N.03
Maggio/Giugno 2005

La vocazione universale alla santità nel cammino spirituale della comunità cristiana

Il Papa già nella NMI aveva invitato la Chiesa a camminare con maggiore impegno sulle vie della santità, sollecitando le nostre comunità a mettere in atto “una pedagogia della santità”. “È ora di riproporre a tutti con convinzione questa misura alta della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione” (NMI 31). Nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù del 2000 il Papa aveva invitato con forza i giovani ad essere i santi del nuovo millennio: “Contemplate e riflettete! Iddio ci ha creati per condividere la sua stessa vita; ci chiama ad essere suoi figli, membra vive del Corpo mistico di Cristo, templi luminosi dello Spirito dell’Amore. Ci chiama ad essere ‘suoi’: vuole che tutti siamo santi. Cari giovani, abbiate la santa ambizione di essere santi, come Egli è santo! perché io sono santo.

Mi chiederete: ma oggi è possibile essere santi? Se si dovesse contare sulle sole risorse umane, l’impresa apparirebbe giustamente impossibile. Ben conoscete, infatti, i vostri successi e le vostre sconfitte; sapete quali fardelli pesano sull’uomo, quali pericoli lo minacciano e quali conseguenze provocano i suoi peccati. Talvolta si può essere presi dallo scoraggiamento e giungere a pensare che non è possibile cambiare nulla né nel mondo né in se stessi. Se arduo è il cammino, tutto però noi possiamo in Colui che è il nostro Redentore… Con Cristo la santità – progetto divino per ogni battezzato – diventa realizzabile. Contate su di Lui; credete alla forza invincibile del Vangelo e ponete la fede a fondamento della vostra speranza. Gesù cammina con voi, vi rinnova il cuore e vi irrobustisce con la sua forza”.

 

Santità: vocazione universale

È definita fenomeno universale, nel senso del capitolo V della Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”, dedicata alla “vocazione universale alla santità”. Con il termine “universale” si è inteso dire che non deve definirsi fenomeno straordinario, praticabile solo da alcuni. Non è da relegare in una visione ingenua e pre-scientifica del mondo; non è una dimensione strana ed estraniante dal reale o, comunque, riservata a ben determinate categorie di persone, per lo più singolari e sui generis.

La santità è vocazione universale perché è per tutti partecipazione (essere messi a parte) alla realtà stessa di Dio. Da Dio stesso rivelata in Gesù che ce l’ha comunicata attraverso il suo Spirito. Non può essere un fenomeno di carattere esclusivo, nel senso che alcuni, in linea di principio, sarebbero ad essa quasi naturalmente destinati mentre altri, sempre in linea di principio, sarebbero da essa altrettanto naturalmente esclusi…

 

 

Col Battesimo: nel figlio santi e perfetti come il Padre

Come ha richiamato Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Novo millennio ineunte, “se il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Chiedere a un catecumeno: Vuoi ricevere il Battesimo? significa al tempo stesso chiedergli: Vuoi diventare santo?. Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48)… Per divina vocazione nasce la Chiesa, e ugualmente per divina vocazione noi siamo stati chiamati in Cristo, dal battesimo fino alla nostra felicità nel regno di Dio”.

 

 

La forza della santità è nella debolezza

Le vie della santità sono molteplici e adatte alla vocazione di ciascuno. Sintomatici risultano i casi di uomini dalla originale e profonda laicità, o politici che si rivelano cristiani nelle ispirazioni e negli orizzonti. In molti santi, ad esempio, proprio il punto debole della loro strutturazione psichica diviene, perché accettato e offerto all’opera della grazia di Dio, il loro autentico punto di forza. Santi, quindi, non nonostante o contro la propria struttura psichica, ma proprio dentro e attraverso questa struttura, anzi, grazie a tale struttura. Ciò che di per sé poteva significare limite, viene trasformato in possibilità e opportunità nuove: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Questo pensiero diventa molto importante per cogliere il grande valore cristiano della malattia psichica sofferta e offerta dal papà Martin. Se per certi versi questa sofferenza sembrava ostacolare il cammino verso gli altari, è poi risultata, per l’offerta all’opera della grazia di Dio, non solo certezza d’un valore di santità, ma anche un autentico punto di forza.

 

 

Nel vertice nella santità risiede la dignità dell’uomo

Il motivo di fondo è che la santità esprime la stessa dignità dell’uomo: una dignità “da leggersi soprattutto in relazione all’‘immagine’ della Trinità che è nell’essere umano” affermando la quale, Agostino intende indicare che “la dignità umana trova nella santità il suo vertice”. Fenomeno umano universale, ravvisabile anche all’interno della grande schiera dei martiri del XX secolo i quali, con il loro martirio, hanno anche realizzato di fatto l’unità tra i cristiani di differente denominazione, sono chiamati per grazia di Dio ad essere un sicuro punto di riferimento anche per altri. Ma essi dimostrano che l’universale vocazione alla santità ha anche un’altra universalità: quella che attraversa il tempo e lo spazio ed appartiene ad ogni tempo e ad ogni spazio; ogni tempo, e quindi anche il nostro, è adatto a vivere secondo il Vangelo e a realizzare in modo integrale il precetto duplice dell’amore di Dio e del prossimo.

 

 

C’è santità per il matrimonio?

Riguardo alla santità della vita religiosa, siamo abituati a interpretazioni stereotipe più o meno centrate, ma date per scontate, e sembra facile capirne i moduli di santità. Dire matrimonio invece, vuol dire domandarsi: quale santità per la sessualità, i soldi, l’imprenditoria, la politica, la scuola, la salute? Cioè quale santità è possibile per le molteplici espressioni della laicità?

 

Da Teresa al Concilio Vaticano II

L’uragano nel modulo della santità che era già esploso con Teresa di Gesù Bambino, per una generazione intera all’inizio del ’900, ha coinvolto i genitori. Ma la cosa non è così ovvia, tant’è vero che il meccanismo della canonizzazione di questi, si è subito inceppato. I moduli consueti di analisi e di giudizio del comportamento di due santi che siano marito e moglie, padre e madre, imprenditore e commerciante non sembravano ancora inventati o sufficientemente collaudati. Come se passando dal piano orizzontale (le sorelle Martin e la loro vita religiosa, tutta pensata per la santità canonizzabile) al piano verticale, cioè al patto generazionale, ci si scontrasse subito con situazioni impensate, difficilmente inquadrabili nei normali parametri della santità corrente. Tanto più in un caso così emblematico come quello dei due coniugi, genitori di quattro monache, di cui una modello e dottore di santità.

Il paragone e il confronto tra modelli di vita e santità tanto vicini e diversi, è inevitabile, quanto difficile, appunto. Per di più a distanza così ravvicinata, qual è quella dell’ambito familiare! Sembrava naturale, ovvio, come si è sempre fatto, che la santità andasse cercata fuori casa, fuori famiglia, nella vita consacrata, appunto! A ragione occorre rilevare la complementarietà delle vocazioni, tanto dichiarata, a parole, ma quanto esplosiva! Perché? Non era così facile e scontato trovare i moduli di comportamento eroico nella sessualità matrimoniale; oggi risulta una situazione di santificazione essenziale, per chi è sposato. Non è facile misurare l’eroicità delle virtù nell’impostazione del lavoro imprenditoriale, che pure è l’attività professionale di Zelia che si esprimeva anche con assunzioni, licenziamenti, paghe, ammonizioni coi dipendenti; propaganda, finanziamenti, pagamenti, tratte con gli acquirenti. Altrettanto arduo valutare l’originale comportamento professionale di papà Luigi, così distaccato dal suo negozio, quasi disinteressato rispetto alla intensità di dedizione della moglie. Non apriva il negozio di domenica, il giorno più redditizio per la sua attività di orologiaio, contro il parere del confessore. Si impegnava in operazioni finanziarie. Viaggiava, talora lasciando la famiglia in qualche difficoltà.

Ci sono voluti decenni per una conversione copernicana della mentalità media della Chiesa. Ci è voluto un Concilio e tutto quanto ha comportato nella elaborazione e diffusione di una collocazione al centro dell’attenzione e sollecitudine cristiana della chiamata universale alla santità -cioè della condizione di laicità- la condizione normale della gente cristiana comune.

 

 

Teresa nella famiglia Martin

Santità e straordinario contributo all’universalità e Moduli nuovi

Alla preparazione di questa conversione ha contribuito in modo straordinario proprio Teresa, la figlia preferita dei Martin. La sua forza di fermento ha sconvolto i moduli di santità, mostrando come una ragazza di 24 anni, mai uscita di clausura, con una vita insignificante sotto l’aspetto umano ed ecclesiastico, abbia potuto vivere così intensamente la proposta evangelica. Una santità piccola, povera, laica, silenziosa ma evangelicamente esplosiva.

 

Complementarietà delle vocazioni in famiglia Martin

È interessante notare il disegno di Dio su questa famiglia Martin a favore dell’intera Chiesa e dell’umanità. Da una parte vediamo due sposi, prossimi alla beatificazione. Singolarmente, prima di sposarsi, volevano scegliere la via della consacrazione; sentivano la chiamata alla radicalità del vangelo. Ma le circostanze e vicende varie manifestano per loro una strada diversa. Si incontrano e capiscono che è la volontà di Dio a chiamarli al matrimonio. Si ritrovano a vivere l’eroismo delle virtù e la radicalità del vangelo non in convento, come pensavano, ma nella comunione del matrimonio. Obbedendo al disegno di Dio si sono ritrovati a formare la “Chiesa domestica”. Donano così alla Chiesa la bellezza e la santità della famiglia nel matrimonio. Si direbbe che dalla santità del matrimonio la Chiesa riceve il dono che universalizza il profumo del chiostro.

Zelia e Luigi, sposi, vivono in famiglia quella comunione che è il cuore del convento; con chiarezza segnalano così a chi vive in convento che l’unità è il sogno di Gesù: affermano che il cuore della carità, ciò che la rende vera, è il dono reciproco della vita: “Non c’è amore più grande”. Per altro verso, vediamo la loro figlia Teresa che “si seppellisce” in monastero per abbandonarsi totalmente alle “follie” dell’amore di Dio. Dal chiuso del chiostro, con una santità così semplice, profonda ed evangelica, Teresa afferma, manifesta ed esalta l’universalità della santità. Nulla, nessuno è più universale di chi vive la vocazione di tutte le vocazioni nel cuore della radice: “Nel cuore della Chiesa sarò l’amore”. E l’amore è così semplice e così universale come l’acqua: irriga e dona vita alla radice di ogni pianta.

 

 

La santità di Teresa è universale perché è accessibile ed è di tutti

Ecco alcune sfaccettature dello stesso prisma.

Abbandono e fiducia del bambino

Teresa cita dalla S. Scrittura: “Se qualcuno è molto piccolo, venga a me” (Pr), “Come una madre carezza il suo bambino, così io vi consolerò, vi porterò in braccio e vi cullerò sulle ginocchia” (Is). La Santa commenta: “Mai parole più tenere, più melodiose vennero a rallegrare l’anima mia” – Dopo un simile linguaggio, non ci resta più che tacere, e piangere di riconoscenza e d’amore – Osservando al gallinella bianca che proteggeva i suoi pulcini, pianse di commozione spiegando: “Il cuore mi traboccava di gratitudine e d’amore”. “Gesù ha scelto quel paragone per farci capire la sua tenerezza. In tutta la mia vita ha fatto così con me; mi ha nascosta completamente sotto le sue ali”.

Una santità che è rapporto di abbandono e di fiducia. Abbraccia l’insieme della “piccola via” di Teresa, con la piccolezza, la confidenza, l’amore, ma che ci riporta sempre, come a fondamento di tutto l’edificio, alla paternità di Dio, ricchezza infinita di bontà, di accondiscendenza, di tenerezza”. Così Teresa scrive a P. Rouland, uno dei due “fratelli spirituali” missionari: “La mia vita è fatta tutta di confidenza e d’amore e non capisco le anime che hanno paura d’un così tenero Amico. Vedo che basta riconoscere il proprio nulla e abbandonarsi come un bambino nelle braccia del buon Dio”. A don Bellière: “…Quando è stato concesso anche a me di comprendere l’amore…confesso che l’amore ha cacciato dal mio cuore ogni timore! Il ricordo delle mie colpe mi umilia, mi porta a non appoggiarmi più sulla mia forza che è solo debolezza. Ma più ancora questo ricordo mi parla di misericordia e di amore. Quando si gettano le proprie colpe, con fiducia tutta filiale, nel braciere tutto divorante, come potrebbero non essere consumate per sempre?” – “Quando sarò in porto, le insegnerò, caro fratellino della mia anima, come dovrà navigare sul mare tempestoso del mondo: con l’abbandono e l’amore d’un bambino che sa che il padre lo ama e non potrebbe lasciarlo solo nell’ora del pericolo”.

Teresa sorpresa da tutto ciò, ne trae conseguenze che sono della massima importanza per facilitare alle anime il compito della loro santificazione. Queste le conseguenze: prima è l’esaltazione dell’amore di Dio al di sopra di ogni merito e di ogni opera dell’uomo: sicché proprio nell’amore di Dio è il segreto della nostra grazia e santità. Seconda è l’importanza essenziale della confidenza audace e abbandono al disegno di Dio che contempla precisamente la santificazione dell’uomo, più come un dono gratuito della misericordia di Dio che il frutto degli sforzi e delle iniziative umane. La collaborazione nostra è senz’altro richiesta e non è sterile, ma nel senso che questa stessa collaborazione è dono di Dio, e con essa veniamo incontro all’invito pressante e all’azione che scaturiscono dalla iniziativa sua.

È estremamente chiaro e logico il ragionamento di Teresa. Se l’amore di Dio è tanto potente che nessuna forza gli può resistere, ed insieme è tanto tenero che nessun amore umano gli si può paragonare, ne segue che all’anima non resta che consegnarsi con una fiducia audace e con il totale abbandono alle sue iniziative. Per percorrere questo cammino di santità è necessario liberarsi dall’orgoglio di voler far da noi, di voler dividere a metà con Dio l’opera della nostra santificazione, di voler presentare a lui le nostre rivendicazioni e contestazioni. In altre parole, la vera povertà di spirito enunciata dal vangelo, la semplicità, l’umiltà del cuore – parole che vogliono dire in fondo la stessa cosa – sono la vera disposizione per aprirsi totalmente alle iniziative del Signore.

 

 

La santità è riconosciuta dall’eroicità delle virtù

Si dice sempre che l’eroismo è di pochi. Si arrischia di cadere nella tentazione diabolica nel ritenere la santità fortuna di pochi “superdotati” o “superuomini”. Ciò porta a ritenersi dispensato chiunque non si ritrova ad essere nell’élite. Teresa si dibatte per dimostrare che l’eroismo della santità è l’eroismo della fiducia che accompagna la vita dei cristiani. Sembra ribadire e incoraggiare con S. Agostino: “Si isti et istae, cur non ego?”. La Santa comprende tutte le debolezze e le fragilità; e ti assicura che proprio il tuo negativo, proprio il tuo peccato, proprio la tua non giustizia, sono altrettanti “diritti” all’amore misericordioso.

Sembra commentare il “felix culpa quae talem ac tantum meruit habere redemptorem”. Lei talmente è convinta che se nella coscienza avesse avuto tutti i peccati, le nefandezze e i delitti peggiori dell’umanità… non avrebbe esitato un istante a tuffarsi tra le braccia di Dio, fargli dono dei peggiori delitti che, in quel “braciere ardente”, sono come gocce d’acqua. “Chi è fedele nel poco è fedele nel molto”. La più grande ed eroica collaborazione con Dio è comunque il lasciar fare a Dio… È la nullità della creatura che promuove il tutto di Dio. La sua creaturalità riconosciuta, amata e offerta muove l’onnipotenza del Creatore. È il “mi glorierò delle mie debolezze” che scatena la potenza di Dio. La totale incapacità del bambino fa da piedistallo all’amore del papà. E nulla è piccolo di ciò che è fatto per amore… L’eroicità è nella fiducia… Un atto d’amore vero, anche se sembra piccolo, è sempre un dare la vita, un posporre se stessi, vale di più di tutte le opere di questo mondo. “Neque volentis, neque currentis, sed miserentis est Dei”. Anche Chiara Lubich, come Teresa, così sottolinea l’eroismo della nostra fiducia nel collaborare con Dio “che ha creato te senza di te, ma non salva te senza di te”: “Tutta la sapienza della vita sta nel viver bene il momento presente.

Ma per attuare ciò occorre una grande confidenza in Dio. È necessario saper perdere nel cuore di Gesù ogni preoccupazione che ci assilla per qualcosa di passato o di futuro o di alcunché a cui Dio non vuole che ci dedichiamo direttamente nel presente. Per cui alle volte questa vita richiede un abbandono in Dio non sempre semplice, ma grande. E alle volte eroico. Ed è con questi atti eroici di confidenza che attiriamo l’aiuto divino e diretto su ciò che più ci preoccupa. Cosicché la vita risulta una continua comunione in due: l’anima che fa ciò che Dio vuole da lei nel presente; e Dio che opera ciò che l’anima lascia fare a Lui”.

 

 

Vivere il vangelo è la santità di tutti (universale) “via facile della perfezione”

“Qualche volta quando leggo certi trattati spirituali nei quali la perfezione viene presentata attraverso tante intricate difficoltà, circondata da una folla di illusioni, il mio povero, piccolo spirito non tarda a stancarsi. Chiudo il libro dei sapienti che manda in pezzi la mia testa e dissecca il mio cuore e prendo in mano il vangelo. Allora tutto mi diventa luminoso, una sola parola dischiude all’anima mia orizzonti infiniti e la perfezione mi sembra facile”.

Teresa in un periodo difficile della sua vita in cui cercava luce e vita dalla S. Scrittura e dall’Imitazione di Cristo… “Ma è soprattutto il vangelo che mi occupa durante le mie orazioni, in lui trovo tutto ciò che è necessario alla mia piccola povera anima; vi scopro sempre nuovi lumi, sensi misteriosi e nascosti… Comprendo e so per esperienza che il regno di Dio è dentro di noi. Gesù non ha bisogno di libri, né di dottori per istruire le anime; Egli, il dottore dei dottori, insegna senza rumore di parole. Non l’ho mai udito parlare, ma sento che Egli è in me, ad ogni istante mi guida e mi ispira quel che devo dire o fare. Proprio al momento in cui ne ho bisogno, scopro dei lumi che non avevo ancora veduto, e non è durante l’orazione che questi sono più abbondanti, ma è piuttosto in mezzo alle occupazioni della mia giornata”.

A nessuno sfugge l’importanza di questa confessione per scoprire la vera sorgente della spiritualità e della santità di Teresa. Dall’inefficacia di ogni altro libro viene messa in risalto la potenza irradiante particolarmente del vangelo. Teresa avverte la pienezza della Parola quando la vive e la lascia vivere in sé. Lei sa che vivendo la Parola è in comunione con Gesù: il Verbo di Dio. Quasi a universalizzare la santità della vita Teresa afferma che la parola di Dio vissuta si esprime ed opera nell’anima in libertà: risuona la sua vitalità non solo nel silenzio e nell’orazione tipica della carmelitana, ma anche nelle vicende della giornata e tra le attività proprie di ogni laico.

Scrive a Celina: “Osservare la Parola di Gesù, ecco l’unica condizione della nostra felicità, la prova del nostro amore per lui. Ma che cos’è mai questa parola?… Mi sembra che la parola di Gesù sia lui stesso, lui Gesù, il Verbo, la parola di Dio… Ce lo dice più avanti…pregando il Padre per i suoi discepoli…: Santificali mediante la tua parola; la tua parola è la verità. E altrove Gesù ci ricorda che lui è la via, la verità, la vita…Noi la possediamo la verità, noi custodiamo Gesù nel nostro cuore”. “La tua parola è luce ai mie passi”: Teresa sperimentava tanta luce e sapienza perché aveva la grazia di essere piccola e Gesù la circondava di attenzioni e la istruiva personalmente: “Ti benedico, Padre mio, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Così testimonia

Teresa: “Ah! Se dei sapienti, avendo passato la vita nello studio, fossero venuti ad interrogarmi, sarebbero rimasti certamente stupiti di vedere una bambina di quattordici anni comprendere i segreti della perfezione, segreti che tutta la loro scienza non potrebbe scoprire, poiché per possederli bisogna essere poveri di spirito”. La sua non è un’autoesaltazione, né orgoglio, è invece una testimonianza resa alla superiore efficacia e potenza della parola di Dio vissuta. Santità universale del “nulla è piccolo di ciò che si fa per amore”. Teresa lo afferma sapendo che la santità quando è fondata sulla parola di Dio vissuta nelle piccole azioni e nelle pieghe del quotidiano è una solida santità aperta a tutti e fondata sulla roccia. “Non chi dice, ma chi fa”.

 

 

La santità è frutto di Misericordia

“A me – dice Teresa – Egli ha dato la sua misericordia infinita, ed è attraverso di essa che contemplo e adoro le altre perfezioni divine. Così mi appaiono tutte splendenti di amore: anche la Giustizia (e forse più di ogni altra) mi sembra rivestita d’amore”. Il pensiero della Santa è molto preciso e significativo. Dio si vuole manifestare in lei in modo particolare nella perfezione della sua misericordia infinita. Ecco perché le comunica con particolare abbondanza la conoscenza, l’esperienza, l’esaltazione – cioè il messaggio – dell’Amore Misericordioso. Tutto ciò dimostra che nella convinzione di Teresa il mistero dell’Amore Misericordioso forma quasi la ragione di essere della sua perfezione personale e della sua missione nella Chiesa. Del resto, senza dover scendere nei molteplici particolari, questa affermazione viene confermata abbondantemente da molti fatti della sua vita e da tante pagine dei suoi scritti.

Si rivolge con riconoscenza alla sua priora che le ha concesso di offrirsi all’amore misericordioso: “Lei, Madre mia, che mi ha permesso di offrirmi così al buon Dio, lei conosce i fiumi, o piuttosto gli oceani di grazie che vennero ad inondare l’anima mia…Da quel giorno felice mi sembra che l’Amore mi penetri e mi circondi, mi sembra che questo Amore Misericordioso mi rinnovi, purifichi la mia anima ad ogni istante e non vi lasci nessuna traccia di peccato”.

Teresa esorta, tra riga e riga, direttamente e indirettamente, le anime a cogliere senza esitazione simile sovrabbondanza (“in casa di mio padre c’è abbondanza di pane e io qui muoio di fame”) e a non sottrarsi alla santità offerta dalla Misericordia. Sotto la luce di questa grazia ella comprese quanto l’amore di Dio sia sconosciuto, misconosciuto e respinto dagli uomini. Vuol far capire quanto soffre Dio a causa di quelle anime che, conoscendo l’impeto di questo amore, non si lasciano perdonare aprendosi totalmente all’effondersi delle sue tenerezze infinite. Sembra, a questa luce, comprendere meglio la supplica di Dio “lasciatevi riconciliare” e le parole di Gesù “c’è più gioia in cielo”.

 

a) L’amore previdente e preveniente di Dio: competizione con la Maddalena: “Chi è stato maggiormente perdonato di più, amerà di più”. “A me ha perdonato più che alla Maddalena perché per misericordia mi ha prevenuta nel sottrarmi gli ostacoli”.

 

b) L’amore riconoscente: se sono innocente, lo sono per una misericordia ancora più grande di quella della Maddalena… Come vorrei poter dimostrare che una vita innocente può amare di più d’una vita perdonata dalle colpe. Per questo motivo non è possibile che qualcuno sulla terra possa amare Dio più di me.

 

 

Santità è amare e lasciarsi amare nell’attimo presente e ricominciare nell’oggi

“Tu lo sai o mio Dio che per amarti non ho che l’oggi”. “Solo per oggi”. A proposito ricordo alcune righe: “L’amore vale se coniugato al presente. Che vale non aver mai amato, o temere di non poterlo più fare, se ora amo? Che vale aver sempre amato, o propormi di farlo in futuro, se ora non amo? Ciò che vale è amare nel momento presente: perché ciò redime il passato, prepara il futuro, consacra il presente. È vita eterna”. Chi vive bene l’oggi, il presente, sa e può ricominciare nella totale, eroica fiducia insegnata da Teresa .

Non guardare il tuo negativo, se non credendo all’amore misericordioso.

Non vedere la tua debolezza, se non come dimora della potenza di Dio.

Non lamentare l’altezza dell’ostacolo, se non come segnale dell’altezza del volo.

Non sottolineare la rovinosa caduta, 

se non per intensificare l’esercizio dei muscoli predisposti per rialzarti.

Non rammaricarti dell’abisso della tua caduta, 

se non per gioire della profondità abissale del cielo spalancato per te.

Non guardare la gravità della tua colpa, se non per ringraziare del dono dell’innocenza.

Non esaminare la tua miseria, se non per esaltare la Misericordia.

Non ricordare l’abiezione sofferta, 

 se non per godere degli onori che Dio-Padre ti fa al tuo ritorno a casa.

Non ricordare il senso dello sconforto, se non per aumentare la gioia di figlio di Dio.

Non dolerti della sconfitta, se non per gioire della fortuna di poter sempre ricominciare.

Non fermarti al vuoto in cui ti senti smarrire, se non per stupirti della pienezza del mare.

Non sottolineare la tua nuvola nera, se non per rallegrarti dei giochi di luce che essa ti offre.

Non guardare dove abbondò il peccato, se non per cantare che proprio là sovrabbondò la grazia.

 

 

Perché piccola, Teresa, è capace di Santità, folle, presuntuosa

Il pensiero di Teresa, lungo tutta la formula di consacrazione all’Amore Misericordioso, gira sempre attorno ad un’idea che esprime insieme il suo desiderio e racchiude il suo ideale di vita: la santità. Teresa sembra aver trovato la marcia giusta per vivere la santità del vangelo in tutta la sua folle radicalità. Teresa è come affascinata dal Volto di Gesù; non finisce mai di contemplarlo. Oltre alle sofferenze umane vi legge l’amore che supera ogni conoscenza, anzi sconvolge ogni ragionamento razionale. Così scrive la Santa in una sua lettera: “Il solo delitto rimproverato a Gesù da Erode fu quello di essere pazzo… E io la penso come lui!”. Teresa è portata dai suoi impetuosi desideri che le dilatano l’anima verso orizzonti illimitati. Confessa al Signore che quasi sragiona e parla di desideri e speranze “che toccano l’infinito”. Parla di tante vocazioni, così diverse e quasi contraddittorie che solo la bruciante fiamma dell’amore e del desiderio può conciliare e armonizzare. “Mi sento la vocazione di guerriero, di sacerdote, di apostolo, di dottore, di martire; infine, sento il bisogno di compiere per te, Gesù, tutte le azioni più eroiche”.

Sorpresa dai suoi impetuosi desideri, che le dilatano l’anima verso orizzonti illimitati, Teresa indugia a descrivere l’apparente inconciliabilità e insieme l’insaziabilità del suo ardore: “Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome e piantare la tua croce gloriosa sul suolo infedele; ma una sola missione non mi basterebbe, mio Diletto, vorrei annunziare il vangelo ad un tempo nelle cinque parti del mondo, e fino alle isole più remote”. Teresa soffre nei desideri più disparati di ciò che più l’attira: la testimonianza del martirio e scrive: “Ma anche qui sento che il mio sogno è una follia, perché non saprei limitarmi a desiderare un genere di martirio: per contentarmi mi ci vorrebbero tutti”. C’è da rimanere perplessi. Teresa avverte l’aspetto paradossale e sconcertante di questi desideri, di queste vocazioni; ma non ne può negare la presenza e non riesce a comprimere la pressione spirituale che esse esercitano nelle profondità della sua anima: “O Gesù, a tutte le mie follie che potrai rispondere?…Vi è forse un’anima più piccola, più impotente della mia?!…Tuttavia proprio a causa della mia debolezza, ti sei compiaciuto, Signore, di colmare i miei piccoli desideri infantili, e vuoi oggi soddisfare altri desideri più grandi dell’universo”. “Desidero farmi santa, ma sento la mia impotenza e vi chiedo, o mio Dio, di essere Voi stesso la mia Santità”. È certa di diventare santa (martire – olocausto) e… “chiedo di …lasciar traboccare nell’anima i flutti di tenerezza infinita racchiusi in Voi e così io divenga martire del vostro Amore, o mio Dio!”.

 

 

La santità di Teresa è “temeraria” perché è Gesù che vive in lei

In Teresa ci sono delle “anticipazioni” di esperienze profonde della santità nella vita cristiana. Una è quella della prima comunione che lei tratteggia anche con queste righe: “…Da lungo tempo Gesù e la povera piccola Teresa si erano guardati e si erano compresi… Quel giorno non era più uno sguardo, ma una fusione, non erano più due: Teresa era scomparsa come la goccia d’acqua sommersa nell’oceano. Restava solo Gesù; era il padrone, il re. Teresa non gli aveva forse chiesto di toglierle la libertà, perché la sua libertà le faceva paura? Essa si sentiva così debole, così fragile, che voleva unirsi alla Forza Divina per sempre”. Tanto che alla seconda comunione mi “ripetevo continuamente” le parole di S. Paolo: “Non sono più io che vivo, è Gesù che vive in me”. Non è un sentimento superficiale, ma espressione di una condizione “esistenziale” che dà senso e valore alla vita…

Un’altra esperienza fondamentale e decisiva per la vita di Teresa fu la “grazia del Natale” 1886, che ella chiama la sua conversione. La Santa sottolinea soprattutto la rapidità e l’irreversibilità del fatto e la magnificenza di quella notte luminosa. Per descriverla ricorre ad un episodio evangelico: “Il lavoro che non avevo potuto fare in dieci anni, Gesù lo fece in un istante, contentandosi della mia buona volontà, che non mi era mai mancata; io potevo dirgli, come i suoi apostoli: Signore, ho pescato tutta la notte senza prendere niente e, ancor più misterioso per me che con i suoi discepoli, Gesù prese lui stesso la rete, la gettò e la ritrasse piena di pesci… Egli fece di me un pescatore d’anime. Infatti provai un gran desiderio di lavorare alla conversione dei peccatori, desiderio non mai sentito così vivamente prima di allora. Sentii la carità entrarmi in cuore, il bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice”. È Gesù in lei che ha preso decisamente l’iniziativa. È Gesù in lei che ama se stesso nel prossimo che lei incontra. Significativo il comportamento di Teresa con Sr. Sampietro che tratta con tanti sorrisi. Teresa, piccola goccia, attirata e immersa nel torrente dell’amore di Dio, corre e travolge nella sua corsa tutti coloro che incontra. “Questo avviene – precisa Teresa – senza costrizione, senza sforzo, è una conseguenza naturale della sua attrazione verso di voi”– “Il vostro amore mi ha prevenuto fin dall’infanzia, è cresciuto con me, ed ora è un abisso di cui non posso sondare la profondità… Per amarvi come voi mi amate devo appropriarmi del vostro stesso amore, allora soltanto trovo riposo”.

L’essere di Teresa è ormai stato cambiato nell’amore di Gesù; ed è per questo che lei osa fare sua la più elevata preghiera sgorgata dal cuore di Cristo: la “preghiera sacerdotale” con la quale Gesù chiude la sua giornata terrena. Sorpresi con lei ci si domanda come ha osato Teresa far sua la preghiera di Gesù. Lei stessa dice a Gesù: “È forse temerarietà?… Ma no! Già da tanto tempo mi avete permesso di essere audace con voi. Come il padre del figlio prodigo al suo maggiore, mi avete detto: «Tutto quel che è mio è tuo». Le vostre parole, Gesù, sono dunque mie e posso servirmene per attirare i favori del Padre Celeste sulle anime che mi sono unite” – “Sono stupefatta di quello che ho scritto, perché non ne avevo l’intenzione; poiché ormai è scritto, bisogna che rimanga”.

 

 

La santità è nel massimo della Volontà di Dio: “amatevi come io vi amo”

Profondità misteriose della carità. È Gesù che ama se stesso presente nel prossimo. Così commenta Teresa alla sua priora: “Madre mia, Gesù alla sua figliola ha fatto la grazia di penetrare nelle profondità misteriose della carità; se essa riuscisse ad esprimere quel che comprende, ella udrebbe melodie celesti, ma ahimè! Io non so farle sentire che un balbettio infantile”. Fa capire che la santità è nel ricercare e compiere la volontà di Dio che si esprime nei suoi comandamenti. Ma Teresa vuol sottolineare che questa volontà si manifesta con particolare intensità nell’Ultima Cena, sigillata non solo con la divina Eucaristia, ma particolarmente con il comandamento dell’amore scambievole. Teresa annota la circostanza: “All’ultima cena, quando egli conosce che il cuore dei suoi discepoli arde di un più ardente amore per lui che si era dato ad essi nell’ineffabile mistero della sua Eucaristia, questo dolce Salvatore vuole dar loro un comandamento nuovo. Dice con tenerezza inesprimibile: Vi do un comandamento nuovo: è che vi amiate scambievolmente; e come io ho amato voi, vi amiate gli uni gli altri. Il segno da cui tutti riconosceranno che siete miei discepoli è che vi amiate scambievolmente”.

Teresa sottolinea e commenta che la forza e la novità dell’“amatevi” sta sul “come io ho amato voi”. È il comandamento suo, nuovo: non comanda di amare il prossimo come se stesso, ma come Egli, Gesù, l’ha amato e lo ama. Ma come può l’uomo amare gli altri come li ama il Signore? “So – dice Teresa – che non comandate niente che sia impossibile. Voi conoscete meglio di me la mia debolezza…e sapete bene che io non potrò mai amare le mie consorelle come le amate voi, se voi stesso, o mio Gesù, non le amate anche in me. … Mi è caro, poiché mi dà la sicurezza che la vostra volontà è di amare in me tutti coloro che mi comandate di amare.

È Gesù in lei che ama se stesso nel prossimo. Significativo il comportamento di Teresa con Sr. Sampietro che tratta con tanti sorrisi. Non è un amore naturale… ma soprannaturale. Anche con le sue sorelle: né simpatie, né antipatie, perché non è amore. Ma solo Gesù presente in loro la fa capace di amore universale: “L’hai fatto a me”. L’anima sicura di questa forza divina in lei, si incammina con generosità verso i traguardi anche i più eroici della carità. Teresa ci assicura che è Gesù che ama in noi.

 

 

La vocazione alla Santità è per tutti i fiori: “La Chiesa è un giardino di anime”

Vocazioni varie: modalità diverse dell’Amore. Teresa varie volte afferma che le diverse vocazioni sono vie diverse che Dio liberamente sceglie per le anime, volendo manifestare la ricchezza inesauribile delle sue perfezioni, comunicandole con variazioni, modulazioni molteplici alle anime che lui conduce alla santità. “Le anime sono il suo giardino”. “Aprendo il vangelo, gli occhi mi sono caduti su queste parole: Gesù, essendo salito su una montagna, chiamò a sé quelli che gli piacque, e vennero a Lui”.

Marco sottolinea che Gesù con l’iniziativa libera chiama all’intimità con sé quelli che a Lui piace chiamare e li fa partecipi della sua missione: “Ecco proprio il mistero della mia vocazione, della mia vita intera – assicura Teresa – e soprattutto il mistero dei privilegi di Gesù sull’anima mia”. Sembra voglia commentare S. Paolo: “Dio ha pietà di chi vuole e usa misericordia a chi Egli vuol far misericordia. Non è dunque fatica di chi vuole, né di chi corre, ma di Dio che fa misericordia”. Teresa considerando il mistero della chiamata si interroga sulle preferenze di Dio: “Perché alcuni santi si direbbero quasi forzati a ricevere i doni del Signore, altri siano stati quasi perseguitati dalla misericordia divina, altri circondati di tante cure, da impedir loro di conoscere ogni esperienza di peccato, alcuni venissero inondati dalla luce abbagliante della divina rivelazione, altri, come i poveri selvaggi, morissero in gran numero prima di aver neppure inteso pronunciare il nome di Dio”.

Anticipando la luce del concilio, Teresa formula una risposta: “Gesù si è degnato di istruirmi su questo mistero. Mi ha messo davanti agli occhi il libro della natura e ho capito che tutti i fiori creati da Lui sono belli, che lo splendore della rosa e il candore del giglio non tolgono nulla al profumo della piccola violetta o alla semplicità incantevole della margheritina… Ho capito che se tutti i fiorellini volessero essere rose, la natura perderebbe il suo ornamento primaverile, i campi non sarebbero più smaltati di fiorellini”.

Teresa ci distoglie dalla fatica del mistero e ci fa riposare lo sguardo su una Bontà e una Bellezza che crea con bontà, magnificenza e bellezza. “Così avviene nel mondo delle anime che è il giardino di Gesù. Egli ha voluto creare i grandi santi che possono paragonarsi ai gigli e alle rose, ma ne ha creati anche di più piccoli, e questi devono contentarsi di essere pratoline o violette destinate a rallegrare lo sguardo del buon Dio quando egli lo abbassa ai suoi piedi”.

Da qui la Santa conclude con un’affermazione che è il suo criterio di giudicare la santità: “La santità consiste nel fare la sua volontà, nell’essere ciò che Egli vuole che siamo”. “Ho capito che l’amore di Nostro Signore risiede tanto nell’anima più semplice, che non resista in nulla alla sua grazia, quanto nell’anima più sublime”. La preziosità non sta nel contenitore piccolo o grande, ma la sublimità è lo stesso contenuto divino. Tra i grandi personaggi…Dio “ha creato il bambino che non sa niente e fa udire soltanto deboli gridi, ha creato il selvaggio avente per sua condotta solo la legge naturale, e fino al loro cuore egli si degna discendere; sono questi i suoi fiori di campo, la cui semplicità lo incanta… Scendendo così, il buon Dio mostra la sua grandezza infinita”. Ecco come Teresa conclude il suo ragionamento: “…Così come il sole illumina ad un tempo i cedri e ogni singolo fiorellino, come se fosse il solo sulla terra”.

 

 

La santità è rivivere la sublimità e la normalità di Maria

Teresa coglie la grandezza e l’amabilità di Maria nella sua umiltà, nella piccolezza radicale della creatura. La sente talmente vicina che: “Piccola come sono, Maria, lo sai bene, anch’io come te accolgo l’Onnipotente”. Pensiero singolare di Teresa è che la sua anima può appropriarsi con ogni diritto quelle stesse virtù e quei meriti che fanno di Maria la degna dimora di Dio. Teresa afferma, non senza audacia, che “i tesori della madre appartengono anche alla sua figliola” – “Le tue virtù, il tuo amore non sono forse miei?”. La Santa spinge l’analogia fino ad affermare che quando Gesù, il figlio di Maria, si dona a lei nella comunione eucaristica, può credere di riposare in Maria.Sempre seguendo il vangelo, Teresa sente che non è impossibile seguire le tracce di Maria sulla via della perfezione. Teresa sa che il cammino è stretto e faticoso, ma sa pure che Maria lo ha reso visibile e percorribile praticando sempre le virtù più umili e nascoste: le virtù necessarie nella vita di ogni giorno.

Per Teresa il silenzio di Maria rivela la grandezza e onnipotenza di un’anima che non attende altro aiuto che quello dei cieli. Confida a Maria, vedendo Gesù nascere nella stalla, “Madre del Salvatore, come ti trovo grande in luogo sì povero” e non invidia gli angeli, perché “il loro adorabile Signore è mio fratello diletto”. Vede Maria camminare nascosta nelle virtù “negative”: silenzio, umiltà, senza apparenze… fra la gente semplice e senza valore… Il motivo, dice Teresa, è perché i poveri e gli umili sono tanti sulla terra, ed essi devono poter elevare gli occhi verso Maria senza alcun timore. “Per la strada comune, o Madre incomparabile, ti piace camminare, per guidarli al cielo”.

Quando Maria fugge in Egitto: “Gesù non è forse la patria più bella? Che importa l’esilio?… Tu possiedi i Cieli”. Quando Gesù definisce suo fratello, sorella e madre chi fa la volontà del Padre, Teresa afferma che Maria non solo non si rattrista, anzi si rallegra che suo figlio ci consideri della sua famiglia. Quando la contempla sotto la croce, dritta, “come un sacerdote all’altare” Teresa non ha timore di dirle: “Tu prodighi per noi tutto il sangue del tuo cuore”.

 

 

Le attese espresse da Paolo VI

“Sì, dall’esempio e dall’intercessione di Teresa, noi speriamo grandi grazie. Che i laici vi attingano il gusto della vita interiore, di dinamismo di una carità senza incrinature, senza mai disgiungere la loro opera terrestre dalla realtà del cielo. 

Che i religiosi e le religiose si sentano confermati nella loro donazione totale al Signore. 

Che i sacerdoti, per i quali ella tanto pregò, comprendano la bellezza del ministero al servizio dell’Amore divino. 

E che i giovani, dei quali la generosità o la fede oggi esitano davanti alla prospettiva di una consacrazione assoluta e definitiva, scoprano la possibilità e il pregio senza pari di una tale vocazione, accanto a colei che, non ancora quindicenne, desiderò fortemente rinunciare a tutto ciò che non era Dio, per meglio consacrare la sua vita ad amare Gesù e a farlo amare.

Ella non si è mai pentita – l’ha detto sul letto di morte – di essersi offerta all’amore. Dio Padre è fedele; l’amore di Gesù non inganna; lo Spirito Santo viene in soccorso alla nostra debolezza. E la Chiesa ha bisogno prima di tutto di santità”.