Il donarsi di un piccolo frate
«Chi è, chi è Colui, che oggi qua ci raccoglie per celebrare nel suo nome beato una irradiazione del Vangelo di Cristo, un fenomeno inesprimibile, eppure chiaro ed evidente, quello d’una trasparenza incantevole, che ci lascia intravedere nel profilo d’un umile fraticello una figura esaltante e insieme quasi sconcertante: guarda, guarda, è San Francesco! Lo vedi? guarda come è povero, guarda com’è semplice, guarda com’è umano! (…) Lo vedi? Tu tremi? Chi hai visto? Sì, diciamolo: è una debole, popolare, ma autentica immagine di Gesù»: con queste parole Papa Paolo VI, la domenica 2 maggio del 1976, ha aperto l’omelia nella solenne beatificazione di p. Leopoldo da Castelnuovo, un semplice frate cappuccino, alto solo 1 metro e 35 centimetri, che ha passato la sua vita in una piccola cella a confessare (anche per quindici ore consecutive). Ma la notte di p. Leopoldo era popolata di vera unione con Dio: egli passava ore in preghiera davanti a Maria, la “Parona”, per affidarle le anime che confessava. «Fin da bambino mi sono consacrato alla Madonna e ho trovato in lei il più valido sostegno alla mia vocazione»1: quello che p. Leopoldo scriveva aveva le sfumature concrete di chi opera ciò che dice.
- Una vita dipinta da Dio
Adeodato Mandic nasce il 12 maggio 1866 a Castelnuovo di Cattaro, in Dalmazia, una terra allora con forte presenza di popolazione veneto-illirica. Entra nel Seminario Serafico dei Cappuccini di Udine; dopo il noviziato a Bassano del Grappa (VI), dove riceve il nome di fra Leopoldo, gli studi a Padova e al SS. Redentore (Venezia), il 20 settembre 1890 viene ordinato sacerdote per imposizione delle mani del card. Domenico Agostini, nella basilica della Madonna della Salute a Venezia. I primi anni da cappuccino li trascorre in itineranza: Venezia, Zara, Bassano, Capodistria, Thiene, Padova, Roma e Arienzo (CE) dove è internato di guerra. Dal 27 maggio 1919 alla sua morte, avvenuta il 30 luglio 1942, vivrà sempre nel convento di S. Croce a Padova. Un breve trasferimento a Fiume dura poco nel 1923: i padovani, con il vescovo Elia Dalla Costa in testa, chiedono ai Superiori cappuccini il ritorno immediato di p. Leopoldo. In tutti questi anni di ministero sacerdotale, se si volesse definirlo con una parola sola, come facevano i suoi penitenti e confratelli, egli è “il confessore”. P. Leopoldo sapeva solo “confessare”, per difetto di pronuncia era impossibile predicare per lui. In questo suo “scomparire” sta la sua grandezza, per far posto al vero Pastore delle anime. Egli manifestava così il suo impegno: «Nascondiamo tutto, anche quello che può avere apparenza di dono di Dio, affinché non se ne faccia mercato. A Dio solo l’onore e la gloria! Se fosse possibile, noi dovremmo passare sulla terra come un’ombra che non lascia traccia di sé». E quest’ombra, considerato dai suoi confratelli “troppo fragile”, da cui i Superiori mettevano in guardia a non andare a confessarsi perché troppo buono (soprattutto per chi era in formazione), attirava un sacco di gente. Ma due sono le caratteristiche della missione di questo piccolo frate, considerato “sempliciotto” da alcuni contemporanei.
- Apostolo dell’ecumenismo
Un anno e mezzo prima di morire, il 14 febbraio 1941, scrisse da Padova: «Io ho sempre l’Oriente dinanzi agli occhi». Fu l’Oriente la sua ansia apostolica e la sua sacrificante missione: il ritorno dei suoi fratelli, della sua gente, del suo popolo all’unità della Chiesa. P. Leopoldo fu ecumenico ante litteram: sognò, presagì, promosse pur senza operare, la ricomposizione nella perfetta unità della Chiesa, anche se essa è gelosamente rispettosa delle particolarità molteplici della sua composizione etnica. Fu un sacerdote che desiderò ardentemente dedicarsi alle missioni (come Santa Teresina di Lisieux) e fino alla fine attese il giorno della partenza; ma non partì mai, perché la sua salute era fragilissima. Egli aveva uno spirito ecumenico così grande da offrirsi vittima al Signore, con donazione quotidiana, perché si ricostituisse la piena unità fra la Chiesa latina e quella orientale. Visse la sua vocazione ecumenica in un modo del tutto nascosto. Piangendo confidava: «Sarò missionario qui, nell’ubbidienza e nell’esercizio del mio ministero… Ogni anima che chiede il mio ministero sarà frattanto il mio Oriente». Il suo è un atteggiamento materno, quasi a riprodurre in sé la vocazione di Maria, madre di Dio, tanto venerata dai nostri fratelli d’Oriente.
- Buon Pastore nella celletta-confessionale
Il 12 settembre 1982, Papa Giovanni Paolo II fece un breve visita alla celletta-confessionale di p. Leopoldo: chinò il capo per poter varcare l’angusta porticina, guardò l’umile ambiente, la ristrettezza del luogo. In silenzio, visibilmente commosso, il Santo Padre posò una mano sulla parete sormontante l’inginocchiatoio, appoggiò il capo sulla mano e rimase raccolto in intensa preghiera. L’anno dopo, il 16 ottobre 1983, proprio Giovanni Paolo II, durante la canonizzazione di San Leopoldo (ai margini del Sinodo dei Vescovi sulla Riconciliazione) disse: «S. Leopoldo non ha lasciato opere teologiche o letterarie, non ha affascinato con la sua cultura, non ha fondato opere sociali. Per tutti quelli che lo conobbero, egli altro non fu che un povero frate: piccolo e malaticcio. La sua grandezza è altrove: nell’immolarsi, nel donarsi, giorno dopo giorno, per tutto il tempo della sua vita sacerdotale, cioè per 52 anni, nel silenzio, nella riservatezza, nell’umiltà di una celletta-confessionale: “il buon Pastore offre la vita per le pecore”. P. Leopoldo era sempre lì, pronto e sorridente, prudente e modesto, confidente discreto e padre fedele delle anime, maestro rispettoso e consigliere spirituale comprensivo e paziente». Quante persone sono passate da lui: quanti hanno trovato conforto, luce e aiuto! Anche tanti sacerdoti ricorrevano a p. Leopoldo, per fare il pieno della bontà di Gesù buon Pastore (il mio Parroco don Israele Bozza lo ha fatto conoscere alla nostra parrocchia con entusiasmo). Ed è normale che una persona trasmette quello che vive: la sua semplicità e bontà venivano da questa vita donata. Ai giovani in crisi additava sempre la Madonna: la “Parona benedeta”, esempio di fede e abbandono. I suoi poveri, che avevano perduto Dio, l’amore o la speranza, erano tutti quelli che si accostavano al sacramento della Riconciliazione. Ma San Leopoldo sapeva accogliere i poveri perché per primo si sentiva povero e fragile: nelle lettere si definiva «questo povero me». Ma da lontano, il suo confratello p. Pio da Pietrelcina lo additava già come un santo; ai fedeli provenienti dal Nord Italia diceva: «Ma come, voi venite fino a qui quando a Padova avete una figura immensa come p. Leopoldo?». E dire che i due non si sono mai conosciuti. E un canonico della cattedrale di Padova disse che p. Leopoldo «può essere definito il martire del confessionale».
- Il dono del discernimento
Lorenzo da Fara nella biografia Un maestro di vita. P. Leopoldo Mandic2 descrive il temperamento di p. Leopoldo grazie alle innumerevoli testimonianze raccolte: «Un uomo rigoroso con se stesso, molto timido, riservato, schivo, meticoloso e ansioso, delicatissimo di coscienza fino allo scrupolo… irritabile per le cose fuori posto, a volte pigro e lento, umile, dolce ed affabile, volitivo, forte e irascibile, autorevole e deciso, esigente con se stesso e comprensivo con gli altri, capace di intensa e profonda amicizia». Lo conferma anche Fernando da Riese Pio X, nel suo Beato Leopoldo Mandic cerniera fra uomini e Dio3: «Un caratterino per nulla soffice… carattere forte, ma sapeva controllarsi». E l’autore aggiunge: «Sapeva perdonare generosamente le piccole offese che incontrava in convento, né dimostrava alcun risentimento. E questa era una virtù molto generosa, dato il suo carattere molto forte. È stato oggetto di incomprensioni e di critiche, sia perché per attendere alle confessioni talvolta non prendeva parte agli atti comuni, sia perché sembrava usare troppa larghezza con i penitenti. Eppure egli tutto tollerava pazientemente, anzi, se mai, usava maggior carità verso coloro che gli avevano dato motivo di disgusto»4. Proprio con questo bagaglio di umanità, maturata e capace di contagiare vita intorno a sé, si fanno i santi: quegli uomini e quelle donne che sanno portare frutto a partire dalla vocazione che Dio dona loro. E l’animo vero che ha trasformato p. Leopoldo è stata la continua preghiera: egli era un confessore che viveva abitualmente assorto in Dio, e di notte passava ore in preghiera. Amava la sua vocazione, continuava a ringraziare Dio di averlo chiamato (baciava devotamente il suo saio alla mattina nell’indossarlo e alla sera nel deporlo). Lo si evince da alcuni suoi scritti, ma anche da come sapeva discernere la vocazione di chi si rivolgeva a lui:
– Da Arienzo (CE), dove era internato di guerra, scrisse a Giovanni il 9 dicembre 1918: «Sento in coscienza di risponderle affermativamente: vale a dire deve seguire, con sicura coscienza, la voce di Dio che la chiama al santo istituto della Compagnia di Gesù. Colui che si degnò di decorare del suo santissimo nome questo santo istituto, quel medesimo, cioè Nostro Signore Gesù Cristo, saprà confortarla, consolarla, reggerla, sia coll’intera grazia sia col ministero dei suoi ministri. Dunque stia tranquillo, segua la voce di Dio ed appena la divina Provvidenza le aprirà la via, la segua sicuro».
– Nella sintesi del “Processo Apostolico” per la causa di beatificazione, rintracciamo la testimonianza del sig. Angelo Marzotto di Padova: «Desideravo farmi religioso, anzi insistei per ben 7 anni nel manifestargli questa mia intenzione, però p. Leopoldo mai acconsentì, taceva o al più diceva: “Altri sono i disegni di Dio su di te!”».
Oggi, lontano dai confessionali o dai momenti di dialogo profondo con qualcuno che “abita in Dio”, è difficile poter instaurare un rapporto di fiducia dove maturare una ricerca vocazionale che dia senso alla vita. Ma come ha fatto Gesù nei suoi tre anni di predicazione nella terra che lo vedeva protagonista di un amore contagioso? Come chiamava e come viveva?
- Io vi chiamo amici
- Leopoldo aveva il culto e lo stupore dell’amicizia. Scriveva: «L’uomo è naturalmente un essere che domanda la compagnia dei suoi simili, giacché nessuno è sufficiente a se stesso. La religione, poi, santifica questa nobile tendenza perché comanda di amare tutti gli uomini, ma specialmente quelli con i quali siamo legati da speciali relazioni»5. Quarantenne, appunta: «Quantunque siano passati quasi nove mesi dalla mia partenza da Bassano, pure ancora tante persone serbano tutto l’affetto per questo povero me. Io ringrazio tutti e particolarmente lei, dall’intimo del mio povero cuore, della sua amicizia. Non può immaginare quanto mi è cara. Sotto qualunque cielo io sia per trovarmi, mi ricorderò sempre di lei. Lei mi dice che con la mia partenza lasciai un vuoto costì. Di questo sono certo: di aver lasciato amici carissimi, ma io ho il conforto di sapere che, nella carità di Cristo, posso con la preghiera essere ancora causa di qualche bene ai miei cari amici»6. Sembrano parole di oggi, quelle che usiamo con gli sms nei cellulari con gli amici più cari: l’intensità di un’amicizia non è solo sostegno ma anche destino e luogo di parto per relazioni più profonde, per amori più grandi e, chissà, per vocazioni nuove che aspettano solo che un giovane uomo di Nazaret possa attrarre con la Sua amicizia più grande, quella di chi dà la vita per amore. Anche p. Leopoldo, nel nascondimento del confessionale, ha saputo donare la sua vita per amore delle anime e delle vocazioni che sapeva suscitare. A noi l’impegno di seguirne le orme e lo stile.