N.03
Maggio/Giugno 2008

Ogni vocazione vive di missione: le motivazioni vocazionali per un autentico dono di sé.

La domanda che nasce prima o dopo nell’accompagnatore è: 

Ha la vocazione missionaria o no?
Come faccio a dirlo? Ce la farà?

 

E quella che nasce nel/nella giovane davanti a una proposta, un progetto di vita, un sogno: 

È questo? È per me? In altre parole: Lo desidero? Posso? 

 

Allora il compito dell’accompagnatore può essere riassunto in due verbi:

FAR  EMERGERE e DISCERNERE

1. Perché vorrebbe essere missionario/a?

a) Far emergere: 

– Il desiderio 

– Le motivazioni

b) Discernere:

-Desideri e motivazioni sono autentici e specifici? (occorre aver chiari i segni dell’autenticità e della specificità)

 

2. Ce la farebbe? 

a) Far emergere: 

– Come è la persona (quali punti forti, quali limiti, quale personalità…) 

b) Discernere: 

– Cosa occorre per vivere quella particolare proposta 

– Come se ne vedono i segni 

– Potrà imparare, cambiare? 

 

Una premessa 

Prima di addentrarci in queste domande, vorrei fare tre osservazioni. 

• La prima è una precisazione sulla dimensione missionaria della vocazione: cosa intendiamo per “diventare missionari”, per vocazione missionaria? 

Il termine “missionarietà” dentro la vita cristiana e poi dentro la vita consacrata può essere usato con grande plasticità. Ma certo, quando si parla di discernimento, è opportuno averne sufficientemente chiara la specificità. Diversi carismi missionari nella Chiesa possono chiedere cose diverse. Al nostro scopo, possiamo qui limitarci a concordare su alcune espressioni che certamente hanno a che fare con la dimensione missionaria nella Chiesa: l’essere inviati, l’andare, il lontano (non necessariamente fisico), il difficile, il non facilmente raggiungibile, l’incontrare, il diverso, l’estraneo, l’altro, e quindi le frontiere (non solo politiche, non solo geografiche, ma culturali, relazionali, di fede). 

• La seconda osservazione riguarda chi fa il discernimento: è il giovane, la giovane, mentre all’accompagnatore tocca aiutare a far emergere e discernere. Sono i giovani i protagonisti del discernimento che riguarda la loro vita. 

• Infine la terza osservazione: un aspetto da tenere continuamente presente nel parlare di far emergere e discernere riguarda lo spazio che diamo alla possibilità della crescita. Non dunque l’idea di una radiografia dell’esistente, ma di un cammino da intraprendere, non indefinito, non casuale, non interminabile, perché conosce tappe e scadenze e richiede decisioni e salti, ma tuttavia un cammino. Quale fiducia nel proporre percorsi di crescita e di maturazione, aiuti per la purificazione delle motivazioni miste, formazione per rafforzare le capacità esistenti e liberarne altre? 

Per lavorare insieme sui due verbi, far emergere e discernere, useremo quattro testi, che sono oggetto di questa nostra riflessione. Due sono testi biblici: il primo, le parole di Gesù ai Settantadue che invia e l’ultimo, Paolo sulla via di Damasco; e due scritti di Ignazio di Loyola, un brano dalla sua cosiddetta Autobiografia e una lettera a Francesco Borgia. 

 

Le istruzioni di Gesù ai missionari 

Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: Anche la polvere della vostra città che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino. Chi ascolta voi ascolta me… I settantadue tornarono pieni di gioia… Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti… nulla vi potrà danneggiare. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli”. E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse: Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete (Lc 10, 1-11.16a.17a.19-20.23). 

 

La presente riflessione è stata stimolata dalla richiesta di un piccolo contributo per Se vuoi[1] di gennaio 2008: rispondere a due domande di giovani proprio sulla vocazione missionaria. Le due domande, molto frequenti nella esperienza di tutti noi, erano: «Ho tanta voglia di fare qualcosa per gli altri, ma mi sento così fragile e insicura…». E la seconda, ancora più specifica: «Chi parte per la missione deve avere caratteristiche particolari?». 

La risposta partiva proprio da questo testo di Luca, invitando a guardare a come era partito chi era andato “in missione” per la prima volta e notando che quando Gesù aveva mandato i suoi a fare esperienza, non si era apparentemente preoccupato del loro carattere o delle cose che sapevano fare, richiedendo una particolare personalità adatta per la missione o un particolare titolo di studio. Però Gesù non aveva neppure detto che si poteva andare in qualunque modo: aveva preparato chi mandava facendo delle raccomandazioni piuttosto precise. Le raggruppiamo qui pensando a come potrebbero costituire desideri da far emergere e a ciò che potrebbero richiedere alla persona.

 

* La prima cosa è che si è inviati

-Io vi mando: la coscienza che è un altro che manda; 

-il padrone della messe, per la sua messe: non sono cose nostre, occorre saper seguire, obbedire; 

-inoltre, inviati avanti a sé, dove stava per recarsi: non siamo l’ultima parola, prepariamo l’arrivo di un altro; altrove è detto che invece siamo preceduti (cf Gv 4); in entrambi i casi, non c’è posto per l’autosufficienza  e l’individualismo; 

-pregate: dipendiamo; 

-perché mandi operai: dipendiamo non solo dal Padre, ma molto concretamente anche dagli altri; non siamo gli unici, c’è bisogno di altri, diversi da noi, capaci di altro. 

Quindi non si va di testa propria: la missione da fare è quella di Gesù, affidata alla sua Chiesa; non è l’hobby di qualcuno, un interesse individuale. 

 

* Il secondo aspetto è altrettanto importante: l’andare.

-Andate: occorre saper andare, partire; 

-in ogni città e luogo: andare dappertutto; si parte non per scappare, ma per andare incontro; allora occorre essere aperti e accettare di entrare in qualunque casa; 

-mangiate e bevete di quello che hanno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi: adattarsi a tutto (non è solo questione di stomaco: il mangiare insieme e il mangiare di tutto ha un senso simbolico molto profondo); in filigrana, la capacità di sacrificio, di rinuncia e rinvio della gratificazione; e poi il dappertutto interpella la libertà dai pregiudizi, l’accogliere tutti e saper lottare contro i preconcetti propri e altrui. 

Occorre, poi, saper andare insieme

-A due a due: ciò richiede capacità di collaborazione, la necessità di affrontare vari temi come: dominazione, inferiorità, competizione e gelosia, bisogno di successo o paura di esporsi, saper dare e ricevere aiuto, vicinanza e lontananza, realismo delle aspettative sugli altri… “a due a due” sfida tutto questo. 

• E cosa fare? Una missione in parole e opere. Dite e curate

– Dite: pace… dite loro: si è avvicinato a voi il regno di Dio: consegnare il messaggio comporta una vita di fede, il credere a quello che si dice, comporta aver udito e quindi una profondità di vita interiore e di ascolto; 

-curate i malati che vi si trovano: sapersi occupare delle persone concrete, con generosità, umiltà, spirito d’iniziativa. 

• Ci sono poi indicazioni per lasciare e resistere

-Non portate: affidarsi a mezzi poveri; e quindi da un lato dipendere e dall’altro distaccarsi; poter lasciare infatti è un’esperienza di fiducia: ci si fida di chi manda, penserà lui a tutto quello che serve; poter lasciare è disponibilità: bisogna essere leggeri, non portarsi dietro molte cose, per essere liberi di muoversi; 

-non salutate: la libertà, la mobilità; eppure, non passate di casa in casa, restate: stabilità, non superficialità, non fuga dalle tensioni e dal difficile, ma saper rimanere; 

-inoltre, la messe è molta, ma gli operai sono pochi: sopportare la sproporzione, le dimensioni di piccolezza e debolezza del Regno; 

-come agnelli in mezzo a lupi e camminare sopra i serpenti: resistere, stare nel difficile, nella fatica e nell’ostilità, perseverare e saper dar senso al negativo; 

-vi accoglieranno, non vi accoglieranno: due ipotesi che suonano ugualmente probabili; saper accettare la riuscita (senza attaccarsi e possedere) e il fallimento (senza perdere la stima di sé); 

-uscite, scuotiamo la polvere: rispettando la libertà degli altri, avere la libertà di ricominciare; non si tratta quindi di arrendersi, ma di andare altrove; 

-sappiate però che il regno di Dio è vicino: ma qualcosa si può dare sempre. 

• Infine, c’è l’invito ad aver coscienza della preziosità della missione

-L’operaio è degno della sua mercede, chi ascolta voi ascolta me: la missione è un lavoro serio; 

-tornarono pieni di gioia: godere di quel che si è fatto, di quel che succede, gioire nel condividerlo; 

-non rallegratevi…, rallegratevi piuttosto: verificare la propria gioia, di cosa si è contenti, le proprie aspettative (essere ascoltati, apprezzati, attesi, riuscire bene, convincere, risolvere i problemi…); 

-i vostri nomi sono scritti nei cieli, beati voi: trovare la gioia nell’essere con il Signore, più che nei risultati che si ottengono, che possono esserci o anche non esserci. 

Sono queste le cose che vorrebbe Gesù da coloro che manda. 

Non spaventiamoci: Gesù non chiama gli evidentemente idonei, anzi sappiamo bene da altri passi evangelici che molti di questi aspetti non erano affatto chiari ai suoi. Ma sembra che Gesù invii con la fiducia che quelli che manda possano imparare, cambiare, diventare più idonei alla missione; sembra essere disposto – così pare – a correre un certo rischio. 

Quello che dice, dunque, non descrive i Settantadue, ma offre priorità e caratteristiche della missione, valori che, fatti propri e desiderati, sentiti attraenti, finiscono per tracciare un cammino di maturazione, di cui all’inizio si individua la possibilità: e questa possibilità, che va compresa in un processo di discernimento, è segno della grazia che chiama e invia. 

Concretamente, ecco la domanda che nasce per il/la giovane da questo vangelo: Sono queste le cose che ti sembra di desiderare? Pensi di poterle vivere e/o di poter imparare a viverle? 

E l’accompagnatore si chiede: vedo presenti o vedo emergere segni che mi dicono che c’è un’attrazione per questa vita, segni che mi dicono che la persona può crescere in questa direzione, nelle diverse aree toccate dalla parola di Gesù (obbedienza, servizio, relazioni…)? 

È il “cosa occorre”, i contenuti per verificare la specificità del desiderio e la capacità della persona di intraprendere questo cammino. 

 

Lasciare andare la mula a briglia sciolta 

Spostiamo l’accento dal “cosa” al “come”. Se quanto detto sopra è ciò che è richiesto e si tratta di far emergere se è desiderato e se ci sono le capacità almeno iniziali di viverlo, si tratta di vedere poi come discernere in base a ciò che è emerso. Perché la risposta al “far emergere” quasi certamente non sarà un chiaro sì o un chiaro no. È questa la difficoltà di chi accompagna: che ci sono tante cose intrecciate, cose che attraggono e altre che spaventano, segni di capacità di farcela e segni di fragilità. Come discernere in presenza di desideri opposti e di aspetti contrastanti di forza e debolezza? 

Come faccio a sapere quello che Dio vuole? È la domanda centrale da parte di chi cerca e da parte di chi aiuta a cercare. 

Già questa domanda ha dei presupposti sottintesi importanti. E cioè: Dio vuole che faccia qualcosa, ha dei desideri su di me, la sua bontà è progettuale, mi chiede una disponibilità; me lo dice, mi parla, posso ascoltare, capire. La domanda suppone questa visione della vita. 

È questa la domanda di Ignazio, interrogativo di fondo del primo dei due testi che ora vedremo, espresso nel secondo proprio con queste parole. È sempre stata la sua domanda, appassionata e costante. E il “come” lo ha imparato pian piano. Seguiamo il suo cammino scegliendo due testi, una narrazione e una lettera, che documentano questo cammino di apprendimento del “come”, che anche noi vogliamo fare. 

È un momento di discernimento: Ignazio deve decidere cosa fare, comprendere e scegliere il meglio da seguire. Appare un bivio nel racconto: luogo fisico della sua scelta, ne è come il simbolo[2]

Rubiamo per noi alcuni elementi di questa esperienza che Ignazio definisce tipica di un’anima cieca, che non conosce ancora la regola e la misura della virtù, perché si esalta di grandi ideali, ma non sa ancora nulla delle cose interiori, che hanno nomi ordinari come umiltà, pazienza e carità. 

 

Lungo il cammino gli accadde un fatto che è opportuno riferire perché serve a comprendere in che modo Dio agiva con quest’anima. Con tutti i suoi grandi desideri di servire Dio in quanto riusciva a capire, essa era ancora cieca… … il desiderio di compiere cose grandi per il servizio di Dio era così vivo… si consolava tutto, solo per queste considerazioni, senza darsi pensiero delle cose interiori, senza rendersi conto di che cosa fossero l’umiltà, la carità, la pazienza, e di come discernere la regola e la misura di queste virtù. Invece suo unico obiettivo erano quelle grandi azioni esteriori, perché le avevano fatte i santi a gloria di Dio, senza porre mente ai loro aspetti più propriamente spirituali. 

Avvenne dunque che, mentre andava per la sua strada, lo raggiunse un moro che cavalcava un mulo. Si misero a conversare e il discorso cadde su nostra Signora. Il moro sosteneva che, certo, la Vergine aveva concepito senza intervento d’uomo; ma che avesse partorito restando vergine, questo non lo poteva ammettere; e a sostegno di ciò adduceva i motivi naturali che gli si presentavano alla mente. Da questa opinione il pellegrino, per quanti argomenti portasse, non riuscì a smuoverlo. Poi il moro si allontanò velocemente, tanto che lo perse di vista; ed egli rimase pensieroso, riflettendo su quanto era intervenuto con quell’uomo. E insorsero in lui impulsi che gli provocavano un senso di scontentezza sembrandogli di aver mancato al suo dovere, e lo movevano a sdegno contro il moro. Gli pareva di aver fatto male a permettere che egli facesse quelle affermazioni su nostra Signora, e di essere obbligato a difenderne l’onore. Gli veniva voglia di andarlo a cercare e di prenderlo a pugnalate per le affermazioni che aveva fatto. Restò a lungo in subbuglio, combattuto da questi impulsi, e alla fine rimase perplesso senza sapere cosa era tenuto a fare. Prima di allontanarsi il moro gli aveva detto che era diretto ad una località poco distante, lungo il suo stesso cammino, era molto vicina alla strada maestra, ma questa non l’attraversava. Stanco di riflettere cosa era meglio fare, senza vedere una soluzione sicura a cui attenersi, decise così: lasciare andare la mula a briglia sciolta fino al punto in cui le strade si dividevano. Poi, se la mula avesse imboccato la via del paese, avrebbe raggiunto il moro e lo avrebbe pugnalato; se invece avesse proseguito per la strada maestra, lo avrebbe lasciato perdere. Seguì questa idea; l’abitato era distante solo trenta o quaranta passi e la strada che vi conduceva era larga e comoda; ma nostro Signore fece sì che la mula la lasciasse da parte e scegliesse la via principale. 

(Dall’autobiografia di Ignazio di Loyola, nn.14-16) 

 

 

Subito dopo l’incontro e la discussione, Ignazio si ferma a riflettere: cosa devo fare? I fatti della vita interpellano. Il materiale del discernimento è quanto accade. Ma è difficile far chiarezza. Agitazione, sentimenti che paralizzano: la voglia di pugnalare il moro e la resistenza a farlo. Si sente a lungo in subbuglio, lacerato tra due forze opposte che sente ugualmente forti e non gli permettono di scegliere. 

Nostra Signora è la sua nuova, fresca passione, dopo i sogni nel suo letto di convalescente della donna da conquistare e dopo la visione della bellissima Madonna che lo affascina al punto che ogni tentazione di altre bellezze sbiadisce e gli dà forza per non acconsentire più alle tentazioni sensuali. Difenderla è un dovere, è una sorta di legittima difesa, e difendere l’onore di Nostra Signora coincide per lui con il pugnalare il moro. Eppure c’è evidentemente anche un no, certo non di paura, ma di percezione della novità della vita scelta, di rifiuto di violenze antiche, di intuizione di un percorso possibile verso la “regola e misura” di virtù come umiltà, pazienza e carità… 

A livello emotivo, c’è la rabbia per non aver saputo vincere la discussione, rabbia generata da un sentimento di umiliazione; il senso di colpa per non aver fatto quanto avrebbe dovuto, un’insoddisfazione di sé che vorrebbe rifarsi, una vendetta quindi non solo dell’onore di Maria, ma del suo proprio… Pugnalerebbe per Maria o anche per se stesso? 

Non gli sono chiari tutti questi sentimenti, non distingue l’influsso emotivo dalle ragioni che discute dentro di sé, e si stanca. Non vede una soluzione sicura. La paura di dover scegliere e di poter sbagliare paralizza al bivio simbolico di ogni scelta. Ma una decisione la prende. Può farci sorridere, è ancora grezza, buon metodo per la sua anima ancora cieca. Si affida apparentemente ad un concorso fortuito di circostanze. Lascia andare la mula: che scelga lei! 

Vediamo tutti i limiti di queste briglie sciolte. C’è un aspetto evidente di automatismo magico, una via per evitare la fatica della personale ricerca: stanco di cercare di capire e di farlo in un modo che risulta come un rimuginare troppo. A volte ci si stanca di cercare di conoscersi, di cercare di continuare ad applicare all’oggi, alle scelte nuove, quello che si era capito; ci si stanca di seguire e capire e far chiarezza in una particolare persona, diversa dalle altre che si sono già aiutate, o difficile, o resistente… È la scorciatoia del “se succede così vuol dire che…”, il discernimento di tante piccole cose quotidiane che non ci vedono veri protagonisti di scelte, ma lasciano che le cose capitino in un’ottica più di stanchezza che di fede. 

C’è anche l’aspetto dell’ignoranza che permane. Ignazio, che ha lasciato andare le briglie – anche se in questo modo “sceglie” per così dire di non uccidere il moro, perché lui ha scelto di lasciare la mula scegliere e lei ha proseguito – alla fine non sa ancora cosa era meglio fare e perché. In un certo senso capisce che il Signore voleva così, ma non ha potuto imparare molto dall’esperienza, non sa ancora perché è stato meglio così. 

Tuttavia intuiamo due certezze positive che sostengono quest’esperienza. 

La prima: Ignazio vuole che prevalga l’oggettività del bene, pur se confuso da varie emozioni e spinte. C’è in questo testo un linguaggio di dovere che, mentre rivela una personalità volontaristica, dice anche la persuasione di un bene oggettivo, che non può essere determinato dal livello emotivo, paralizzato tra rabbia e colpa. Ignazio vuol capire “cosa è tenuto a fare”: dunque c’è un meglio oggettivo da identificare. 

La seconda: c’è fiducia. La decisione di lasciare che la mula scelga è una provocazione che è come una preghiera. È la preghiera che dice: io non sono capace di scegliere, io non capisco, io non sono capace di individuare le mie motivazioni, di intuire più di così. Fa’ tu. Ignazio lascia fare a Dio; lascia che prenda lui le redini della vita. Dio risponde a quella provocazione: Nostro Signore fece sì che… 

Notiamo che le condizioni sono provocatorie, perché, facilitando di per sé la decisione più comoda, costringono Dio ad essere chiaro, a dire un “no” inequivocabile. La mula andrebbe naturalmente verso l’abitato per mangiare e bere. Invece prosegue. Ignazio sembra così facilitare la scelta di andar dietro all’impulso forte di vendetta. In questo modo le condizioni che mette alla sua specie di scommessa dicono una grande fiducia: mostrami tu davvero, devo essere sicuro che sei tu. È come il vello di Gedeone. 

Gedeone disse a Dio: “Se tu stai per salvare Israele per mia mano, come hai detto, ecco, io metterò un vello di lana sull’aia: se c’è rugiada soltanto sul vello e tutto il terreno resta asciutto, io saprò che tu salverai Israele per mia mano, come hai detto”. Così avvenne. La mattina dopo, Gedeone si alzò per tempo, strizzò il vello e ne spremette la rugiada: una coppa piena d’acqua. Gedeone disse a Dio: “Non adirarti contro di me; io parlerò ancora una volta. Lasciami fare la prova con il vello, solo ancora una volta: resti asciutto soltanto il vello e ci sia la rugiada su tutto il terreno”. Dio fece così quella notte: il vello soltanto restò asciutto e ci fu rugiada su tutto il terreno (Gdc 6, 36-40). 

Qui Ignazio, maestro di discernimento, è solo all’inizio del suo cammino. Non si ferma certo a questo tipo di esperienza. Regala la mula e va a piedi. Procede e cambia, perché affina le intuizioni spirituali, scopre “la regola e la misura della virtù”. Non fa della scorciatoia la norma, assume le responsabilità dello scegliere e, non solo, del capire cosa scegliere per un vero meglio. Scriverà le regole del discernimento degli spiriti, e regole diverse per chi è all’inizio del cammino e per chi è più avanti, perché diversa è la posizione della persona e diverso è il modo di parlare di Dio. 

Ascoltiamo da un altro maestro di spirito la conferma che c’è un’oggettività che aiuta a liberarsi dei propri blocchi a livello emotivo, che l’obbedienza è “terapeutica” e l’abbandono e la fiducia liberano: 

…Può darsi che, nonostante una “auscultazione” attenta, non predomini in maniera sufficientemente chiara nessun desiderio, e il soggetto resti dilaniato tra più scelte che gli sembreranno ugualmente desiderabili e valide. Può essere il segno che Dio lascia molto semplicemente la scelta all’interessato stesso. E perché no? L’importante a volte non è che l’interessato scelga la tal cosa a preferenza di talaltra, ma semplicemente che “scelga”, in tutta libertà[3].

La decisione sblocca dalla paura di sbagliare che paralizza, da un ossessivo desiderio di perfezione, da un’autonomia che non può chiedere aiuto. Ignazio aveva la profonda convinzione che “Dio si comportava con lui come fa un maestro di scuola con un bambino: gli insegnava” (Autobiografia, 27). Questa certezza dovrebbe essere liberante anche per le nostre fatiche di discernere. 

 

Come posso sapere cosa Dio vuole che io faccia? 

Molto utile per noi anche un’esperienza che Ignazio fa circa trent’anni dopo, a testimoniare il cammino fatto. Nel 1552 scrive, infatti, da Roma a P. Francesco Borgia, che si trova in Spagna: 

 

5 giugno 1552 

Possa la suprema grazia e l’eterno amore di Cristo nostro Signore favorirci e assisterci continuamente! 

In questo affare della berretta (da cardinale) penso che sarà meglio se ti do una descrizione del processo dei miei sentimenti, come se stessi esaminando la mia anima davanti a me stesso, per la maggior gloria di Dio. 

Appena sono stato informato con certezza che l’Imperatore (Carlo V) aveva fatto il tuo nome e che il papa (Giulio III) era contento di farti cardinale, ho sentito una specie di ispirazione che io avrei dovuto impedirlo per quanto potevo. 

Allo stesso tempo tuttavia, dato che non ero certo della volontà di Dio – mi venivano in mente così tante ragioni a favore e contro – ho ordinato che nella nostra casa tutti i preti celebrassero messa e i laici pregassero per tre giorni, chiedendo che io potessi essere guidato in tutte le cose a maggior gloria di Dio. Durante questo tempo di tre giorni, ci sono state volte, quando tornavo sull’argomento nella mia mente e lo discutevo, che sentivo una specie di paura e perdevo quella libertà di spirito di parlare e impedire l’affare. “Come so che cosa vuole Dio nostro Signore che io faccia?”, pensavo, e non riuscivo a sentirmi sicuro sul fatto di doverlo impedire. Ma altre volte, quando cominciavo le normali meditazioni, sentivo queste paure svanire. Continuavo a farmi questa domanda in varie occasioni, a volte sentendo paura, e a volte l’opposto. Alla fine, il terzo giorno, ho sentito durante la normale meditazione, e da quel momento costantemente, che la mia mente era abbastanza sicura e che io avevo preso la decisione – in un modo che era gentile e mi lasciava sentire piuttosto libero – di impedire la nomina per quanto potevo davanti al papa e ai cardinali. Se non avessi agito così, avrei sentito dentro di me di non rendere conto bene di me stesso davanti a Dio nostro Signore. Nonostante tutto questo ero anche convinto, e ancora lo sono, che mentre è volontà di Dio che io debba adottare una posizione chiara, se altri adottassero un modo di vedere contrario e ti fosse data questa dignità, non ci sarebbe contraddizione di sorta. Lo stesso Spirito potrebbe ispirare me a prendere un punto di vista per alcune ragioni e ispirare ad altri il contrario per altre ragioni, e allora ciò che avrebbe luogo sarebbe la nomina richiesta dall’Imperatore. Possa Dio nostro Signore realizzare in tutte le cose, in qualsiasi modo e sempre, la sua maggior lode e gloria. Penso che sarebbe appropriato per te, in risposta alla lettera che Master Polanco (segretario generale) ti scrive da parte mia, spiegare cosa tu senti in questo affare, e a quale decisione Dio nostro Signore ti ha spinto in passato e al presente. La lettera dovrebbe essere scritta in modo tale da poter essere mostrata quando necessario, lasciando tutto a Dio nostro Signore, cosicché la sua santissima volontà sia fatta in tutti i nostri affari. Arriverà una lettera separata in risposta ai punti sollevati nella tua del 13 marzo. Spero che Dio nostro Signore abbia concesso il successo alla tua iniziativa e a tutte le tue azioni, come noi abbiamo chiesto in preghiera alla divina Maestà qui in Roma, e possa questa lettera trovarti in piena salute di mente e corpo, come desidero e costantemente chiedo a Dio nostro Signore nelle mie povere e indegne preghiere, per la maggior gloria della sua divina Maestà. Nella sua infinita misericordia, possa sempre favorirci e assisterci.

tutto tuo in nostro Signore, Ignazio 

 

Arrivare a comprendere la volontà di Dio non è andare a ritirare un certificato medico già steso, una diagnosi fatta con prescrizione annessa, ma credere che Dio interpella e parla attraverso di noi, di quello che siamo. 

Anche qui Ignazio deve prendere una decisione. Quali passi fa? 

Una prima osservazione utile: Ignazio descrive il “processo dei miei sentimenti, come se stessi esaminando la mia anima davanti a me stesso”. Esamina quello che in lui si muove, usa il suo sentire per capire, il mondo del sentire, i desideri, le paure. Certo, ciò che si muove dentro non ha un significato univoco: è da interpretare, e per questo occorre tempo, lasciar sedimentare, viaggiare nell’interiorità. C’è infatti una prima reazione, a cui Ignazio non crede subito, e poi ce ne sono altre. Sta in ascolto paziente di quello che succede dentro, libero di sentire che ha paura, che non avrebbe coraggio di opporsi, che però forse sarebbe meglio… Notiamo che fa quest’indagine interiore non per assillante perfezionismo, ma “per la maggior gloria di Dio”. 

Non valuta solo i sentimenti, valuta anche le ragioni, i pro e i contro, il mondo razionale. “Mi venivano in mente così tante ragioni a favore e contro”: ragioni che non espone nella lettera, forse per non condizionare il lavoro chiesto a Borgia stesso, ma che esamina dentro di sé. 

Valuta con fiducia, non arrovellandosi con angoscia. Infatti, stabilisce che si preghi per tre giorni, fissa un tempo e di fatto ci mette tre giorni. Vuol dire: un tempo basta, poi si capisce, c’è un tempo limitato per decidere, per comprendere non tutto, forse, ma quanto basta per procedere. Perché ciò che è da fare non è al di là del mare o in alto nel cielo da doversi domandare come arrivarci, ma nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica (Dt 30,14). 

Anche Louf, che poco sopra abbiamo ascoltato, suggerisce che quello che Dio chiede è normalmente praticabile, fattibile: 

La volontà di Dio sull’uomo si concretizza nella misura di grazia messa disposizione di ognuno, perché la metta in pratica. Quando Dio chiede qualcosa, procura anche tutto ciò di cui c’è bisogno per portare a buon fin il suo disegno: la salute, la capacità, il tempo, e anche quell’impulso da parte sua che nella teologia ha ricevuto il nome di “grazia”… Questa semplice constatazione, che sconfina nell’evidenza, offre già un certo numero di criteri che permetteranno di discernere correttamente la volontà di Dio. Inutile forzare la propria salute, presumere delle proprie forze o delle proprie capacità, trasformare la propria vita in una corsa contro il tempo. Se mancano la salute, le capacità o molto semplicemente il tempo per lanciarsi in ciò che si crede sia la volontà di Dio, è probabile che l’illusione sia lì in prossimità[4]

Un altro elemento non trascurabile in questo processo è la preghiera degli altri, desiderata e richiesta. Nel cammino di ricerca vocazionale, gli altri non sono lì per giudicare e impedirti di realizzare il tuo sogno. Sono mandati apposta per aiutarti a vedere meglio. Credere che non si è soli, che una comunità accoglie e aiuta a discernere, si oppone a un’idea di vocazione così privata e individuale che diventa diritto, pretesa di realizzarla sulla base di una convinzione personale raggiunta indipendentemente dalla posizione degli altri. 

E poi la propria preghiera: speciale e ordinaria. C’è la preghiera delle esperienze forti, c’è la preghiera finalizzata al discernimento; ma è durante la “normale” preghiera che Ignazio capisce. Notiamo per prima cosa che allora c’è una preghiera normale, una meditazione ordinaria, una consuetudine regolare di frequentazione della Parola. Non dimentichiamo questo: non si capiscono le scelte di Dio, i desideri di Dio e le vie di Dio se non le si percorre, se non si ascolta e si discute, ci si familiarizza con le cose che gli piacciono, come un amico a cui non si sbaglia a fare il regalo, perché anche se non ce l’ha chiesto, ormai sappiamo i suoi gusti. 

Ignazio, inoltre, non solo si coinvolge, ma coinvolge Francesco Borgia, l’interessato, nel discernimento. Non era dovuto, e non è solo stile dialogico, ma è convinzione profonda, la sempre incrollabile chiarezza sullo scopo: trovare quello che Dio vuole, la sua gloria. Il confronto con un altro è, in un certo senso, la mula più matura. 

Da questo nasce quella interessante considerazione finale, che “se altri adottassero un modo di vedere contrario, non ci sarebbe contraddizione di sorta. Lo stesso Spirito potrebbe ispirare me a prendere un punto di vista per alcune ragioni e ispirare ad altri il contrario per altre ragioni”. 

Fatto il proprio discernimento, se Dio volesse da un altro un’altra cosa, apparentemente in contrasto, non significherebbe che il mio discernimento era sbagliato. Perché quel che chiede a me lo chiede a me, e io devo darglielo, ma la scelta finale è affar suo, lui può far quel che vuole della mia disponibilità. 

Non c’è contraddizione, dice Ignazio, perché lo scopo del discernere è lasciar libero campo a Dio di agire, non raggiungere quello che voglio. Questa libertà dal risultato, questo rispetto della conclusione anche opposta raggiunta da altri, non è solo la tolleranza che lascia pensare diversamente, oppure l’obbedienza pratica che fa quanto chiesto anche in disaccordo, ma è una grande fiducia nell’opera dello Spirito: io ora sono convinto nello Spirito che devo dire di no; ma se un altro ha raggiunto una convinzione opposta, chi mi dice che non è lo Spirito che ha parlato a lui in un altro modo? 

Sentiamo un’eco delle parole di Davide che fugge da Gerusalemme ed è maledetto da Simei: Lascialo maledire, forse è lo Spirito che gli dice di farlo… (cf 2 Sam 16,10). 

Distacco dal proprio pensiero, dalla propria scelta e dal risultato: atteggiamento essenziale anche nella promozione vocazionale, che in nessun modo è indifferenza o disimpegno personale; infatti per tre giorni Ignazio “lavora” su questo discernimento con molta serietà. Ma poi si abbandona: lo Spirito Santo faccia quel che vuole. 

 

Le tre domande di Paolo 

Lasciamo ora Ignazio e passiamo brevemente a Paolo, a partire da quanto gli è capitato sulla via di Damasco. Conversione o vocazione, sicuramente in quel momento Paolo è diventato missionario di Gesù Cristo e la sua vita ne è stata stravolta. 

L’inizio è segnato dalla domanda: Chi sei, Signore? (At 9,5; 22,8; 26,15). 

La domanda: Chi mi libererà? (Rm 7,24) è invece l’esperienza della debolezza, il non essere capace di seguire come si vorrebbe. È una domanda di molto posteriore alla chiamata e dunque dice che l’idoneità non è garantita con la chiamata e che anche molto tempo dopo si sente ancora l’inadeguatezza per la missione. 

E infine, la domanda: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? (Rm 8,35) è la certezza dell’amore, proprio per via di quest’esperienza. È una rinnovata e ripetuta conclusione di fede, indipendente dal superamento della debolezza desiderato dalla seconda domanda, anzi, costruita sul permanere di tale esperienza. 

 

Chi sei Signore? 

La prima domanda appare nel contesto della vocazione di Paolo sulla via di Damasco. Chi sei? Domanda che ne include un’altra: “Cosa devo fare?”. In Atti 22 Paolo formula chiaramente la domanda “Cosa devo fare?”; nelle altre narrazioni è Gesù che, dopo essersi rivelato con le stesse parole in tutte e tre le versioni, aggiunge cosa Paolo deve fare o che gli sarà detto cosa dovrà fare. 

“Sono Gesù, che tu perseguiti”. Forse la sentiamo accorata, questa risposta: non capisci. O forse leggermente ironica: ma non vedi che sono io? O ancora in tono di rimprovero: stai sbagliando! 

Ma, in ogni caso, osserviamo che la risposta di Gesù già chiede un cambiamento: sono Gesù che tu perseguiti, che non capisci, che non accetti, a cui sei ostile; sono il Gesù che tu non vuoi, ma che – e subito viene dimostrato dall’intensa esperienza di gioia e assoluta resa – nel profondo cerchi. Ci è utile sottolineare il fatto che Paolo aveva messo un limite dentro di sé, come una condizione di base: “tutto, ma non questo”. E invece: sono quel Gesù che tu perseguiti, proprio quello. Come era successo a Pietro, dopo la confessione di fede a Cesarea (non ti accadrà mai) e all’ultima cena (non mi laverai mai i piedi)… sono quel Gesù che accetta la passione, il Gesù inginocchiato davanti a te, che tu non vuoi. Io sono proprio quello. 

Anche ai giovani che accompagniamo occorre far fare la stessa esperienza. Non c’è assoluta continuità tra quello che loro sono e quello che viene loro proposto, tra la loro esperienza di Dio e di Chiesa e la novità vocazionale che s’impone. Anche a loro è detto: là dove non vuoi arrenderti, dove vuoi decidere tu, vuoi il Dio che hai mente tu… là, per qualche aspetto, io sono un Dio che ti scandalizza. 

Non si tratta di trovare la congregazione, la missione, l’attività apostolica più immediatamente idonea, che fa meno problemi al proprio modo di pensare e sentire. C’è un rischio da affrontare nella ricerca, una fatica vocazionale da accogliere, un dover esporre la propria persona ad una proposta mai prevista prima e vedere che cosa ne esce. Qual è il Gesù che perseguiti, il Gesù che non vuoi, la Chiesa che non vuoi? Sono io, proprio quello che non volevi e voglio proprio quello che non vorresti darmi: la decisione, forse; un “per sempre” da dire; un apostolato diverso, un fare diverso; uno stile non esattamente come si vorrebbe; condividere la vita con persone non eccezionali, non eroi, non santi d’altare. 

C’è sempre una rottura da fare: esigenza, questa, da non dimenticare e con cui insegnare a confrontarsi. 

La dinamica della chiamata dice la forza di Gesù, la sua tranquilla certezza che gli basta farsi vedere, certezza che si aggancia all’attesa profonda di Paolo. 

Gesù parla proprio da Signore, con la sicurezza che non occorre insistere per convincere Paolo. Basta dire: sono io, sono quel Dio che tu ami e vuoi servire e lo fai ora “fremente minaccia e strage”. Sono io, quel Gesù crocifisso che ti è di scandalo. Basta la sua voce, e Paolo cade a terra, come nel giardino i soldati che erano venuti ad arrestare Gesù. 

“Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!” … Appena disse “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra (Gv 18,4-6). 

Di fatto gli basta dire, farsi vedere, e già Paolo vorrebbe vivere per lui. La ricerca c’era, ma le risposte già trovate sembravano sufficienti. Quando Gesù dice “sono io” non c’è più lotta possibile: sente che ha trovato davvero, in un difficile di più che gli viene proposto. Il desiderio di Saulo era desiderio di lui, mancava solo di capirlo. 

E dunque alla fine proprio il non accettabile, il rifiutato, risulta essere risposta per un appagamento profondo. 

La scoperta della vocazione non è una conferma tranquilla di ciò che si sentiva già, ma qualcosa di nuovo, di sorprendente; un “non accettabile” c’è sempre, un “non accettabile” che richiede un’identità nuova. 

Io sono il Gesù che tu non vuoi. Paolo accetta la sfida, lasciandosi travolgere. …perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo (Fil 3,12). 

Crediamo davvero alla potenza della voce di Gesù che sa conquistare? 

Aperti gli occhi, non vedeva nulla… Vedeva solo quella luce, solo la sua immagine. Tutto il resto sparisce, per un po’ c’è solo quella luce che s’impone. Non mangia: l’esperienza è troppo forte, basta e riempie, non c’è posto per altro, per altre immagini, altre luci, altro cibo. Anche Paolo ha conosciuto un tempo di “esaltazione”. C’è una gioia personale, intima, che si gode appieno solo se si tiene dentro senza dirla, un’intimità da non disperdere, stare solo con il Gesù appena incontrato, stare con questo se stesso nuovo, prima di iniziare a spendersi e non possedersi più. Come la Madonna ad Ain Karim che va per gioia, prima che tutto veramente inizi. 

Il tempo del buio è anche tempo dell’attesa, tra la comprensione avvenuta e la missione. Noi non avremmo perso tempo; invece, l’urgenza della chiamata non coincide con la fretta del mettersi a fare. 

Buio, tempo dell’esaltazione, dell’intimità, della formazione al dopo. 

In questo buio, Anania viene chiamato per aiutarlo. Paolo entra così in una comunità che già c’è e vive: è questa la normalità. Ricordiamo il contorno di Ignazio nel suo discernimento sul cardinalato di Borgia: una comunità orante con lui. Quando tu non vedi, l’altro ti aiuta, prega per te, impone le mani… 

Fin dall’inizio è offerta a Paolo un’esperienza di Chiesa, di comunità. “Mi” perseguiti. “Lo avete fatto a me” (Mt 25,40). L’identificazione profonda di Gesù con i suoi non si può dimenticare nella ricerca vocazionale che, di nuovo, non è un fatto privato. Subito Paolo lo proclamava Figlio di Dio

Finito allora il “far emergere”, il “discernere”? No, non è tutto risolto. Ecco la seconda domanda. 

 

Chi mi libererà? 

Non basta la chiamata, il compito affidato, i segni d’idoneità frutto del discernimento iniziale. “Acconsento nel mio intimo, ma qualcosa muove guerra”. C’era un’inquietudine prima, un’inquietudine appagata dall’incontro; ma c’è anche un’inquietudine dopo, l’inquietudine impotente del permanere e del riemergere del proprio limite. 

In questo momento, nel momento della debolezza che riemerge, di vecchie dinamiche che si ripresentano, di un passato difficile che si ripropone, è importante la presenza di qualcuno che sappia rioffrire un’esperienza già fatta, richiamare una conoscenza di sé già appresa, aiutare ad interpretare il presente, e così mostrare la nuova esperienza di limite all’interno del compimento di una promessa, non come incidente di percorso. Il dono più grande di un accompagnamento, che a suo tempo abbia saputo davvero far emergere e discernere, è dare senso della debolezza. Sperimentarla anche “dopo” un cammino di discernimento iniziale ben avviato e ben concluso, da un lato ha un suo valore educativo: come dice Paolo (2 Cor 12,7-10), l’esperienza della debolezza gli serve per non essere superbo. Di fatto si erge contro la nostra pretesa di autosufficienza, di far da noi. Ma d’altro lato, ha valore di rivelazione: Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma potenza di Dio e sapienza di Dio. Ci dice come è Dio, cosa gli interessa, cosa gli piace, cosa sa fare della nostra debolezza: spazio per la sua potenza di amore misericordioso. E ci dice che non possiamo predicare il Crocifisso e cercare tutt’altro! Questo accompagnamento del dopo (ovviamente non necessariamente ad opera della stessa persona) è ancora prezioso servizio vocazionale. 

 

Chi ci separerà? 

La terza domanda nasce da qui. Neppure questo mi separerà. Paolo poteva dirlo subito, nella luce di Damasco, che nulla lo avrebbe separato dall’amore del Signore che in quel momento lo stava travolgendo. Ma dirlo come risposta alla terza domanda è altra cosa. “Chi mi separerà?” detto come terza domanda, detto cioè dopo il “Chi mi libererà?”, include con coscienza nuova la fragilità sperimentata lungo il cammino. Non si può, e forse non si deve neppure, evitare questa esperienza a coloro che guidiamo. Non è segno che qualcosa nel discernimento non ha funzionato: è la promessa della vocazione che si compie. 

 

Conclusione 

Dopo questo percorso tra le parole di quattro testi, torniamo alle due domande iniziali: perché questo giovane, questa giovane vorrebbe essere missionario/a? E ce la farebbe? 

Si è detto che, per poter rispondere, occorre far emergere ciò che il giovane desidera e perché lo desidera: il desiderio infatti può essere implicito nel suo esprimersi, non chiaro a lui stesso. E di quanto emerge man mano, discernere autenticità e specificità, cioè la libertà e l’oggettività dei suoi ideali. 

Si tratta poi di far emergere, leggendone i segni nella sua vita, com’è la sua persona e, alla luce delle indicazioni e delle esigenze di Gesù che invia, discernere la sua capacità di vivere quella particolare vocazione, considerando quanto già c’è e quanto sembra possibile maturare in un cammino di formazione, tenendo conto con realismo delle condizioni dell’offerta formativa che si può fare. 

I testi suggeriti offrono trasversalmente indicazioni ed elementi di approfondimento. L’invio dei Settantadue, secondo Luca, offre i criteri per discernere la specificità dei desideri e delle motivazioni e suggerisce le esigenze della vocazione che sfidano la maturità umana e spirituale. I due testi di Ignazio sono utili per comprendere “come” discernere (a partire da cosa, con quali disposizioni, quali aiuti, quali tempi…), tenendo conto soprattutto del fatto che la persona che discerne è in cammino e che apprende a leggere la volontà di Dio nella propria vita. Il testo degli Atti, infine, rimanda alla realtà del limite, come possibile resistenza alla comprensione della chiamata, come debolezza che si ripresenta anche all’interno di una scelta ben motivata, come occasione di grazia per crescere nell’amore. 

 

Terminiamo ripescando la conclusione della risposta data su Se Vuoi, di cui si faceva cenno all’inizio, riportando ancora qualcosa di Ignazio di Loyola, che per stabilire i criteri di ammissione alla Compagnia di Gesù, appena nata, lascia scritte queste indicazioni (citate a senso): 

Se un giovane domanda di essere ammesso alla Compagnia, gli si chieda se desidera seguire Gesù. E se dice di sì sia ammesso. Poi gli si chieda se desidera seguire Gesù più di ogni cosa. E se dice di sì sia ammesso. E poi gli si chieda se desidera seguire Gesù anche quando si tratta di Gesù sofferente, deriso, abbandonato. Se dice di sì sia ammesso. Se dice di no, gli si chieda se desidera desiderarlo. E se dice di sì sia ammesso. 

 

Ciò che è davvero desiderabile è desiderare di desiderare di più

 

Note

[1] Se Vuoi, strumento per l’orientamento vocazionale delle Suore Apostoline. 

[2] COSTA M., Commento all’Autobiografia di Ignazio di Loyola, Ed. CVX/CIS, 1991, pp. 80-89. 

[3] A. LOUF, Generati dallo Spirito, Ed. Qiqajon, 1994, p. 191. 

[4] Ibidem, p. 176.