Vivere per il tempo o vivere per l’eternità
Una “scheggia” di Giovanni Papini (1881-1956)
Lasciamo per una volta i nostri Padri “strani” e, come abbiamo già fatto in precedenza, ascoltiamo anche una voce più vicina a noi. Il testo di oggi è di quella grande quanto controversa figura che fu Giovanni Papini. Scrittore famosissimo ai suoi tempi, protagonista della storia letteraria e religiosa italiana, dopo la sua morte ha conosciuto un pressocché totale oblio. Ingiusto. Della sua enorme produzione, particolarmente efficaci sono gli ultimi scritti che, con fatica immane negli ultimi suoi anni, quasi completamente cieco e paralizzato dalla SLA, dettava sillaba per sillaba a una delle due figlie, l’unica che riusciva a decifrare quei sussurri. Eppure, proprio in questi testi si sente una concentrazione di poesia e di fede espresse con rara efficacia; era colmo di speranza e di virile vigore, in una situazione che avrebbe spezzato molti altri spiriti.
Nel testo che propongo (pubblicato postumo) Papini medita sul tema senechiano della brevità della vita. Come Seneca anche Papini è convinto che non sia vero che la nostra vita sia troppo breve. Seneca condensa la questione nel suo famoso Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus. Anche Papini è sulla stessa linea, ma ci invita a considerare anche un altro aspetto: come viviamo il nostro tempo? Se ci lamentiamo solo della sua “brevità”, ci condanniamo a un forsennato tentativo di frenare l’emorragia cronologica che inizia nel momento stesso della nostra nascita. Se invece teniamo come prospettiva l’eternità, allora anche un solo lampo può riempire tutta la nostra vita di eterno stupore e gioia.
Sia pure la vita un baleno, ma alla luce di un baleno si può scorgere un mondo. Un battito di cuore può contenere un abisso di felicità. Un minuto basta per intuire una legge nuova, per scoprire un’immagine, per generare un figlio, per sentire la presenza d’Iddio. Un minuto è lungo; son sessanta colpi di bilanciere; e ogni colpo è per il pensiero un volo, per il cuore una conquista, per l’anima lo spalancarsi dell’universo. […] E noi possiamo mettere nel nostro tempo effimero come un presentimento d’eternità e avvicinarci a Dio, a cui mill’anni son come un giorno. […] Con qual fondamento la creatura può accusar di spilorceria il Creatore? L’unica misura del tempo è il compito assegnato. Se un re ordina di fabbricare una torre in un giorno i muratori hanno diritto di lagnarsi della brevità del tempo. Ma la vita nostra è un esame, un’esperienza, un cimento. Pochi anni, de’ nostri poveri anni di dodici mesi, bastano per la prova. A chi non uccide il tempo colla scioperataggine lagnosa, anche la poca vita concessa all’uomo basta per raggiungere i fini più alti. Ci sono centenari che potevano esser sepolti senza danno a vent’anni; c’è chi muore a vent’anni e lascia agli uomini un’opera immortale ed ha conquistato, per il nome e l’anima, l’immortalità. L’uomo, ha detto un poeta, si compone di due elementi: il tempo e l’eternità. A chi vive per il tempo gli anni vaniscon rapidi come sospiri; chi vive per l’eternità arriva alla fine, come Mosè, sazio di giorni.
(G. Papini, “Il presente e l’eterno” in Inediti di Papini- Vita dell’Uomo, pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 226, 3, 22 settembre 1957. L’intero testo è disponibile qui).