora sola alla sua vita? Se non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto?» (cfr. Lc 12, 25. 31). Il primato del Regno sovrasta sempre gli affanni per le cose della vita. Non si tratta, allora, di “non fare” ma di non preoccuparsi eccessivamente, anche nelle cose pastorali. Quando l’animo e lo spirito sono turbati in modo eccessivo, la preoccupazione, anche se pastorale, non è buona. Ricordiamoci che la troppa ansia, anche se per fini santi, non attira nessuno e non veicola speranza ma, piuttosto, senso di impotenza… Lo dicono i grandi maestri di spiritualità, come Ignazio di Loyola per esempio: quando un pensiero, anche se buono, produce turbamento, fiacchezza, perdita di speranza, allora viene dallo spirito cattivo. Ecco l’importanza del saper discernere, piuttosto che avere già tutte le risposte e le strategie pronte. 

Anche nell’azione pastorale dobbiamo, dunque, distinguere tra ciò che è preoccupazione inutile e ciò che, invece, è essenziale, pur essendo inquietante. Infatti, le domande vere non tolgono la pace di fondo, perché «partono dalla certezza che il Signore risorto è qui in mezzo a noi, che lo Spirito Santo c’è e sta operando prima di noi, meglio di noi e a noi non tocca né gonfiarlo, né suscitarlo. Tocca solo riconoscerlo e dargli spazio»[6]

 

 

Formazione e collaborazione: parole chiave della missionarietà 

È evidente che il percorso fin qui seguito è comprensibile, e dunque percorribile, ad almeno due condizioni: che le persone siano seriamente formate e vogliano e sappiano lavorare sinergicamente. È infatti terminato il tempo della “buona volontà” sic et simpliciter e dei liberi battitori. Oggi gli adulti formati sono uomini e donne di profonda spiritualità e solida umanità, che sanno e scelgono di lavorare insieme, unendo potenzialità ed esperienze per un unico obiettivo: seminare speranza nella comunità cristiana e nel mondo. 

A volte le “urgenze pastorali” sembrano chiedere un’operatività immediata, mettendo la formazione in secondo piano, quasi fosse un privilegio. In realtà, già Giovanni Paolo II nel 1998 scriveva: «La formazione non è un privilegio di alcuni bensì un dovere per tutti. (…) Sia offerta a tutti la possibilità della formazione. (…) Per la formazione si usino i mezzi adatti che aiutino ciascuno ad assecondare la piena vocazione umana e cristiana»[7]

Nella parola “formazione” si può inglobare di tutto. Le moderne tecnologie ci fanno spesso sentire inadeguati e bisognosi di imparare i linguaggi informatici; la globalizzazione ci spinge a studiare lingue e culture straniere; la società multietnica chiede di conoscere almeno i fondamenti delle altre religioni, come l’Islam; la catechesi chiede nuove competenze contenutistiche e pedagogiche… Si potrebbe continuare a lungo, elencando le competenze che si richiedono ad un cittadino adulto e ad un laico impegnato. 

Tuttavia, prima di tutte le competenze indispensabili per galleggiare nell’oceano del nuovo millennio, il cristiano adulto ha bisogno di fare lui, in prima persona, una profonda e personale esperienza del Cristo risorto. Infatti, mentre le competenze si possono acquisire un po’ dovunque, solo chi ha incontrato il Risorto può accompagnare gli uomini all’incontro con lui. E questo è lo scopo primario della Chiesa: «L’incontro con il Risorto è esperienza di relazione. La missionarietà della Chiesa non ha lo scopo di dire “altro” o di andare “oltre” Gesù Cristo, ma di condurre gli uomini a lui»[8]

È per questo che appare urgente che «la comunità cristiana sia attenta e coltivi cristiani adulti, consapevoli e responsabili, capaci di dedizione e fedeltà»[9]. E l’obiettivo principale di questa cura è il rapporto con il Signore Risorto; gli obblighi morali e i comportamenti ad essi coerenti sono importanti, ma sono autentici solo quando conseguono come scelta libera dall’amore del Cristo[10]

Anche il documento dei Vescovi italiani, Il volto missionario delle parrocchie, al n. 12, ribadisce la necessità della cura e della formazione del laicato: «Una formazione ampia e disinteressata, non indirizzata subito ad un incarico pastorale e/o missionario, ma alla crescita della qualità testimoniale della fede cristiana». Tuttavia, neppure una formazione che resti “autocentrata”, ma che sia piuttosto capace di servizio ecclesiale, sociale e politico, con stile evangelico. 

 

La direzione spirituale ed il discernimento nella formazione del cristiano maturo. 

Strumenti preziosi e privilegiati per questo cammino sono la direzione spirituale ed il discernimento. Un tempo parlare di direzione spirituale significava immediatamente rifarsi ad un sacerdote che guidava le anime particolarmente sensibili e pie. L’utenza sembrava essere per lo più circoscritta alle persone consacrate. Infatti sia nel Concilio sia nei documenti successivi non si trovano molti riferimenti al tema della direzione spirituale nella formazione e missione dei laici. 

In realtà la direzione spirituale è «un’azione cristo-pneumatizzata ed ecclesiale che direttamente sia orientata a promuovere la vita cristiana integrale, fino alla santità»[11] . Ogni fedele, dunque, vi è coinvolto. 

La Christifideles laici ne proclama l’utilità proprio per i laici: per vivere ad un livello spirituale l’esistenza e così progredire verso la piena maturità di credenti in Cristo[12]. E precisa che il suo scopo è, da una parte, aiutare i fedeli a scoprire la propria vocazione e missione e, dall’altra, spingerli a progredire nella coerenza e nell’unità della vita. Infatti i fedeli laici sono ad un tempo «membri della Chiesa e cittadini della società umana»[13]. È fondamentale, dunque, che vivano una profonda unità tra la fede e la vita, tra le scelte concrete e la testimonianza di fede: ogni situazione è occasione privilegiata per un esercizio della fede, della speranza e della carità[14]. La comunità che investe nell’accompagnamento spirituale e personale dei suoi membri è una comunità che affida il suo essere missionaria alla maturità della loro fede. Essi, infatti, possono raggiungere persone e luoghi in cui la parrocchia, in quanto tale, non può essere presente. Ecco, allora, che formare i laici alla fede significa che questa fede raggiunge internamente le famiglie, le scuole, le istituzioni, la cultura, la politica, i luoghi di riposo, i luoghi di aggregazione, i nuovi “areopaghi”, i centri commerciali, le palestre… cioè tutti quei luoghi dove la Chiesa, come istituzione, non riesce più ad offrire una presenza significativa, ma dove la gente, oggi, spende la maggior parte del suo tempo. I laici maturi sono testimoni di speranza là dove vivono ed operano, cioè ben oltre i confini della parrocchia. 

Un’immediata obiezione è che per fare tutto questo occorre molto tempo. E il parroco, che deve badare a tutto, non ce l’ha. Forse il parroco non dovrebbe badare a tutto…ma soprattutto potrebbe avvalersi del servizio dei consacrati e delle consacrate in questo ambito. Detto altrimenti, i consacrati e le consacrate, proprio per specifica vocazione, imparano presto la direzione spirituale: si lasciano, infatti, “guidare da Dio”; poi, per il percorso formativo che vivono, sperimentano e spesso “studiano” tutto questo. Valorizzarli e valorizzarle in questo permetterebbe una sinergia più profonda di una semplice collaborazione. 

Evidentemente per investire in tale direzione, è necessario che la comunità, con in primis i suoi pastori e i consacrati e consacrate presenti, creda che il suo tesoro è la fede dei suoi figli, al di là delle proprie iniziative; che dia spazio alla condivisione ed alla verifica; che non tema i confronti e non sia ancorata alla quantità, ma un po’ più attenta alla qualità; che si rinnovi nella fedeltà mediante l’Eucaristia. La direzione spirituale costante e progressiva porta alla capacità di discernimento, cioè all’attitudine a ricercare il bene qui ed ora in una stretta relazione tra fede e vita quotidiana. 

Un tempo si era abituati a ricevere risposte senza essersi poste domande, oppure senza aver sperimentato la fatica della ricerca. Ma oggi non è più possibile: la realtà è troppo complessa ed in continuo mutamento per potersi avvalere di risposte chiare e definite una volta per sempre. Soprattutto per chi si trova ad essere testimone del Risorto in mezzo alle realtà del lavoro, della politica, della scuola… è necessario saper esaminare la situazione distinguendone i vari aspetti, per cercare di cogliere i segni che aiutano a capire quale scelta concreta risponde meglio alla volontà di Dio qui ed ora. Detto diversamente, la direzione spirituale forma al discernimento, perché favorisce una lenta maturazione che unifica la persona a giudicare secondo lo Spirito. Ciò richiede maturità e responsabilità. Il cristiano adulto che si trova non solo a testimoniare con la propria vita, ma anche a dialogare sui grandi temi di oggi (la famiglia, la coppia, la bioetica, la guerra…) non può fermarsi all’enunciazione dei principi della vita cristiana. 

«La testimonianza cristiana è sollecitata a tener conto della maggior autonomia che l’epoca attuale attribuisce a ciascun individuo (…) con la sensazione di non saper bene dove si vuole andare e di non disporre di sicuri criteri di orientamento e di scelta»[15]. Conseguentemente deve saper affrontare una riflessione aperta, problematica, ragionando in termini umani e raccontando la propria esperienza di credente. Ciò richiede una vera maturità, umana e cristiana; richiede di non avere paura dei problemi degli altri (perché si è imparato ad affrontare e non negare i propri) e di poterne dialogare, per ricercare, alla luce dei valori evangelici vissuti, una soluzione che abbia un senso e non appaia del tutto incomprensibile. 

Tutto questo è possibile solo a patto di aver investito molto nella formazione personale mediante la direzione spirituale, il confronto e la preghiera, anche mediante l’apporto fondamentale dei consacrati e delle consacrate. Difficilmente le conferenze e le iniziative, pur molto meritevoli, ma a cui spesso partecipano sempre gli stessi, aiutano in questa direzione. 

 

Lavoro in rete: l’indispensabile collaborazione tra le diverse vocazioni. 

Rifacciamoci all’icona delle nozze di Cana .Maria, quando vede che non hanno più vino dice: “non hanno più vino”

Non si mette in mezzo. Vede, ma fa intervenire Gesù[16].

Dunque la prima “collaborazione” è con Gesù. Accettare che la salvezza viene da lui, per cui la comunità non è missionaria perché fa tutto da sola. La persona, consacrata o laica, non è missionaria perché gestisce tutto in proprio: si è missionari quando si collabora con Dio, si riconosce che la missione è la sua e, dunque, si mette la gente in contatto con lui e non con se stessi. Poi Maria si rivolge ai servi: “fate quello che vi dirà”. Non va lei a prendere l’acqua. Avrebbe fatto meglio e più in fretta e senza stimolare commenti. Invece no. Sceglie di suscitare l’attività della gente, di coinvolgere, di muovere in modo che tutti diano il loro contributo al moltiplicarsi della gioia. Il segreto, allora, di una Chiesa missionaria, con tanti che hanno solo qualche goccia di vino e stanno per finire la loro riserva, è di moltiplicare i collaboratori, di fare in modo che ciascuno si senta collaboratore, non gestore solitario, e ne coinvolga altri.Maria fa fare a ciascuno qualcosa. Anche Gesù coinvolge i 12 e poi i 72…

La Chiesa è missionaria quando sa coinvolgere le diverse vocazioni dando a ciascuno il suo compito, formando ciascuno a fare la sua parte, non quella degli altri. Spesso nella nostre comunità sono sempre quei pochi – la suora, la catechista, il capo-coro – che fanno tutto, che si addossano tutte le prerogative, il peso… l’eroismo. Ci si lamenta che gli altri non collaborano ma, in realtà, è quasi impossibile “inserirsi”. Eppure, sempre la Christifideles laici, al n. 61, dice esplicitamente che i sacerdoti e i religiosi devono aiutare i fedeli laici nella loro formazione. A loro volta, gli stessi fedeli laici possono e devono aiutare i sacerdoti e i religiosi nel loro cammino spirituale e pastorale. Il punto è sempre: come? Come collaborare mantenendo ciascuno le peculiarità della propria vocazione, ma vivendo una sincera reciprocità? 

I consacrati ed in particolare i religiosi e le religiose hanno come ruolo principale la testimonianza evangelica, il richiamo con la loro stessa vita alla radice della carità e alla destinazione escatologica dell’uomo mediante i consigli Evangelici[17]. In questo tempo, tuttavia, sembrano essere poco valorizzati. Oggi i religiosi, in particolare le religiose, sembrano essere un po’ al margine… forza lavoro gratuita, sorpassata tuttavia dal volontariato[18]. Per loro, dunque, si tratta di riappropriarsi dell’essere “segno profetico” uscendo dallo stile tradizionale di “gestione” e dall’ansia del fare, senza aver paura di aprirsi al dialogo e al confronto. In concreto, lo spendere tempo insieme, il vivere momenti di festa e di condivisione nella preghiera e nel silenzio permette una conoscenza reciproca che aiuta a superare diffidenze e giudizi, per scoprire che la vita religiosa esprime un invito ad essere umani in modo nuovo. Non si tratta di essere profeti solo per il futuro, ma di scoprire la profezia nascosta nell’oggi. 

Forse, per tutte le vocazioni, la prima sottolineatura è ri-dirci che la collaborazione non è l’urgenza principale. Essa più facilmente segue il desiderio di essere e fare comunione. La comunità cristiana non è fatta da una sola vocazione, né da persone che si scelgono o da amici che decidono di “fare qualcosa insieme”: la comunità è costituita da persone convocate dal Cristo in vari modi e con varie vocazioni, al fine di testimoniare il Cristo stesso. La comunione delle persone convocate da Cristo, dunque, è sempre e comunque primaria e come tale va perseguita. Ma la comunione, a sua volta, non è fine a se stessa: essa ha lo scopo di “portare frutto”, cioè di riuscire, mediante il discernimento comunitario, a ricercare insieme quale sia il bene qui e ora, cosa contribuisce meglio alla costruzione del Regno qui e ora. Non si tratta di aver a cuore le proprie priorità, ma di saperle, se necessario, mettere da parte per raggiungere qualcosa di diverso, che non è né mio né tuo, ma “nostro”. Ciò richiede un percorso umano serio: saper rinunciare a favore del bene comune è proprio di chi è umanamente maturo e stabilito in un attaccamento profondo al Cristo. Saper vivere i sentimenti di Cristo, espressi nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi, richiede amore a lui prima che a sé. Tutto ciò non si improvvisa: il tempo speso nella direzione spirituale ben fatta è imprescindibile. Il Parroco, in questo caso, ha il compito di valorizzare ed armonizzare, accogliere e vagliare le posizioni critiche, richiamare alla Parola e favorire la maturazione delle decisioni prese insieme. Ciò richiede tempi lunghi ed una logica diversa da quella dell’efficienza a tutti i costi… In questa prospettiva le diverse vocazioni presenti in una parrocchia sono risorse e non problemi. Tuttavia ognuna deve rivedere la sua modalità di presenza, alla luce della sua natura teologale e del contesto attuale. 

 

Oltre la collaborazione verso la sinodalità… 

Forse parlare di collaborazione tra le diverse vocazioni non è sufficiente. 

Realizzare insieme i progetti comuni è già molto, ma l’obiettivo è riuscire ad elaborare insieme i progetti e non solo realizzarli. Infatti, spesso, c’è qualcuno che “pensa e propone”, poi condivide e gli altri oppongono alcune modifiche. Alla fine tutti lavorano alla concretizzazione della proposta. 

In realtà, è giunto il tempo di pensare insieme, perché solo così ciascuno sarà di fatto corresponsabile, sentirà di essere parte di una comunità che vivrà come “sua” e dunque vi investirà per la sua crescita. Non si tratta di inventare nulla, ma solo di vivere la dignità del Battesimo che ciascuno ha ricevuto, sviluppando appieno, anche se con le modalità proprie della sua vocazione, la dignità ricevuta di essere “sacerdote, re e profeta” [19]

Laici, sacerdoti e religiosi, per provare a vivere tutto questo, devono per prima cosa cambiare la mentalità e la prospettiva con cui vivono sia la propria vocazione che il proprio servizio. Ci si deve liberare da molte sovrastrutture mentali e fisiche per tentare percorsi e relazioni significative e personali. Un’opportunità da cogliere, non una battaglia da combattere. 

 

Conclusioni 

Abbiamo parlato molto per cercare insieme il meglio nella realizzazione del Regno di Dio. Tuttavia, anche noi, a volte, ci siamo scoraggiati: nel quotidiano sembra tutto più difficile… Ancora una volta la Prima lettera di Pietro ci invita alla speranza: 

Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sionuna pietra angolare, scelta, preziosae chi crede in essa non resterà confuso.Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare,sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati. Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia (1Pt 2, 4-10). 

Ricordiamoci sempre che Gesù è la pietra viva. Per lui e in lui viviamo, esistiamo e siamo. Anche noi, tuttavia, siamo “pietre preziose”, nessuno escluso.  La nostra persona, infatti, come la nostra vita, è realtà sacra. Non solo la preghiera e la meditazione, ma il lavoro, la presenza in comunità, il gioco… tutto è per la gloria di Dio e come tale a lui gradito. Ognuno nello specifico della sua chiamata, ma con uguale dignità. Ciò ci dice che, prima di ogni sforzo, noi valiamo davanti a Dio in modo immenso e possiamo fare molto più di quanto immaginiamo.  E lo possiamo fare insieme. Quando, infatti, impariamo a collaborare in modo sinodale tra noi, credenti con vocazioni diverse ma reciproche, cresce una testimonianza di speranza che contagia…  ed apre, alla società intera, cammini di speranza.

 

Note 

[1] C.M. MARTINI, Il coraggio della speranza, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 229. 

[2] CEI, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, 1. 

[3] CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 2. 

[4] CEI, Il volto missionario delle parrocchie, Opuscolo, EDB, Bologna 2004, n. 8.

[5] Ibidem, n. 13. 

[6] C.M. MARTINI, Il brivido santo della vostra fede, Centro Ambrosiano, Elledici, Torino-Milano 2005, p. 135. 

[7] GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, 63. 

[8] CEI, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, 5. 

[9] Ibidem, 8. 

[10] cf Ibidem, 9. 

[11] R. CHECA, La pastorale della spiritualità cristiana, Città del Vaticano, 1998, p. 106. 

[12] cf GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, 58. 

[13] Ibidem, 59. 

[14] cf ivi. 

[15] CEI, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, 13. 

[16] C. M. MARTINI, La gioia del vangelo, Piemme, Casale Monferrato 1988. 

[17] CEI, Il volto missionario delle parrocchie…, 12. 

[18] T. RADCLIFFE, Cantate un canto nuovo, EDB, Bologna 2001, p. 193. 

[19] F. CARNEVALI, Ripensare i luoghi della sinodalità: costruire comunità in parrocchia, in “La parrocchia nel cambiamento”, P. Bignardi (a cura di) AVE, Roma 2003, p. 120.