La paura
Tra le prime e più profonde esperienze emotive dell’essere umano c’è quella della paura. Strumento ancestrale di sopravvivenza, la paura è oggi, soprattutto per i più giovani, un orizzonte costante, un confine sempre prossimo, spesso un giogo opprimente.
Nella comunicazione in rete la paura ha più di una valenza e si manifesta non di rado in fasi contraddittorie.
Nel senso comune, nella vulgata della comunicazione digitale, si nomina fin troppo spesso la condizione riparata, nascosta, anonima e talvolta perfino segreta dell’utente che voglia approfittarsi della sua posizione dietro uno schermo. Il contraltare di questo diffuso cliché di pusillanimità virtuale è la condizione di chi si trova davanti allo stesso schermo: che si tratti di minori o no, sono sempre in troppi ad affacciarsi in rete senza essere provvisti di consapevolezza sufficiente e di adeguati strumenti cognitivi e culturali; essere davanti a uno schermo connesso significa essere prima di tutto esposti agli sguardi, ai commenti, alle reazioni senza filtro (o quasi) di utenti più o meno familiari, più o meno compresi nella cerchia delle relazioni analogiche, più o meno fisicamente prossimi.
Due opposte paure: non riuscire ad esistere – esistere come oggetto di scherno
Nella routine del frequentatore medio dei social network non si verificano spesso situazioni estreme, ma qualsiasi azione esposta prevede l’innesco – non sempre consapevole e avvertito – di due opposte paure che possono manifestarsi anche con grande intensità fino a trasformarsi in stati patologici permanenti: per un verso la paura – che sempre più ricerche documentano come diffusa e profonda anche tra i meno giovani – di non produrre reazioni, di passare del tutto inosservati, di non attirare l’attenzione né la reazione e quindi neppure l’interesse di nessuno tra i propri contatti; per il verso opposto, il terrore che l’esposizione di un qualsiasi intervento in rete a un potenziale fuoco di fila composto da una platea di molti e diversi “cecchini” pronti a sparare pallottole emotive realizzi una totale perdita di credibilità, di autorevolezza, di dignità, una compromissione magari irreversibile della propria reputazione, fino all’umiliazione più drastica e più violenta. In altre parole: da una parte il terrore di non riuscire a esistere – entrando nel mondo delle rappresentazioni-, dall’altro il terrore di riuscirci solo per diventare il capro espiatorio, l’oggetto di scherno.
Quest’ultima è forse la paura più diffusa e più intensamente percepita dalle generazioni che più attivamente usano la rete, dentro e fuori i social network. Una paura in un certo modo archetipica, soprattutto in un mondo in cui la rappresentazione pubblica di sé e del proprio status sembra valere più di qualsiasi altra cosa; una paura che sembra essere al contempo base di fondazione e sintomo più eclatante di una delle più diffuse ossessioni psicologiche profonde, la così detta “sindrome dell’impostore” (una totale mancanza di autostima dovuta alla convinzione irrazionale di non meritare alcuna considerazione né stima da parte degli altri).
La paura di essere dimenticati
Se la comunicazione in rete è per un utente giovane forse principalmente un tentativo di situarsi nel mondo oltre che di cercare un’interazione con l’altro, e se la rete è tecnicamente votata a favorire il rapido oblio e la perdita del sedimento delle tracce depositate dal passare del tempo (anche solo perché un black out, un difetto di software, un banale guasto all’hardware possono decidere l’immediata e per lo più irreversibile cancellazione di enormi quantità di dati), sembra logico che un’altra paura occupi molto spazio nelle menti e negli animi: la paura di essere dimenticati. In un contesto in cui alla relazione si sostituisce sempre più di frequente l’interazione, al confronto lo scambio, alla vicinanza la visibilità, è forse inevitabile che più ancora del rifiuto e della perdita, nel rapporto tra due o più persone e in generale nelle reti sociali si percepisca come timore il rischio di scivolare fuori dalla cronologia, di scomparire dall’orizzonte, di ritrovarsi estromesso dal gioco.
Le emozioni non sono mai virtuali: durano anche off-line
La paura, come la solitudine e altre delle emozioni che costruiscono lo scenario emotivo in rete, può essere e di fatto spesso è un’emozione indotta: una condizione emotiva utile a circoscrivere, definire e orientare lo spazio possibile nel quale si trova ad agire un utente. Regole implicite, algoritmi e stili al fondo dei vari canali della comunicazione in rete servono bene a stabilire percorsi impercettibilmente obbligati, ma anche stati d’animo e modi psicologici con i quali comunicare con il resto degli utenti connessi. Imposizioni e suggestioni che spesso non limitano la propria sfera d’azione allo spazio digitale, ma facilmente seguitano la loro influenza anche nella vita off line.
Differentemente da molti altri elementi coinvolti nei processi della comunicazione in rete, le emozioni non sono mai virtuali: anche il più minuscolo dettaglio di uno scenario comunicativo digitale non solo produce effetti emotivi reali, ma lo fa in modo più rapido e più immediato. Così come avviene per tutte le emozioni che sorgono come effetto di uno evento in rete, anche per la paura l’intensità, la profondità, la durata sono influenzate e governate per una parte rilevante dal contesto: più equilibrato e proporzionato è il rapporto tra schermo e fuori schermo, digitale e analogico, materiale e immateriale e più è logico aspettarsi una proporzionalità controllata degli effetti emotivi delle azioni e delle interazioni in rete; più l’immersione nei processi comunicativi e nelle altre attività connesse è totalizzante, priva di contorno, più è possibile che l’emozione prenda il sopravvento e si sviluppi fuori misura, fuori controllo.
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