N.04
Luglio/Agosto 2014

Le costanti dell’accompagnamento spirituale di p. Pino Puglisi

Mario Torcivia, Ordinario di Teologia Spirituale presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania, Paler­mo.

Sono stato il collaboratore esterno del Relatore della Congre­gazione delle Cause dei Santi, il domenicano francese p. Ols, nella redazione della Positio super martyrio del Servo di Dio Giuseppe Puglisi. In poche parole, sono stato colui che ha redatto, nel 2006, la suddetta Positio, impostandola sull’odium fidei della ma­fia che ha portato all’omicidio del prete palermitano, beatificato a Palermo il 25 maggio 20131.

Proprio per il particolare compito svolto, desidero evidenziare alcune costanti di accompagnamento spirituale presenti in don Giu­seppe Puglisi, così come alcuni testi, ascoltati nella celebrazione del processo per la Causa di canonizzazione, le hanno rilevate:

  • mirare alla formazione umana e spirituale del giovane;
  • sensibilizzare il giovane nel corretto significato di “vocazione”;
  • amore gratuito, disinteressato, ricco di discrezione e di atten­zione, nell’ordinarietà delle azioni quotidiane, nei riguardi di ogni singola persona;
  • farsi carico di alcune difficoltà, sapendo anche aiutare econo­micamente chi si trovasse in momenti di bisogno;
  • fiducia in quanto riscontrato di buono nella persona accom­pagnata;
  • educazione ad una vita spirituale incarnata. Da qui l’indivi­duazione, per i giovani accompagnati, di servizi concreti nei riguardi del prossimo perché l’amore verso gli uomini fosse reale e concreto;
  • educazione al senso di giustizia;
  • primato, anche temporale, della persona che si rivolgeva a lui, per cui spesso saltavano i tempi personali;
  • mai sostituirsi alla persona, ma aspettare i tempi di Dio e la­sciare venir fuori, dal cuore del giovane, i desideri più profon­di e condurre il giovane ad operare la scelta;
  • profonda gioia quando il giovane individuava la propria vo­cazione, anche se questo avrebbe comportato la lontananza spaziale;
  • testimonianza personale di servizio e scelta dei servizi più umili durante i campi vocazionali;
  • libertà profonda nell’indirizzare ad altre guide il giovane ac­compagnato, quando compreso che altri potevano aiutarlo meglio nella ricerca vocazionale;
  • invito a guardare il positivo negli avvenimenti;
  • disponibilità massima per la celebrazione del sacramento del­la riconciliazione;
  • preferenza dei più piccoli, dal punto di vista umano e spiri­tuale.

Da queste costanti di accompagnamento spirituale credo che possiamo sicuramente affermare come il beato Giuseppe Puglisi sia stato un autentico padre spirituale nei riguardi delle tante persone incontrate. Certo, la paternità spirituale esercitata dal beato Giusep­pe Puglisi è un carisma che lo Spirito non dona a tutti i credenti e la difficoltà a trovare queste persone è reale, anche nel nostro oggi. Ma quando abbiamo la gioia di incontrare un padre e/o una madre secondo lo Spirito, allora rendiamo grazie a Dio toto corde, perché ci dà la gioia di poter fare esperienza tangibile della Sua paterni­tà. Quando poi il padre spirituale, com’è stato per don Giuseppe Puglisi, riceve il sigillo del martirio, allora possiamo senza dubbio affermare che in lui si è realizzata la piena conformazione al Cristo. Per questo del beato Giuseppe Puglisi possiamo parlare di uomo perfetto, perché ha raggiunto «la misura della statura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).

 

3P Educatore, guida, padre spirituale
Ignazio e Maria Fina Tabone, Coniugi guidati spiritualmente da p. Puglisi.

1. 3P insegnante al Liceo Vittorio Emanuele II
Abbiamo avuto la grazia di conoscere p. Puglisi, come tanti nostri coetanei, nelle aule di scuola del Liceo Classico “Vittorio Emanue­le II”, uno degli istituti di lunga tradizione di Palermo, la cui sede guarda la Cattedrale, a pochi metri di distanza, quasi con devoto rispetto, nel cuore del Cassaro. È la scuola nella quale p. Puglisi ha scelto di insegnare ininterrottamente per quindici anni, dall’anno del suo ritorno in città dalla parrocchia di Godrano all’estate della sua morte: per lui quella scuola era lo spazio prezioso e fecondo dell’incontro con alunni di ogni provenienza sociale, il vivace cro­cevia di ragazzi della buona borghesia palermitana, dei quartieri pe­riferici, della vicina provincia, credenti e non credenti. È stato il no­stro professore di Religione, per i cinque anni del Liceo, è stato per noi educatore, guida, padre spirituale. Non possiamo dire di essere stati tra i primi o tra i più vicini discepoli di 3P; possiamo dire che la nostra vita ha durevolmente incontrato la sua, fin dai primi gior­ni del nostro precoce e lungo fidanzamento, e ne è stata formata profondamente, positivamente, irreversibilmente; pur non essendo stata sempre continuativa ed assidua la nostra frequenza durante tutti gli anni successivi al quinquennio liceale, abbiamo continuato a sentirlo padre, sapevamo che era vicino, come un faro nitido, un approdo sicuro, un riposo presente in ogni possibile stagione di ven­to. Ha accompagnato tappe cruciali del nostro cammino vocaziona­le, sino al saluto – che non sapevamo fosse l’ultimo – nel giorno del suo trentatreesimo anniversario di sacerdozio, a due mesi dal suo martirio, a pochi giorni dal nostro matrimonio, al quale gli impegni di Brancaccio hanno impedito di essere presente.

1.2 Lo sguardo dell’educatore
Abbiamo sempre saputo che ci voleva bene, sapevamo di avere un posto dentro il suo cuore: un cuore paterno, gremito di anime filiali, capace di incarnare limpidamente il mistero di un Dio che accoglie ciascuno come se fosse l’unico, e che insieme sa trattenere in sé, nell’armonia dell’amore, la memoria e la cura di tante vite umane singolari. «P. Puglisi guardava te, parlava con te e ti dava la calda certezza di guardare solo te, di parlare solo con te, tu e lui soli nell’universo. Se ci incontreremo con il Signore, al termine dei nostri giorni, io credo che avremo la stessa sensazione. Nessuno di noi sarà confuso in una folla»: così ricorda Roberto Picone, docente di Latino e Greco del “Vittorio Emanuele”, educatore stimatissimo da noi ragazzi.

Ci sembra quasi che 3P – il primo sacerdote che ci ha conosciuto come coppia nei corridoi della scuola, noi, molto piccoli e forse un po’ troppo seri – ci abbia scelto per primo, prima ancora che noi ci affidassimo a lui, per accompagnarci nella comprensione di una vocazione che sbocciava quando ancora non eravamo preparati ad elaborarla.
Con profonda delicatezza, con mite, irradiante autorevolezza, dosando momenti di dialogo personale, indicazioni di agili lettu­re di taglio vocazionale adatte alla nostra età ed inviti alla parteci­pazione ad esperienze comunitarie, prima fra tutte il campo scuola estivo, egli ha allentato le nostre iniziali certezze, ancora ingenue e superficiali, dilatato il nostro sguardo. Lui, che instancabilmente ac­cendeva nei ragazzi domande cariche di senso, che apriva orizzonti vocazionali per tanti inauditi, ha usato con noi, sospesi tra nuove emozioni, paure profonde e la percezione immatura di incarnare una vocazione “speciale”, la saggezza della prudenza.
A distanza di anni, abbiamo compreso ed apprezzato con cre­scente commozione la gratuità della sua presenza: a noi, come a tantissimi nostri coetanei, p. Puglisi si offriva, si proponeva, mo­strando d’anticipo un interesse sincero per le nostre vite, una di­sponibilità limpida, inequivocabile, pienamente gratuita: come un pastore che non attende, ma ha premura di raggiungere le pecore oltre il recinto dell’ovile, che si espone, che liberamente prende in carico, quasi in affidamento, con responsabilità, discrezione, discer­nimento, riservando a ciascuna le cure più utili: «Un pastore con l’odore delle pecore», secondo le parole di Papa Francesco.
Ha rispettato, quasi intimamente benedetto i primi passi del nostro cammino di coppia, già dai primi mesi, quattordicenne l’u­na, diciassettenne l’altro di noi: il suo sguardo si distingueva dagli sguardi di compiaciuta tenerezza di tanti, di sufficiente giudizio di alcuni, di preoccupata, eppure fiduciosa vigilanza dei nostri ge­nitori: era, il suo, uno sguardo attento, benevolo: ci comunicava fiducia, da lui ci sentivamo presi sul serio, non ha mai sottovalu­tato la composta serietà, quasi sproporzionata rispetto all’età, del nostro stare insieme, sebbene egli sapesse che esperienze affettive forti e premature possono bruciare le tappe e anche le persone. Ci invitava a procedere con passo lento, individuando il primo fattore di rischio, per la nostra crescita umana, nella chiusura qua­si simbiotica, rigidamente esclusiva, delle nostre giovani vite in questo fidanzamento. Ci invitava a coltivare ampie e molteplici relazioni di amicizia, necessarie per preservare l’equilibrio della nostra relazione di coppia e la complessità della nostra matura­zione personale. Egli ci spiegava, con parole ed esempi semplici ed efficaci, che chiudendosi in sé qualunque rapporto affettivo si atrofizza, si insterilisce, si deforma, e che aprendosi ad una dimen­sione comunitaria, esso trova respiro e fecondità: come la vita, che egli paragonava, citando un’immagine utilizzata da Victor Frankl, a lui caro, ad un boomerang, che torna verso colui che lo ha lan­ciato se egli sbaglia la mira, se non centra il bersaglio: così l’uomo che si chiude in se stesso o in una sola relazione, deteriorandosi. «La forma più sicura per ottenere la gioia e la pace – disse in una relazione tenuta per un corso rivolto ad animatori vocazionali sul tema “La vocazione dell’uomo” – è quella di fare qualcosa per gli altri», nella rete di variegate relazioni umane.
La stessa prudenza l’abbiamo letta nei suoi occhi, nel silenzio del suo ascolto accorato, nella sua voce, quando gli abbiamo comu­nicato la decisione di sposarci, dopo undici anni e mezzo di fidan­zamento: una scommessa, un passo ampio quasi quanto un volo, considerando la precarietà del lavoro di uno solo di noi. Sentivamo comunque che l’attesa si era conclusa, che fosse comunque com­piuto il tempo di quel lungo fidanzamento; eravamo pronti a lan­ciarci. P. Puglisi ascoltava: nel suo sguardo, carico della Passione per Brancaccio – che noi allora non ben capivamo – abbiamo letto la preoccupazione paterna per questa scommessa e il rispetto profon­do per la nostra decisione.

1.3 3P padre nello spirito
Gli anni del liceo sono stati accompagnati dalla presenza di 3P. Era quasi naturale affidarsi a lui: ci sentivamo accolti, compresi. Guidava, ma non dirigeva: l’immagine plastica che potrebbe rap­presentare la sua direzione spirituale non direttiva potrebbe essere quella non del dito puntato, nel giudizio o nella prescrizione, ma quella della mano aperta, protesa, rassicurante. Ci sentivamo come presi per mano, avvertendo il calore, la tenerezza e la forza di quel­la sua mano grande, quasi sproporzionata rispetto alla sua statura piccola, alla sua corporatura esile, seppure energica: quella mano sembrava già la materializzazione di un messaggio di disponibilità, di solidità, di determinazione, di operosità.
Era affidabile, 3P: semplice eppure carismatico, vicino, ma mai pari, alla nostra portata, ma mai solo uno di noi. Sapevamo quanto fosse capace di condividere, ma lo avvertivamo inequivocabilmente serio, adulto. Nessun giovanilismo, nessun proselitismo, nessuna esclusività: era per noi, per tanti di noi, Padre. «La sua era una pre­senza discreta ma profonda – ha annotato Enza Maria Mortellaro, la cui adolescenza è stata trasfigurata dall’amicizia con p. Puglisi –, per nulla insistente, sincera e disinteressata». Era credibile, p. Pugli­si: testimone più che maestro, accogliente, espressivo, coinvolgente con i ragazzi e con i più fragili, e invece schivo, riservato, distante da ruoli ed ambienti di potere.
Era mite, di quella mitezza che è la tenacia dei forti, la fermezza della verità, la «forza disarmante del Vangelo», di cui hanno scritto i vescovi di Sicilia su di lui nel 1994: la sua era la pacatezza di chi non alza la voce, di chi conosce la virtù della pazienza – dote preziosa per un educatore –, di «colui al quale non appartiene – scriveva il prof. Picone – l’aggressività, la durezza, la polemica», di quel sacer­dote che seppe accogliere «per obbedienza e per amore», come egli disse, l’incarico a Godrano, poi quello a Brancaccio, già declinati da diversi confratelli diocesani.
Abbiamo apprezzato in lui il suo nascondimento, il suo animo umile, alieno da ogni forma di protagonismo, incapace di rivendica­re meriti per sé, piuttosto pronto a ridere ironicamente su tratti del suo carattere e del suo fisico, a partire dai difetti, che considerava il segno limpido del fatto che noi portiamo la presenza di Dio nella forma terrena dell’imperfezione: non, dunque, auto-commiserazio­ne, svilimento o mortificazione di sé, ma riconoscimento benevolo del proprio valore limitato eppure prezioso agli occhi di Dio, quasi «partecipazione allo sguardo del Padre, che raggiunge l’uomo nella sua debolezza come nella sua grandezza» (Padre Carlo Aquino), che ama la nostra fragilità, che ci comunica con tenerezza che «in fondo, tutto è buono alla fin fine» (K. Rahner).

1.4 Caratteristiche umano-spirituali di p. Pino
La povertà che aveva sposato ne rivelava uno spirito france­scano: indossava maglioni dai gomiti lisi, mai un cappotto; usava utilitarie plebee, abitava in una casa popolare, talmente piccola da non potervi trasportare la sua scrivania, aveva scarpe bucate anche la sera della sua morte. Era semplice perché rivolto all’es­senzialità. «Aveva una fiducia incrollabile nella Provvidenza di Dio, amava ricordare quel passo del Vangelo di Matteo che dice: «Guardate i gigli del campo e gli uccelli del cielo, non tessono e non mietono, eppure il Padre celeste si occupa di ciascuno di loro» (Mt 6,28-20), e diceva di non essere stato mai deluso da questa Parola del Vangelo, neppure una volta nella sua vita»: così annota uno dei ragazzi, nostro coetaneo di allora, Alberto Mercurio. Di­ceva: «Perché affannarsi? Lui sa di cosa abbiamo bisogno e non ce lo fa mancare… il cristiano non può essere triste, perché sa di valere di più, molto di più dell’erba che oggi c’è e domani si getta nel forno, o dei gigli dei campi così ben vestiti»: quel vangelo lo abbiamo scelto per la liturgia del nostro matrimonio, quell’esem­pio di sobrietà libera e lieta è stata bussola e richiamo per le scelte quotidiane della nostra vita matrimoniale.
In ogni ora, in ogni stagione, in ogni giornata dell’anno lo si trovava laborioso, operoso, instancabile; non conosceva ferie, non cercava riposo. Trascorreva le sue estati immerso nei campiscuola, assumendosi, anno dopo anno, la responsabilità piena, dinanzi ai ragazzi, dinanzi alle famiglie, dinanzi a Dio, di un intero gruppo di adolescenti, in luoghi lontani dalla città, residenze spartane o addirittura campeggi, con il solo ausilio, tenerissimo, discreto, sag­gio, di Agostina Aiello, assistente sociale missionaria, collaboratrice preziosa di p. Puglisi per più di vent’anni, a lui simile per fibra spi­rituale cristallina. Egli partecipava ad ogni attività di autogestione del campo, valorizzando il contributo di tutti, dal coordinamento capillare ma non accentratore delle attività liturgiche alla spesa, alla raccolta delle riserve di acqua, al trasporto dei carichi pesanti nelle escursioni in montagna. Da lui abbiamo imparato che il lavoro è serio se accompagnato da sudore, se compiuto senza riserve, senza risparmio alcuno di energie personali, se rivolto al bene, se onesto e solidale.
P. Puglisi era presente: la sua direzione spirituale non era “isti­tuzionalizzata”: il come non era l’appuntamento, ma l’incontro; il dove non era la sacrestia o il confessionale, ma diventavano luogo di incontro pastorale il corridoio di scuola o la strada o, ancor più, un cono d’ombra tra gli alberi; il quando non era una collezione di momenti isolati, ritagliati, rigidi. Conoscevamo tutti il poster appeso nella sede del CDV: un orologio con le lancette staccate ed una scrit­ta: «Per Cristo a tempo pieno». Sapevamo che c’era, in qualunque momento, e sapevamo che era tutto, intero, uno, presente, forte di un centro di convergenza interiore – il suo cuore – che il dialogo con Dio trasformava in centro di irradiazione della sua energia spiri­tuale. L’accompagnamento spirituale di cui abbiamo beneficiato ha avuto la ricchezza dell’intero ventaglio delle esperienze che abbia­mo condiviso con lui: senza fratture, senza soluzioni di continuità, nella coerenza dei messaggi di fondo.
Era, al di sopra di tutto, sacerdote innamorato del Vangelo e della vita, in amicizia, coltivata con cura quotidiana attraverso la preghiera, con Gesù. Diceva di aver conosciuto veramente Cristo negli anni del Seminario, di essere passato dall’”Ascoltaci, Signo­re” al dialogo con Lui. «Me lo sentivo proprio vicino, accanto – raccontava – come uno qualsiasi, un altro dei compagni, ma di quelli più amici (…) ogni momento della mia giornata lo riferivo a Lui. Questo rapporto personale è continuato. Poi è subentrato un altro fattore: “Quello che hai fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo hai fatto a me”. Ecco che Gesù Cristo mi è presente anche negli altri. Divenuto sacerdote, ho capito e sentito l’esigenza dell’appro­fondimento». Nel corso dei trentatré anni di sacerdozio, l’appro­fondimento è divenuto servizio, il servizio si è compiuto nel dono della vita “per i propri amici”.

1.5 Intenzionalità vocazionale in tutto
A Gesù, alla sua umanità perfetta e viva, p. Puglisi dedicava uno dei campiscuola, progettati tematicamente secondo un definito percorso vocazionale: “Chi sono io?”, “Che senso ha la mia vita?”, “Gesù uomo come noi” alcune delle tematiche in crescendo. «Di Gesù – racconta Alberto Mercurio, uno dei ragazzi che partecipa­rono a quei campi – presentava i sentimenti, l’interesse per ogni uomo, in particolare per i più deboli, i bambini, i peccatori; raccon­tava il suo sguardo, che raggiunge l’uomo nel profondo, lo conosce, lo interpella, lo promuove». Ce lo presentava così, raccontando con naturalezza, con voce pacata che diventava sommessa, riportando versetti ed episodi del Vangelo con la precisione disinvolta di chi frequenta con costanza la Parola, ne fa il banco di prova che ispira e che giudica la propria esistenza, il luogo abituale e fedele del dialogo con Dio.
Diceva: «Questo è l’uomo: immagine di Dio. Ma per essere im­magine di Dio, egli dovrà essere trasparenza di Dio e quindi dovrà accoglierlo dentro di sé. Dovrà diventare tanto unito a Lui da fon­dersi con Lui, secondo l’espressione di San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo. Cristo vive in me” (Gal 2,20)». Lui era trasparenza di Dio. Nulla per sé: qui stava la sua leggerezza: non un leader, ma un tramite, un ponte, un testimone. Non riem­piva la scena, ma ha dilatato, per quanti lo hanno conosciuto, il significato ed il valore dell’esistenza.
Tutta la sua azione pastorale era impregnata di intenzionalità vocazionale, a partire dalle lezioni a scuola. p. Puglisi ci conosce­ va bene: sapeva che il dramma degli adolescenti è l’angoscia del sentirsi solo un accidente, un soffio insignificante nella grandiosa storia del mondo. Sapeva che i ragazzi si muovono tra la fragilità e l’onnipotenza, che il loro tempo è quasi per istinto, un po’ per paura un po’ per rabbia, l’ora o il mai. Nelle sue riflessioni e nei dibattiti che animava in classe, ci invitava a confrontarci con altri tempi, accendendo domande più che elargire dottrine: con il tem­po dell’origine, e con il mistero di Colui che è oltre il tempo e che trasfigura l’ora e subito nell’oggi della Provvidenza. Senza ombra di intolleranza nei confronti dei ragazzi indifferenti, miscredenti, riunendoci in cerchio, apriva orizzonti di senso: sapeva che Dio può essere riconosciuto come la risposta solo se si impara a formu­lare domande, riusciva ad interpellare bisogni e timori profondi di noi ragazzi.
Capivamo che potevamo contare sulla sua guida per compiere una “seconda navigazione” nella nostra fragilissima vita di adole­scenti, sballottata tra guizzi di onnipotenza ed incomunicabili pau­re, per varcare la soglia di una rivoluzionaria, rassicurante scoperta: poterci riconoscere giustificati d’esistere, voluti, conosciuti, incredi­bilmente amati, scelti per un progetto singolare, irripetibile, perso­nale ma niente affatto solitario, profondamente buono, nel quale soltanto avremmo potuto realizzare la nostra libertà, il nostro bene. Egli ci invitava a leggere la complessità della nostra natura, a co­gliere nella nostra sensibilità, nelle nostre attitudini, nelle nostre potenzialità e anche nelle nostre carenze le linee di una chiama­ta “primaria”, quella a riconoscere la vita, che sentivamo pulsare scomposta nel nostro travaglio di adolescenti, come un valore ine­stimabile, un mistero da decifrare con stupore, una possibilità a cui dare forma e direzione.
Rispettando, profondamente rispettando le nostre differenze che ci aiutava a cogliere come risorsa, restituendoci la misura dei no­stri “drammi”, dei nostri sbalzi, senza minimizzare, ci suggeriva che nessuno perviene al riconoscimento di sé se vive in solitudine, che si giunge alla maturità personale frequentando il dialogo: e ci mo­strava, attraverso la sua stessa prassi didattica e la sua disponibilità personale, che il dialogo ha la sua condizione non tanto nella forza delle proprie posizioni, ma nell’attenzione, nello sforzo di compren­dere le ragioni dell’altro, nell’ascolto, impegnando in esso le corde complementari dell’intelligenza e del cuore. Ed era credibile, p. Pu­glisi, per i suoi studenti e per i tanti ragazzi del liceo che partecipa­vano al ritiro annuale da lui organizzato nella suggestiva cornice di Baida, poco distante da Palermo: lo era perché egli era maestro di quest’arte dell’ascolto che si fa accoglienza, empatia, presa in carico della verità e della fragilità dell’altro.
Per quanti lo hanno seguito oltre le lezioni, partecipando a uno o più campi estivi, egli era animatore vocazionale, ma non talent scout delle vocazioni: non sponsorizzava facili intuizioni vocazionali: sapeva bene, 3P, che la coerenza di un cammino non si misura in linearità, precocità, speditezza, ma in discernimento, dubbio, ricer­ca, lentezza, persino coraggio di ricominciare, ammettendo di aver sbagliato sentiero. Per questo, non forzava i tempi, sapeva rispetta­re i percorsi tortuosi, le contraddizioni, l’andamento dialettico del cuore: incoraggiava chi temeva di mettersi in gioco nel discerni­mento di sé, accompagnava i passi di chi si incamminava, rallentava chi intraprendeva con impavida sicurezza la sua corsa. Per tutti, un messaggio: «Non chiederti cosa puoi prendere dalla vita, ma cosa puoi dare alla vita»: prevenendo ogni tendenza al protagonismo, a trattenere la vita presso di sé per farla brillare, ci indicava la pro­spettiva ben più piena e gioiosa del decentramento da sé, dell’acco­glienza dell’altro, della collaborazione e del servizio.

1.6 3P e Dio Padre
Per tutto questo ha segnato la nostra vita, e, crediamo, altre cen­tinaia di vite, ci ha accostato a Dio Padre, operando in noi la più profonda delle conversioni, quella dell’immagine stessa di Dio, che egli ci abituava a chiamare “Abbà”, Papà: un Dio che ama per pri­mo, da sempre di amore gratuito, che non seleziona e non giudica, che accoglie e perdona, che rispetta ed attende, che rialza e solle­va prima del nostro stesso pentimento: il Dio del creato, più che del tempio, che si manifesta nel silenzioso splendore di un’alba sui monti – contemplata da tutti i ragazzi che partecipavano ai campi – al canto delle Lodi, che si rivela nella bellezza maestosa di un bosco nel quale egli piantava per i suoi ragazzi il suo altare, promuovendo un blocco di roccia o aprendo un modesto tavolino.

1.7 Profonda gratitudine
A distanza di tanti anni, l’affetto per 3P si è trasformato in gra­titudine commossa, in tenerezza della memoria, nella coscienza di custodire come grazia il privilegio di averlo conosciuto, nella re­sponsabilità di porgerne il ricordo ed il valore, nel desiderio cre­scente di incontrarlo attraverso il dialogo del cuore che si innalza sino alla preghiera. Con la consapevolezza di essere semplicemente in cammino: «Dobbiamo seguire la nostra vocazione – diceva p. Puglisi durante un camposcuola – il nostro progetto d’amore, ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea. Già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di aver accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato co­struito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio».

 

La conoscenza di P. Puglisi e il suo aiuto spirituale nel cammino di sequela del Signore
Maria Aurelia Macaluso
, già docente di Morale presso la Scuola di Servizio sociale di Palermo, Palermo.

Iniziando questa comunicazione desidero premettere il mio gra­zie al Signore per la vita sacerdotale di p. Puglisi e, insieme, la mia riconoscenza a questo sacerdote per quanto mi ha trasmesso e per il modo in cui l’ha fatto.
1. La conoscenza di p. Puglisi e il suo aiuto spirituale nel cammino di sequela del Signore
La mia testimonianza si riferisce a un ventennio circa: dai primi anni ‘70 alla morte di p. Puglisi.
1.1 Inizialmente si è trattato di una conoscenza indiretta, trami­te, cioè, alcune mie consorelle che lo coadiuvavano in parrocchia nella conduzione dei “cenacoli biblici”, presso le famiglie, organiz­zati dai membri dell’Istituto Secolare “Missionarie del Vangelo”.
Da loro appresi della centralità della Parola di Dio nella vita di p. Puglisi, della povertà come suo stile di vita, del suo costante adope­rarsi alla ricostruzione di rapporti lacerati da guerre fraterne, della sua piena disponibilità verso tutti, della cura nel coltivare rapporti fraterni e incontri di preghiera anche con persone appartenenti a comunità cristiane non cattoliche.
1.2 Qualche anno dopo – lo conobbi di persona a motivo del mio servizio di A.S. nel territorio cittadino di Palermo.
Conobbi in tale esperienza, p. Puglisi come:
– sacerdote interessato alla realtà sociale, alle condizioni di povertà e di esclusione delle persone, non per principi ideologici, forti in quegli anni, ma perché motivato dal Vangelo. Per lui davvero ogni uomo era il fratello per il quale Cristo è morto, ogni volto era icona del Volto di Cristo. Le condizioni di vita non umane di tante fami­glie, la miseria, il degrado, la mancanza di istruzione, il pericolo di una facile ascesa da uno stato di “marginalità” ad uno stato di “leadership violenta” di tanti ragazzi e giovani, le ingiustizie struttu­rate in sistemi di oppressione e umiliazione di alcuni verso altri, lo preoccupavano molto e, pertanto, egli si adoperava vivamente per cooperare, in sinergia con altri, allo sviluppo sociale del territorio e alla promozione umana integrale di ogni persona.
Da tutto il modo di essere e di agire di p. Puglisi si poteva evince­re che desiderava unicamente il bene, la difesa della dignità di ogni persona, in particolare dei più poveri e dei deboli, una convivenza sociale umanizzante e solidale, che non cercava il suo prestigio, né voleva abbassare quello altrui.
– Sacerdote “educatore pastorale” sollecito ad accompagnare pro­cessi di sequela del Signore nel concreto della storia, del territorio, secondo la logica dell’Incarnazione. Invitava ad essere, con umiltà e sincerità, testimoni dell’Amore del Signore nel servizio; testimoni di speranza perché credenti nella pasqua del Signore.
1.3 Agli inizi degli anni 80 la mia relazione con p. Puglisi diven­ne “più profonda e interiore” perché gli chiesi, dopo un tempo di preghiera e di ricerca, di aiutarmi, nel cammino di sequela del Si­gnore, da confessore e guida spirituale.
P. Puglisi mi ha accompagnata spiritualmente, in modo costante, per un decennio, fino agli inizi del suo nuovo impegno nella par­rocchia di Brancaccio.
Per quel tempo di grazia ci vorrà l’eternità, per ringraziare il Si­gnore della cura che Egli ha avuto di me attraverso la mediazione di questo sacerdote.
1.4 Ho scelto p. Puglisi come confessore e guida spirituale per­ché, collaborando da vicino, ho avuto modo di scoprire in lui, non solo una particolare sintonia carismatica, il dono cioè di cooperare alla promozione della giustizia nella carità, con un servizio specifico, ma anche una persona umanamente matura e solida, capace di ascolto empa­tico, un profondo conoscitore dell’animo umano, un uomo di fede, di preghiera, di comunione, un sacerdote del Signore gioiosamente innamorato del suo ministero, esperto nel discernimento, umile, povero, amante della Scrittura, della Chiesa, della libertà dei figli di Dio.

2. Note sull’accompagnamento spirituale ricevuto da p. Puglisi
2.1 Accompagnamento spirituale attuato con stile rela­zionale empatico
Di tale stile desidero evidenziare, soprattutto, alcune note quali­ficanti: lo sguardo, l’ascolto, la relazione.
a) sguardo benevolo, comprensivo, sereno, mite, volto a far sen­tire all’“altro” di essere accolto e amato, nel Signore, per quello che poteva e doveva essere in Lui;
b) ascolto profondo, ove silenzi e domande portavano a tenere ac­cesa la speranza, a riconoscere le radici di certe proprie “sofferenze”, a far crescere la persona in libertà interiore e autonomia, aprendole, con umile discrezione, nuovi orizzonti.
In merito all’ascolto p. Puglisi diceva: «Saper ascoltare il fratello significa andare oltre le parole per entrare nel mondo interiore dell’altro e apprezzare le cose dal suo punto di vista, entrare nel cuore dell’uomo. Al fratello bisogna dare e chiedere quanto è necessario per aiutarlo. La capacità di accogliere e comprendere i fragili e i delicati frammenti interiori che un individuo trasmette incoraggia ad esplorare il suo mondo e a trasformare la sua paura in libertà, la disperazione in speranza, la solitudine in condi­visione».
c) relazione che p. Puglisi instaurava, significativa nella fede ed espressa con umanità: con atteggiamenti di accoglienza, di non giu­dizio, di comprensione; con piena disponibilità interiore e di tempo, (ciascuno aveva la sensazione di essere ascoltato con interesse, in­telligenza, serietà, pazienza, benevolenza, senza fretta; di ricevere seria attenzione da una persona dimentica di sé, non curante del tempo impiegato).

Il sentirsi accolti e compresi in profondità creava spazi di libertà nella comunicazione e anche nella vita. Questo non significava ne­cessariamente trovare condivisione e/o approvazione, ma il sentirsi capiti e il ricevere qualche interrogativo, attinente al tema trattato, dava la possibilità di “intendere”, a propria volta, verso dove andare e come fare.
La relazione mirava ad aiutare a saper discernere le mozioni dello Spi­rito per rispondere al Signore con crescente retta intenzionalità e libertà, a confermare nel bene, a oggettivare il vissuto, contestualiz­zandolo, personalizzandolo; a illuminare gli eventi e la realtà con il Vangelo, a valorizzare doni e attitudini, perché tali doni – gratuita­mente ricevuti – fossero “gratuitamente” messi al servizio del bene, in dimensione comunitaria, ecclesiale. P. Puglisi era un cultore dei “talenti” altrui perché tutto potesse essere messo a servizio del bene di tutti e “niente venisse sciupato”.
Diceva p. Puglisi: «Ciascuno di noi è come una tessera di un grande mosaico, dobbiamo capire quale è il nostro posto e aiutare gli altri a capire quale è il proprio, perché si formi l’unico volto del Cristo. Pensiamo al Gesù raffigurato nel Duomo di Monreale».
Nella relazione era possibile cogliere l’animo pastorale-sacerdotale sperimentando che si era in due assieme in ascolto della Parola, entrambi con lo sguardo rivolto all’unico Maestro e Signore. L’o­biettivo di p. Puglisi era, infatti, quello di favorire la relazione di comunione sempre più profonda e limpida della persona con il Si­gnore, senza legare, in qualche modo, l’altro a sé. La “mediazione sacerdotale” era, davvero, e non solo nel sacramento della riconci­liazione, “sacramento” per l’incontro pasquale con Cristo Signore.
In lui ho visto e sperimentato la bellezza e la serietà della media­zione ecclesiale nel vivere la propria fede.

2.2 Indicazioni costanti offerte da p. Puglisi nell’accompa­gnamento spirituale
Fede in Dio che è Padre e Madre e ci ama con tenerezza e che per i suoi figli vuole tutto il bene e la felicità. P. Puglisi con tale indicazione mirava a purificare e a rettificare l’immagine che si poteva avere di Dio e a far crescere in una conoscenza più pro­fonda dell’amore del Padre, rivelatoci da Gesù. Esortava a rendere presente, nelle proprie relazioni, nel proprio contesto di vita, la tenerezza del Signore ponendo particolare attenzione ai più po­veri ed esclusi. Per p. Puglisi l’invito ad amare con tenerezza era un appello alla “qualità” della relazione che si instaurava con gli altri. Esortava, infatti, ad una relazione nel Signore che mobilitasse e coinvolgesse la persona nella totalità del suo essere: intelligenza, volontà, sentimenti, fede.
Primato e centralità della Parola di Dio: letta e ascoltata; conosciuta e amata; pregata e contemplata; vissuta e annunciata. P. Puglisi esortava a sostare sulla contemplazione degli atteggiamenti e dei sentimen­ti del Signore; a rimanere nella Parola che ci aveva fatto ardere il cuore, a contemplarla, a entrare in dialogo personale, non affretta­to, con il Signore chiedendogli luce per comprendere il dono che l’incontro con Lui ci offriva, ad aprirci con disponibilità nel lasciarci modellare dalla Parola per incarnarla nel quotidiano, secondo la propria specifica vocazione, ad annunciarla e testimoniarla, con parole ed opere, da discepoli. Testimonianza, diceva p. Puglisi, che, spesso, va incontro a difficoltà, testimonianza che diventa martirio… Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo cha dà va­lore alla testimonianza.
– Carità e giustizia in una consapevole responsabilità sociale. Carità che apre cammini di giustizia e giustizia che raggiunge la sua pienezza solo nell’amore. «Gesù, diceva p. Puglisi, vive nella Volontà del Padre, ricercando la giustizia e richiamando gli ingiusti a conversione: passando dall’egoismo all’amore. In Gesù, la giustizia si identifica con l’amore». Vi­vere la carità è nutrire amore disinteressato verso gli altri, assume­re con fortezza le nostre responsabilità sociali nei confronti della storia, promuovendo la giustizia. Quella “giustizia superiore” che è contrassegnata dall’amore colmo di tenerezza del Padre verso tutti. Amore che non si arrende dinanzi al male, a qualsiasi costo, anche pagando di persona, ma che è benevolo e misericordioso verso chi sbaglia.
P. Puglisi aiutava in tal modo a distinguere il peccato dal pecca­tore e a coltivare atteggiamenti differenti verso l’uno e verso l’altro.
– Libertà interiore, da chiedere umilmente nella preghiera e da coltivare puntando sempre, con sincerità, lo sguardo e il cuore alla relazione con il Signore, senza cercare per sé, né la rilevanza né il nascondimento, ma unicamente il Regno di Dio e la sua giustizia. Il Signore, che ci vuole “amici” e “non servi”, ama chi dona e compie il bene con amore nella libertà e gratuità.
Pertanto, diceva, è opportuno informare, con semplicità e umiltà, del bene che si compie perché permette di far conoscere “le buone opere” ad altri, affinché costoro, riconoscendo in esse l’operare di Dio, possano rendere gloria al Padre ed essere incoraggiati a compiere, a loro volta, il bene” (cf Mt 5,14-16; 6,1-4).
– Vivere la vita consacrata pienamente nel concreto degli eventi quoti­diani. Per circa cinque mesi sono stata in famiglia per assistere mia madre nella fase terminale della sua malattia. P. Puglisi, in quella circostanza, mi ha accompagnata a seguire il Signore vivendo quel tempo di esodo pasquale in comunione con Lui, nella fede e con speranza.
Mi ha aiutata a vedere nel “limite “ nuove opportunità”: assume­re, cioè, gli eventi faticosi e dolorosi come “luogo” ove incontrare il Signore, incarnare il suo amore, vivere la sequela e la missione. Mi esortava a vivere come “povertà” il non poter gestire il mio tempo. Mi invitava a fare con consapevole responsabilità i miei programmi e, nello stesso tempo, ad accogliere, con libertà interiore, le situa­zioni che poi mi impedivano di attuarli.
Mi invitava ad assumere l’imprevisto, l’urgente, il necessario, come adesione e “obbedienza” a Dio e a viverlo con amore.
Mi ricordava di accogliere l’amore colmo di tenerezza di Dio e di esprimerlo, con il dono della “verginità sponsale”, nella relazione con gli altri, a iniziare da coloro che erano a me più vicini.
Mi suggeriva di unire al servizio offerto per sostenere mia madre nella sua sofferenza, l’offerta del servizio vissuta in comunione con Cristo per la santificazione dei sacerdoti e per la vita del mondo. I consigli proposti da p. Puglisi erano sempre volti a favorire la cre­scita secondo una spiritualità incarnata e pasquale, sacerdotale ed ecclesiale.

3. Conobbi p. Puglisi pure come animatore e propulsore della pastorale vocazionale
In tale ambito, di lui mi hanno sempre colpito:
– la sua visione conciliare di Chiesa tutta ministeriale e comunio­nale, in ascolto e dialogo con la storia, ove ogni credente, in base ai doni gratuitamente ricevuti, ha una missione da assumere respon­sabilmente e da compiere per il bene di tutti;
– l’atteggiamento di grande rispetto, attenzione, comprensione, valorizzazione di ogni persona da lui incontrata, che accompagnava ad aprirsi a Cristo in una relazione semplice e vera, volta a scoprire il senso vocazionale della propria esistenza.

Al riguardo, p. Puglisi diceva:
– ai giovani: «Ognuno di noi sente dentro di sé una inclinazione, un carisma. Un progetto che rende ogni uomo unico e irripetibile. Questa chia­mata, questa vocazione è il segno dello Spirito Santo in noi. Solo ascoltare questa voce può dare senso alla nostra vita».
– agli operatori pastorali: «Abbiamo bisogno di persone che siano con­sapevoli che la vita ha un senso perché è una vocazione; persone consapevoli di essere cioè chiamate da Dio nelle comunità in cui vivono per rendere ciascuna un servizio singolare, unico, irripetibile, indispensabile, comple­mentare a quello degli altri per dare vita a vere comunità che vivano la comunione nella varietà dei carismi e dei ministeri, dei talenti e dei servizi. Persone che si mettano a servizio delle vocazioni… ponendosi accanto a cia­scuno per un cammino graduale di discernimento, persone che, a tal fine, diano indicazioni, alla luce della Parola di Dio letta in situazione, perché ciascuno capisca quale è la sua vocazione e quale è il servizio che deve ren­dere» (ai partecipanti al II Convegno delle Chiese di Sicilia, “Una presenza per servire”, 1989).
Desidero concludere con due piccole testimonianze che ho avu­to la grazia di ricevere dalla mamma di p. Puglisi e da mia madre.
Un giorno io mi trovavo in ospedale al capezzale della madre di p. Puglisi, molto ammalata. Lei, parlandomi della sua famiglia, mi disse che avendo avuto quattro figli maschi aveva chiesto al Signore che ne chiamasse almeno uno al sacerdozio. E aggiungeva: «Chie­devo questo dono, a condizione però che diventasse un sacerdote santo e povero. Questo – aggiungeva la signora – continuo a chiederlo ancora per mio figlio». Io ho aggiunto: «P. Puglisi è così e fa molto bene a tanti». Lei mi guardò sorridente, ringraziò il Signore e poi disse: «Ma bisogna continuare a pregare perché lo sia sempre».
Mia madre, dimessa dall’ospedale, ospite un giorno nella mia comunità, mi espresse il desiderio di confessarsi prima di tornare a casa sua. In quel giorno c’era in comunità p. Puglisi che accettò su­bito la richiesta. Dopo la confessione mia madre mi disse: «Grazie, perché mi hai fatto conoscere un sacerdote santo». Mia madre ebbe la grazia di essere accompagnata, fino alla morte da p. Puglisi, il quale, per diversi mesi, percorse varie volte più di cento chilome­tri, anche con la neve, per andarla a trovare, confessare, consolare, accompagnare alla Casa del Padre. Mia madre si è congedata da noi avvolta dall’amore del Padre, fatto visibile nel ministero sacerdotale e paterno di p. Puglisi.
Davvero p. Puglisi è stato un sacerdote santo e povero, secondo la preghiera di sua madre, un sacerdote martire nel dono della sua vita anche per i suoi uccisori, da fedele discepolo di Cristo “Maestro” e Signore.

NOTE
1 Cf M. Torcivia, Il martirio di don Giuseppe Puglisi. Una riflessione teologica, Editrice Monti, Saronno 2009.