N.02
Marzo/Aprile 2024

La luce del Volto

Considerazioni sull’iconografia

In questi ultimi decenni del post Concilio, l’arte bizantina dell’icona è stata recuperata, talvolta, come unica espressione artistica per il nostro tempo: copertine di libri, santini, immagini realizzate per le chiese, mosaici e vetrate, riproducono antiche e venerate immagini ancor oggi ritenute capaci di veicolare un messaggio e consentire la contemplazione di un mistero che nel tempo, in Cristo, si è reso visibile e si è potuto toccare con le mani, ascoltare, vedere (cf. 1Gv 1, 1-4). Non v’è dubbio che il desiderio degli uomini in ogni momento della storia sia quello di “vedere Dio” per curiosità, per ricerca, per fede o perché no per mancanza di fede, alla ricerca di una conferma: «Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce» (Mt 27, 40a).

D’altra parte santa Teresa d’Avila insegnava come, per la preghiera, si debba sempre partire dall’umanità di Gesù: «Per Teresa, infatti, la vita cristiana è relazione personale con Gesù, che culmina nell’unione con Lui per grazia, per amore e per imitazione. Da ciò l’importanza che ella attribuisce alla meditazione della Passione e all’Eucaristia, come presenza di Cristo, nella Chiesa, per la vita di ogni credente e come cuore della liturgia»[1].

Allo stesso modo sant’Ignazio di Loyola insegna che la meditazione richiede, come suo inizio, quella che egli chiama la composizione di luogo per cui: «Nella meditazione o contemplazione di una cosa visibile, per esempio il Cristo, la composizione consisterà nel vedere con la vista dell’immaginazione il luogo corporeo dove succede quello che si contempla»[2].

Non è facile sapere se l’uso dell’icona nella nostra esperienza occidentale corrisponda al suo significato più profondo liturgico, per cui nella chiesa l’icona non è mai un quadro appeso al muro, se pur bello e per la contemplazione personale, – per cui l’icona ha un suo spazio nella casa, consentendo di rivolgersi all’Oriente e lì, orientandosi a Cristo, pregare –.

Il tema è da sempre considerato fondamentale, profondamente teologico, tanto da aver richiesto la convocazione, nel 787, di un Concilio Ecumenico. Il papa Adriano I ai partecipanti al Concilio spiegava, per lettera, che «per il tramite di un volto visibile, il nostro spirito sarà trasportato per attrazione spirituale verso la maestà invisibile della divinità attraverso la contemplazione dell’immagine, in cui è rappresentata la carne che il Figlio di Dio si è degnato di prendere per la nostra salvezza, così adoriamo e insieme lodiamo, glorificandolo in spirito, questo medesimo Redentore, poiché, come è scritto, “Dio è spirito”, ed è per questo che adoriamo spiritualmente la sua divinità»[3].

Non si tratta, dunque, di una semplice opera d’arte più o meno preziosa, più o meno bella. Il suo ruolo è più profondo e si unisce inscindibilmente alla domanda «vogliamo vedere il Signore» (Gv 12, 21b), «mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14, 8), «il tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 8s).

Può sembrare che l’arte non sia in grado di dare una risposta adeguata a questa domanda, tuttavia, non si può sottovalutare la forza della ricerca spirituale, artistica, estetica che l’artista meglio, l’iconografo vive e trasfonde nella sua opera, né la capacità evocativa che questa può avere soprattutto quando si riferisce direttamente ad una pagina della Scrittura, parola viva che chiama, risana, guarisce e insegna. È interessante il messaggio del Concilio Niceno II a tale proposito: «L’arte può rappresentare la forma, l’effigie del volto umano di Dio e condurre colui che lo contempla all’ineffabile mistero di questo Dio fatto uomo per la nostra salvezza»[4].

La stessa luce che emana dal volto di Cristo[5] guida l’iconografo nel suo lavoro di scrittura dell’immagine e al contempo illumina coloro che dinnanzi all’immagine pregano e contemplano il mistero che attraverso l’icona si rende visibile consentendo di andare oltre ciò che si vede.

In particolare, la Chiesa greca e quelle slave, fondandosi sulle opere dei grandi teologi “iconoduli” che furono san Niceforo di Costantinopoli e san Teodoro Studita, hanno considerato la venerazione dell’icona come parte integrante della liturgia, a somiglianza della celebrazione della Parola.

Come la lettura dei libri materiali permette di far comprendere la parola vivente del Signore, così l’ostensione di un’icona permette, a quelli che la contemplano, di accostarsi ai misteri della salvezza mediante la vista: «Ciò che da una parte è espresso dall’inchiostro e dalla carta, dall’altra, nell’icona, è espresso dai diversi colori e da altri materiali»[6].

L’insegnamento della Chiesa sul tema dell’immagine sembra volerci condurre a ricordare la necessità di accompagnare la celebrazione liturgica, la preghiera, la meditazione, l’esperienza spirituale alla visione del volto di Cristo, della Madre di Dio, della gloria degli angeli e dei santi usando il senso della vista così come nella proclamazione della Parola si usa quello dell’udito. Insegna ancora il Concilio Niceno II che «quanto più continuamente (i Santi) vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione (…). L’onore reso all’immagine, infatti, passa a colui che essa rappresenta, e chi adora l’immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto»[7].

Non si tratta di una possibilità bensì, in qualche modo, di una necessità per il culto e la vita cristiana poter contemplare l’immagine, l’Invisibile resosi visibile: «Definiamo con ogni accuratezza e diligenza che, a somiglianza della preziosa e vivificante Croce, le venerande e sante immagini sia dipinte che in mosaico, di qualsiasi altra materia adatta, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, nelle sacre suppellettili e nelle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della immacolata Signora nostra, la santa madre di Dio, degli angeli degni di onore, di tutti i santi e pii uomini. (…) onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi»[8].

Il contenuto teologico di questi insegnamenti conciliari sembra sfuggire alla nostra sensibilità odierna e ben lo si comprende dalla difficoltà a produrre oggi nuove immagini che corrispondano a precisi canoni ecclesiali e liturgici o dalla modalità con cui utilizziamo, in modo talvolta acritico e improprio, le icone che imitano quelle dell’oriente cristiano ridotte a santini o quadri appesi ma, spesso, privati del valore simbolico e liturgico che i Padri attribuirono loro.

L’icona, tuttavia, mantiene la sua pretesa di rendere visibile l’invisibile e può davvero aiutare a ricentrare il nostro rapporto con Colui che è Dio e si è fatto uomo, il Cristo Signore. Più che mai oggi, nel tempo in cui tutto rischia di essere intimistico e soggettivo, l’icona richiama ciò che è, ὁ ὤν, l’Essente, consentendo di ritrovare la luce che illumina ogni uomo e guida alla scoperta del Dio invisibile in Cristo, di Dio presente in noi cristificati dal Battesimo, di Dio presente nel volto del fratello dimora dello Spirito Santo. «L’icona rivela alla creatura il suo nesso sostanziale con il Creatore e nello stesso tempo esprime la modalità con cui la propensione naturale dell’uomo al divino viene soddisfatta in modo umanamente imprevedibile da Cristo: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo potesse diventare Dio»[9].

Ho parlato di uso improprio dell’icona; non sono mancati, tuttavia, tentativi di dialogo tra la modalità oggettiva dell’icona e il mondo contemporaneo, studi e approfondimenti su questo prezioso tema. Ci sono, dunque, gli strumenti per un approccio fruttuoso, ecumenico potremmo dire, che consenta anche ai giovani di aprire il cuore all’Invisibile, alla contemplazione del Mistero che si rende presente in Cristo per una piena conoscenza dell’umanità e della loro umanità in quella Comunione che vivifica, santifica e deifica l’uomo nella sua interezza, nel suo tempo, nella concretezza della vita.

 

 

[1] Benedetto XVI, Udienza Generale, 02 febbraio 2011.

[2] Ignazio di Lojola, Esercizi Spirituali, 47.

[3] J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, XII, 1061 C–D.

[4]  Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Duodecimum Saecumul, 9.

[5] Da qui la nascita nelle immagini sacre del nimbo o aureola per individuare il Cristo (normalmente con la Croce e in oriente con le lettere ὁ ὤν ad indicare Colui che è, l’Essente) e accanto a lui la Beata Vergine Maria e i Santi sui volti dei quali la luce di Cristo risplende.

[6] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Duodecimum Saecumul, 10.

[7] Concilio di Nicea II, Definizione, capo VI.

[8] Concilio di Nicea II, Definizione, capo VII.

[9] Romano Scalfi, in LIconografo (1991), Editoriale n. 2.