N.06
Novembre/Dicembre 2013

Per una pastorale vocazionale generativa

  1. Educare all’ascolto della voce di Dio

Ripercorrendo le pagine della Sacra Scrittura, si può vedere come Dio interviene in modo improvviso nella vita di alcune persone sconvolgendone, con la sua chiamata, ogni personale progetto. A partire da Abramo, Mosè, Davide, i profeti, fino alla Vergine Maria, agli Apostoli, a Paolo, il cammino della storia della salvezza è tutto contrassegnato dalla risposta positiva data senza riserve da quanti sono chiamati. Con questo stesso stile il Signore ha continuato e continua a chiamare lungo la storia della Chiesa. Basti pensare ad Antonio del deserto o a San Francesco d’Assisi…

Pensando a quanto le scelte di Dio siano sovranamente libere, immediate e travolgenti, se ne può trarre la conclusione se, riguardo alle vocazioni, la “pastorale” più adeguata sia quella di educare i fedeli, fin da piccoli, all’ascolto, ad essere attenti alla voce di Dio che parla al cuore di ciascuno. Dal “primo comandamento”: «Ascolta, Israele!» (Dt 6,4) fino al ritornello che ritma le sette “lettere” del libro dell’Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7), la Bibbia è tutta attraversata da un pressante invito all’ascolto – che spesso diventa accorato richiamo – rivolto da Dio al suo popolo, ai “suoi”.

Questo ci fa comprendere che la chiamata è, sì, pienamente gratuita, ma richiede anche, per essere udita e accolta, una certa “preparazione”; richiede – come dirà Gesù attraverso la parabola del seminatore – un terreno buono, capace di farla fruttificare. Questo lavoro silenzioso e nascosto è il principale servizio che la Chiesa può offrire ai suoi figli per renderli idonei a discernere tra tante e allettanti possibilità di realizzazione che la vita offre, quella che coincide con il disegno di Dio su di loro. Si tratta di un accompagnamento vigile e assiduo, intessuto di preghiera e di offerta, più che di parole e di azioni, come fu – e continua ad essere – quello di Maria verso la Chiesa. È lei il modello cui costantemente ispirarsi nell’accompagnare spiritualmente le anime nella scoperta della loro vocazione.

 

  1. Il volto materno della Chiesa

Tutto per Maria – come per ogni chiamato – comincia a “Nazareth”, nel silenzio di quell’ora in cui l’angelo del Signore entra da lei e fa risuonare all’orecchio del suo cuore il mirabile saluto (cf Lc 1,26-38). Tramite l’angelo, Dio le fa la proposta più insolita e sconvolgente che mai uomo avesse udito. Rassicurata dall’angelo – quasi figura dell’accompagnatore spirituale –, ella comprende che non le si chiede di fare, orgogliosamente, qualcosa che supera le sue capacità, ma semplicemente di accogliere un dono e di mettersi con umiltà e totale fiducia al servizio di Dio, acconsentendo in tutto al suo volere. Allora dice il “sì” dell’amore all’Amore.

Ogni vocazione cristiana ha qui la santa radice delle sue origini. Si tratta sempre e unicamente di credere all’amore e quindi di accogliere il Dono. Occorre dire “sì”, consegnandosi senza esitazione.

Ecco la massima libertà ed emancipazione a cui una creatura umana – in particolare la donna – può arrivare quando, senza paura, intraprende decisamente il cammino della fede.

Il di Maria all’amore non è detto soltanto quando si tratta di accogliere il Verbo della vita per farlo germogliare nel proprio grembo, ma anche quando si tratta di condividerne la Passione e la Morte.

Anzi, è là, sul Calvario, che Maria diventa nuovamente Madre con una maternità universale.

«Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,25-27). Nasce così la Chiesa e nasce con volto di Madre. In quell’ora di tenebre e di morte, essa già brilla come presenza di luce e di speranza, profezia di vita nuova; è già Lumen Gentium. Tuttavia essa è ancora come una neonata tra le braccia della mamma. Nel Cenacolo, dove, come sotto la Croce, Maria sta orante in mezzo agli apostoli nell’attesa dello Spirito, la Chiesa viene nutrita con la preghiera, con la Parola di Dio, con l’Eucaristia e con la forza della comunione fraterna. Nel capitolo 9 degli Atti, essa ci appare come una giovinetta che cammina da sola e si avvia per la sua strada, diventando presto, a sua volta, generatrice di nuovi cristiani: «La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero»

(At 9,31-32). Dopo aver cominciato ad evangelizzare Gerusalemme, percorre tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria. Fortificata dallo Spirito Santo, ben presto è pronta per intraprendere veri e propri viaggi missionari. La sua corsa ormai non si arresterà più; continuerà a camminare verso quelle terre e quegli uomini che attendono, pur senza saperlo, di conoscere Colui che è la salvezza, perché è per tutti la Via, la Verità e la Vita. Essa, con la parola del Vangelo, diffonde la lieta notizia che ogni uomo ha in sé una grandissima dignità: quella di essere ad immagine e somiglianza di Dio, chiamato a divenire, in Cristo, figlio di Dio. Per questo sarà addirittura definita «Madre e nutrice di santi» (Sanctorum altrix, n. 1).

Per svolgere tale missione, la Chiesa si presenta – per usare un’immagine cara a San Paolo – come un organismo vivente, un corpo dalle molte membra, ciascuna con il suo specifico compito, ed è dotata di molteplici carismi, tutti volti ad un unico scopo: l’edificazione comune nella carità, la formazione di una universale fraternità.

L’uomo che al momento della sua creazione era stato posto come “custode e coltivatore” dell’Eden, del giardino celeste (cf Gen 2,15), ora – riscattato dal peccato che lo aveva allontanato da Dio e diviso dai fratelli – è stabilito addirittura come collaboratore di Dio, cooperatore al divino disegno di salvezza. A tal fine, «Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo» (Ef 4,12).

Ne emerge una visione di Chiesa in cui ciascuno è per tutti e tutti per ciascuno; dove ognuno è chiamato a dare il proprio contributo e nello stesso tempo è sostenuto dagli altri, esattamente come avviene tra le varie membra del corpo umano. In questo reciproco servizio davvero nessuno è escluso, ma ognuno ha il proprio posto e la propria funzione. Si tratta di un’unità organica, vitale; se qualcuno viene meno, tutti ne patiscono; per questo tale unità va costantemente custodita.

Questo è molto importante in riferimento al fiorire delle vocazioni. Oggi, in particolare, i giovani non hanno solo bisogno di essere aiutati a discernere la chiamata di Dio, ma anche di essere sostenuti nel cammino. Infatti, accade spesso di vedere perdersi autentiche vocazioni che pure erano iniziate con slancio e generosità. Non si può, oggi, non tener conto che – forse più di un tempo – l’ambiente sociale non è favorevole: forti sono le attrattive seducenti, innumerevoli le voci contrarie, provocanti i messaggi mediatici; inoltre tanti candidati alla vita consacrata portano in sé profonde ferite dovute anche ai disagi familiari vissuti. Tutti questi fattori non devono però scoraggiare, ma, semmai, incitare ad un più adeguato accompagnamento. Il sacerdote è chiamato ad essere veramente il buon pastore che – come ha detto recentemente Papa Francesco – va in cerca delle novantanove pecorelle smarrite, che non sono solo i “lontani” da evangelizzare, ma molto spesso i “chiamati” da ritrovare. Un fatto umanissimo accaduto a frère Roger di Taizé può essere significativo della fiducia e della cura che bisogna avere nella cura pastorale per sostenere i vacillanti: «Diversi anni fa – ha narrato lui stesso – con alcuni miei fratelli vivemmo per un periodo di tempo a Calcutta… Fin dal primo giorno curavo una bambina lebbrosa di quattro mesi la cui mamma era morta poco dopo la sua nascita. Mi diceva che aveva forse poco da vivere. Madre Teresa la mise nelle mie braccia e mi domandò con insistenza di portarla a Taizé per farla curare. Ed io mi dicevo: se questa bambina percepisse l’inquietudine che io provo per la sua prossima morte, che cosa diventerebbe? E ancora mi dicevo: lascia che la tua inquietudine si trasformi nella fiducia della fede. Finché questa bambina vive, rimettila a Dio. Riposando sul tuo cuore, nella sua breve vita avrà almeno provato la felicità della fiducia. Al nostro arrivo a Taizé, i fratelli si riunirono nella mia camera per vedere la bambina. Ho posto sul mio letto la piccola, chiamata Maria, e, per la prima volta, si è messa a sillabare come un bebè felice. Ed ecco è sopravvissuta. E oggi è adulta. Sono il suo padrino e provo per lei un amore di padre»1.

Ecco, la “legge” della fecondità spirituale comporta che il seminatore getti nel solco la propria vita, il pastore sia disposto a donare tutto se stesso, il “maestro” sia una pagina viva di Vangelo. Ciò che può essere determinante per la risposta dei giovani alla chiamata divina è però anzitutto la testimonianza, è la convincente presenza di modelli di vita cristiana, sacerdotale e religiosa.

Qualunque sia il servizio chiesto a ciascuno nella Chiesa, non si tratta mai semplicemente di un fare di natura tecnica e burocratica, efficientista ed economica, ma di un essere che, per sovrabbondanza di amore, agisce in conformità alla propria natura, operando il bene per tutti.

Ogni membro nella Chiesa, aiutato dagli altri, è perciò chiamato a crescere conformandosi sempre più a Cristo; in tal modo non agisce soltanto per la propria salvezza, ma coopera al raggiungimento di quella “piena maturità” che è la santità, la quale trabocca sempre al di fuori del singolo, si irradia all’intorno generando a poco a poco una mentalità nuova, una nuova cultura, un nuovo modo di rapportarsigli uni gli altri (cf Ef 4,14-16). Ed è questa novità del modo di essere che suscita anche in altri il desiderio di un cambiamento e fa scoprire loro quel tesoro nascosto che ogni persona, nascendo, porta in sé, quale sigillo della propria appartenenza a Dio.

In tal senso ogni membro della Chiesa è “madre” per tutti; ogni cristiano è, in certo modo, “Maria”, Madre del Cristo e del suo Corpo mistico; ognuno ha il compito di vivere in modo tale da essere una pagina aperta del Vangelo e favorire così nei fratelli l’incontro vivo con Gesù Salvatore. Molto significativa in proposito la conversione al cristianesimo di Pacomio, un giovane soldato che diventerà il padre del monachesimo cenobitico. Arruolato suo malgrado all’età di vent’anni e inviato a Tebe, ebbe lì l’incontro che determinò la svolta decisiva della sua vita: «Giunta la sera – si legge nella Vita dei cristiani misericordiosi che avevano saputo della presenza di queste reclute, portarono loro da mangiare e da bere, perché li vedevano nell’afflizione. Il giovane, informatosi, apprese che i cristiani praticano la misericordia verso tutti gli uomini». Ma egli neppure sapeva chi fossero i cristiani; allora domandò ulteriori spiegazioni e gli risposero che i “cristiani” «sono uomini che portano il nome di Cristo, l’Unigenito Figlio di Dio, e fanno del bene a tutti, poiché sperano in Colui che ha fatto il cielo, la terra e noi uomini». Pacomio, stupefatto di essere stato fatto oggetto di tanto amore, si ritirò in disparte e lasciò sgorgare dal cuore questa preghiera: «Dio creatore del cielo e della terra, se tu volgerai gli occhi su di me e avrai pietà di me che nella mia piccolezza ignoro te, e se mi libererai da questa afflizione, allora io mi farò servo della tua volontà per tutti i giorni della mia vita e amerò tutti gli uomini e li servirò secondo i tuoi ordini». E così realmente fu, tanto che Pacomio divenne padre di una schiera innumerevoli di monaci che conducevano vita comune, secondo il modello della prima comunità cristiana di Gerusalemme.

 

  1. “Chiesa Madre “ che genera

È questo il volto materno della Chiesa, che genera con il suo semplice vivere secondo il Vangelo. Questo titolo di “Chiesa Madre”, già molto caro ai Padri della Chiesa, è stato messo in particolare rilievo dal Concilio Vaticano II. E ciò, naturalmente, non è senza benefiche conseguenze. In tutti i suoi membri, qualunque sia la loro funzione nel Corpo mistico, mai la Chiesa può ridursi ad una semplice struttura burocratica, fosse pure a fine caritativo, mai la sua azione pastorale deve confondersi con un’azione sociale,

ad un semplice fare, ma deve sempre essere una sovrabbondanza di bene che si diffonde come da sorgente segreta. Scrivendoad un amico nel giorno del suo Battesimo, Dietrich Bonhoeffer gli prospettava la vita cristiana proprio in questi termini: «Oggi sarai battezzato, affinché tu divenga cristiano. Su di te saranno pronunziate tutte le antiche grandi parole dell’annunzio cristiano… E anche noi, con te, siamo rinviati agli inizi… E il nostro essere cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nell’operare ciò che è giusto tra gli uomini. Il parlare e l’organizzare devono rinascere da questo pregare e da questo operare»2. In pochi mesi di pontificato Papa Francesco ha già toccato più volte questo tema della maternità della Chiesa, dedicando ad esso un’intera Catechesi: «La Chiesa madre! Per me è una delle immagini più belle della Chiesa. In che senso e in che modo la Chiesa è madre? Partiamo dalla realtà umana della maternità: che cosa fa una mamma? Anzitutto una mamma porta nel suo grembo per nove mesi il proprio figlio e poi lo apre alla vita, generandolo. Così è la Chiesa: ci genera nella fede, per opera dello Spirito Santo che la rende feconda, come la Vergine Maria… Certo la fede è un atto personale: “io credo”, io personalmente rispondo a Dio che si fa conoscere e vuole entrare in amicizia con me. Ma la fede io la ricevo da altri, in una famiglia, in una comunità che mi insegna a dire “io credo”» (11 settembre 2013). E non soltanto questo, ma aiuta anche a perseverare nel cammino, a rendere sempre più matura e personale la scelta della fede. «Una mamma – continua Papa Francesco – non si limita a dare la vita, ma con grande cura aiuta i suoi figli a crescere, dà loro il latte, li nutre, insegna il cammino della vita, li accompagna sempre con le sue attenzioni, con il suo affetto, con il suo amore… La Chiesa fa la stessa cosa: accompagna la nostra crescita trasmettendo la Parola di Dio, che è una luce che ci indica il cammino; amministrando i Sacramenti», in particolare ci nutre con l’Eucaristia che è il Pane per il viaggio ed è già anche l’anticipo del Cielo sulla terra.

Vi è, dunque, un volto materno della Chiesa che si rispecchia in ogni cristiano, qualunque sia il suo specifico carisma, esattamente come vi è una dimensione missionaria della vita cristiana che compete ad ogni cristiano in forza del suo stesso Battesimo, benché non tutti i cristiani siano chiamati a partire fisicamente per evangelizzare popoli ancora pagani.

Anzi, è riconosciuto che nella Chiesa, tra le varie vocazioni, quella della vita contemplativa si caratterizza per avere una grazia di maternità/paternità spirituale sommamente feconda.

Parlare di questa maternità insita nella vita contemplativa non è certo facile. Siamo, infatti, nell’ambito del mistero, trattandosi dell’azione dello Spirito Santo nelle anime, in particolare nella donna consacrata in una forma di vita claustrale apparentemente meno utile sul piano concreto della vita ecclesiale e sociale.

Come è noto, il ministero essenziale e costitutivo della vita monastica è la preghiera circondata di solitudine e silenzio. Preghiera di ascolto, di adorazione, di lode, di supplica, di offerta… Preghiera che dovrebbe essere veramente incessante per il fatto che essa coincide con l’intera esistenza dell’orante. Come dicevano i santi Padri, pregare è respirare Cristo, cioè vivere intimamente uniti a lui per ricevere continuamente il suo soffio vitale – lo Spirito Santo – e trasmetterlo ad altri.

Si tratta, dunque, di riconoscere che sta proprio qui il segreto della maternità spirituale: in questa profonda simbiosi o sintonia con lo Spirito d’Amore che unisce il Padre e il Figlio e che costituisce il mistero fecondo della santissima Trinità da cui è scaturita e continua a scaturire la Vita.

La monaca, nella sua vita “umbratile”, cioè nascosta, tutta espropriata e dedita all’ascolto della Parola di Dio e alla preghiera, partecipa in modo speciale di questo mistero che è, come già accennato, insieme mariano ed ecclesiale. In essa il servizio alla vita soprannaturale avviene mediante una radicalità del dono di sé che equivale ad una vera immolazione. Se infatti essa vive fedelmente la propria vocazione, è davvero come un seme che muore in terra per fruttificare in cielo. Non ha qui la possibilità di vedere, di misurare, di constatare il frutto della propria offerta, ma proprio per questo è tutta madre, e madre per tutti. È terra unicamente seminata e coltivata da Dio. Avviene così quando la preghiera coincide semplicemente con quel “più grande amore” che spinse Gesù a morire sulla croce e Maria a patire con lui. Soltanto l’amore pienamente gratuito diventa maternità, genera misteriosamente nuovi figli a Dio. Per vie misteriose, chi vive come “orfano” nel mondo, senza “appartenere” a nessuno, senza sapere chi è e che senso ha la sua vita, ad un certo punto – attraverso magari un incontro casuale o addirittura attraverso quella che potrebbe sembrare una disgrazia – si sente afferrato da una mano potente, si sente amato come figlio di Dio, e, allora – «da quel momento» (Gv 19,27), come annota con precisione l’evangelista Giovanni – decide nel suo cuore, con il libero di una risposta d’amore, di farsi veramente figlio e discepolo, di accogliere con piena responsabilità questo dono e di iniziare così una nuova vita, una vita donata, consacrata all’Amore.

Proprio nella partecipazione all’ora suprema del Figlio, trafitto nel cuore, il cui sangue si effonde in amore misericordioso, Maria diventa la nuova Eva, la madre della nuova umanità. Fatte le debite proporzioni e distinzioni, si può affermare che anche la donna consacrata nella radicalità della vita monastica, dandosi in pura perdita a Dio per i fratelli, viene a trovarsi nel cuore del mistero fecondo della croce, alla sorgente del mistero della Vita, per attingervi la linfa dello Spirito Santo e comunicarla a tutte le membra del corpo mistico.

Se si considera che la vita claustrale, con la sua esigente e indispensabile separazione dal mondo, si svolge lontano dall’intimità familiare, quindi lontano dalle culle e dalle scuole, sembra forse impossibile che monaci e monache possano conoscere i palpiti nascosti di una vita che sboccia e cresce, con tutti i suoi desideri, le sue aspirazioni e le segrete fatiche. Ma non è così. Facendomi voce anche di chi vive la mia stessa vocazione, posso assicurare che non c’è mai un giorno, un’ora in cui non sentiamo sulle nostre braccia il peso di tutti i bambini del mondo da proteggere e allevare, di tutti i giovani da formare e guidare, come pure di tutti gli anziani da assistere e confortare, di tutti i malati e gli afflitti da curare e consolare. E questo non tanto per una personale sensibilità o capacità umana, quanto per un dono di maternità soprannaturale che si accresce con l’approfondirsi della vita di preghiera. È, infatti, opera dello Spirito Santo il quale, trasfigurando la nostra povera umanità, ne fa uno strumento dell’amore paterno e materno di Dio: amore forte e tenerissimo per ogni sua creatura.

A questo punto, è bene evidenziare che in monastero chi ha il compito di guidare la comunità deve prodigarsi in modo tale da generare i giovani e le giovani vocazioni aiutandoli a divenire a loro volta padri o madri nello spirito. È, questo, un compito estremamente delicato, perché si tratta di collaborare con lo Spirito Santo che plasma ogni persona in modo unico e irripetibile; bisogna dunque rispettarne la natura e nello stesso tempo liberarla da ciò che ostacolerebbe in essa la fioritura della grazia. Ogni discepolo deve, infatti, a sua volta diventare “maestro di vita”; ogni “salvato” deve diventare “salvatore”. In che modo? Semplicemente vivendo con autenticità il Vangelo, conformandosi all’unico Maestro da cui tutti attingiamo “grazia su grazia”. Ciò comporta non solo una salda fede, ma anche una sempre più grande capacità di amare e di servire gli altri, dando la vita.

Tale compito si presenta oggi particolarmente difficile perché i giovani e le giovani che, sospinti dallo Spirito, entrano nei monasteri, provengono spesso da ambienti in cui non hanno potuto conoscere il volto materno di Dio che dovrebbe riflettersi nelle comunità ecclesiali e nelle famiglie. Essi lo scoprono, perciò, cominciando a diventare figli e figlie nell’ordine della grazia; e quanto più sanno accogliere da un padre o da una madre spirituale il dono della vita soprannaturale, tanto più diventano anch’essi capaci di generare nello Spirito, diventano “padri e “madri”.

 

  1. La necessità di un adeguato accompagnamento spirituale

Vorrei, infine, accennare almeno ad un altro importante aspetto riguardante le vocazioni, o meglio, il loro discernimento e la loro crescita: la necessità di una guida, di un adeguato accompagnamento spirituale.

Spesso nei colloqui con tanti giovani in cerca di aiuto nella loro già travagliata esistenza e nel dilemma delle loro scelte vocazionali, emerge proprio la necessità di una guida illuminata, in particolare proprio nel momento del discernimento della vocazione e nelle prime tappe del cammino, perché sono i momenti in cui più forti e sottili si fanno le insidie del nemico e generalmente si è ancora inesperti nel riconoscere e chiamare con il loro nome le tentazioni. Ecco come un venerando e sperimentato padre del Monte Athos parla a un giovane che gli chiede consigli per intraprendere il suo itinerario verso Dio: «Tu non riesci a vedere nei tuoi occhi; per conoscerti hai bisogno dello sguardo di un altro. Nessuno è buon giudice di se stesso. Un padre spirituale è uno specchio che Dio vuole darci perché possiamo conoscerci… e scoprire il nostro vero volto… Non c’è altro Padre all’infuori di Dio; nella sua grazia egli concede ad alcuni di partecipare alla sua paternità, cioè alla sua intelligenza e al suo amore. Il padre spirituale è il cooperatore di Dio, lavora con lo Spirito, ama, combatte e soffre con lui perché venga generato l’uomo nuovo in te…»3.

Condizione indispensabile per trarre vantaggio da tale ministero è che si vada da un padre o da una madre spirituale con il sincero desiderio di lasciarsi conoscere in profondità per essere aiutati a camminare nella via che Dio traccia per noi, e non mossi dal desiderio di cercare gratificazioni psicologiche e persino compensazioni affettive. Occorre che il rapporto con il padre o la madre spirituale superi il livello puramente umano e si ponga chiaramente su quello della grazia.

Perciò è molto importante quando si deve scegliere la persona cui affidare la cura della propria anima, guardare soprattutto alla sua maturità spirituale. È decisamente preferibile la santità alla cultura e a qualsiasi altra dote naturale. Spesso una persona che appare modesta, persino dimessa, può racchiudere in sé tesori di sapienza spirituale inestimabili. Il discernimento degli spiriti, infatti, non è legato alla preparazione culturale, ma alla purità di cuore, alla santità. E segni inconfondibili della santità sono l’umiltà e la pace.

Il vero padre e la vera madre spirituale non legano a sé chi si affida loro, ma lo rendono più libero e lo conducono risolutamente a Dio. Proprio perché non conta sulle proprie capacità, ma sulla grazia che opera nelle anime, la guida compie il proprio ministero più pregando che parlando, più soffrendo con esse e per esse che cercando affannosamente soluzioni immediate alle difficoltà, eludendo talvolta il reale problema di fondo da cui le difficoltà provengono. È ancora l’anziano del Monte Athos a parlarci con tutta l’autorità della sua lunga esperienza: «Nei rapporti con un padre spirituale vi sono due pericoli: l’idolatria e la mormorazione»; in realtà bisogna ricordarsi che «egli è solo un uomo e non un dio; ma un uomo che Dio ti offre per la tua santificazione»4.

In non pochi casi, quando il padre o la madre spirituale propongono qualcosa che pare difficile o non comprensibile, si è tentati di cambiare, con il segreto desiderio di trovare una guida che accondiscenda alle nostre idee e alle nostre inclinazioni, che non esiga troppo impegno ascetico, ma ci lasci liberi nelle nostre scelte, riconoscendole, però, “volontà di Dio” e mettendo ai nostri progetti la sua autorevole firma e il suo “placet”. Ecco un’altra acuta osservazione fatta dall’anziano del Monte Athos: «Alcuni cambiano spesso padre spirituale per provare il piacere di raccontarsi di nuovo e per non dovere obbedire fino in fondo…». È vero. E talvolta questo piacere di “raccontarsi”, di “guardarsi”, arriva fino alla soglia del patologico, al narcisismo che è una specie di prostituzione spirituale. C’è infatti una castità da custodire non solo nel corpo, ma anche e anzitutto nello spirito, nella propria interiorità; c’è anche un cammino di silenzio interiore da accettare come via indispensabile per scendere a quelle profondità di noi stessi dove dimora Dio. L’apertura d’animo deve quindi essere sobria, essenziale, riservata ad un’unica persona o a pochissimi, ma nello stesso tempo deve essere veramente totale, senza veli e senza pieghe, senza nascondersi. Se apriamo il cuore alla nostra guida, il padre o la madre spirituale diventa responsabile di noi davanti a Dio, per sempre. Potremo sempre contare sul sostegno non tanto delle sue parole, dei suoi consigli, quanto della sua preghiera e della sua carità indefettibile. L’amore cristiano ha più fatti che parole. L’amore si dona. Ecco perché i santi sono sempre i più intuitivi e i più lungimiranti nell’indicare la via da seguire. Essi sono dei padri, delle madri, dei generatori di vita formati alla scuola del Cristo mite e umile di cuore, del Cristo orante, che tutto fa in obbedienza d’amore al Padre in perfetta unione con Colui che l’ha mandato a prendersi cura dei frat