N.03
Maggio/Giugno 2016

La beatitudine del conflitto redento

I giovani: nel conflitto la profezia della misericordia

1. Il conflitto nel vuoto di vivere

Venerdì 4 marzo 2016: il giorno più nero di questi mesi. Ad Aden nello Yemen quattro suore di Madre Teresa vengono barbaramente massacrate alle 8,30 del mattino. Nello stesso giorno, presumibilmente nelle stesse ore, nel quartiere Collatino di Roma, dopo una lunga tortura e lenta agonia, il giovane Luca Varani viene ucciso da due “amici” per “vedere l’effetto che fa”, in un contesto raccapricciante di droga, alcool e sesso. E poi lo srotolarsi della triste scia di violenza e di barbarie con i fatti terrificanti che hanno insanguinato Bruxelles e Lahore durante la settimana santa. In tutte queste storie, giovani come protagonisti. La cronaca, come al solito, si è affrettata a fare un sacco di minuziose e morbose ricostruzioni, come è ormai in uso nella nostra società dello spettacolo. Noi ci chiediamo con angoscia che cosa può produrre tanta crudeltà e violenza e per di più in cuori che si stanno appena aprendo alla vita sul palcoscenico del mondo, come sono appunto quelli dei giovani. Non ci vuole molto a fissare la nostra attenzione e puntare il dito sul modello di cultura nel quale siamo immersi con tutte le dinamiche che muovono le sue spire e i suoi tentacoli. Un nodo cruciale che anche il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, ha indicato al Consiglio permanente della Conferenza episcopale il 14 marzo scorso: «Quali valori, quali ideali, quali capacità di raziocinio, quale idea di libertà e di amore, quale valore delle regole e della legalità stiamo presentando non solo come famiglia, scuola, chiesa ma come società nel suo insieme»1. Sono soprattutto due le linee che emergono preoccupanti e che risuonano nel cuore dei giovani con i decibel di un’eco lacerante e distruttiva: il modello di vita proposto dai media attraverso la “banalità” del male e il narcisismo ipertrofico di sé stessi. L’esistenza viene interpretata per lo più sulla falsariga di quello che i media ci dicono e ci invitano a realizzare. La rappresentazione mediatica dominante infatti martella e ci inchioda quotidianamente sulla “banalità del male“ con un’aggressività sguaiata, una violenza sfrenata, un conflitto intergenerazionale sommerso e perfido, un consumismo eccessivo. Tutte cose che formano il fondo più buio e per lo più incompreso della cronaca nera e che incidono in modo particolare sulle fragili menti dei giovani. Si dice che molta realtà mediatica riflette la realtà, ma è contemporaneamente vero che contribuisce in maniera decisiva anche a crearla.
L’altra linea emergente è quella di una società che non riesce a tollerare che le persone siano considerate perdenti, schiacciate dal destino. Una società che ci chiede immediatamente di essere sempre in grado di superare ogni dolore, ogni vergogna, perché altrimenti veniamo “scartati“. Un convincimento inconsapevole, ma che è penetrato a macchia d’olio nelle fibre profonde delle coscienze di tutti, dai politici, ai banchieri, ai leader di opinione, dello spettacolo e dello sport, a tutti, con il bisogno incontenibile di autopresentarsi sempre come i più bravi di turno, non importa se si risulta sbruffoni e sfrontati; con l’urgenza di mostrarsi sempre al meglio, perché nutriti di narcisismo ipertrofico, gonfio di sé.
È il prurito irresistibile di essere continuamente blanditi, applauditi, ammirati e lusingati come mamma pubblicità ripete continuamente: «Tu sei il più bello e il più forte». Così si crede di essere sempre meglio e di poter godere di tutti gli attimi fuggenti che devono essere imperdibili soprattutto con il consumo e l’approvazione degli altri. Tutto questo lo potremmo etichettare con “cultura del vuoto“, dei “lavori forzati“ del godimento con le giornate stipate di passatempi per sconfiggere il vuoto e la noia. Una voragine diabolica in cui si può insinuare di tutto. Infatti, se “si tira a campa’“ bastano buone dosi di cocktail di droga, alcool, sesso, esperienze of limits col rischio per la propria esistenza e per quella degli altri; se si osa sognare un mondo e una società diversa, si cade facilmente nelle spire del fondamentalismo religioso o da centri sociali, per lo più specializzati nell’istintualità distruttiva di quanto incontrano sul proprio cammino. In fin dei conti, non sono forse cellule cancerogene dello stesso corpo sociale, specie europeo laicista e decadente? Potremmo rovesciare tutto questo groviglio nel grosso contenitore del conflitto generalizzato, nel quale ci muoviamo ed esistiamo, che richiude ogni cosa nel disagio di vivere e che fa presa soprattutto fra i giovani. I flash di questa panoramica non vogliono essere mossi da uno sguardo cinico fatto insieme di indifferenza e di nichilismo e che cerca di tirarsi fuori nascondendosi sotto il tappeto del perbenismo, ma dal desiderio che non demorde di cercare un filo di Arianna per uscire dal labirinto e dal tunnel di questa cultura, per trovare un rinnovato alfabeto dell’umano e della comune umanità.

2. Un conflitto “generativo” o distruttivo?
Certo, la vita ci pone di fronte alle differenze ed è essa stessa, per molti aspetti, differenza che genera differenze. Siamo tutti unici e molteplici e ciò rende ogni relazione incontro o scontro e sempre in modo coinvolgente e impegnativo. È sempre una specie di scontro tra ciò che una persona o il proprio gruppo di appartenenza desidera e qualche altra cosa (un’istanza interiore, interpersonale o sociale) che blocca od ostacola la possibile realizzazione. Il conflitto è essenzialmente questo e si allarga su larga scala abbracciando conflitti di individuazione personale e di appartenenza; conflitti di interessi; conflitti di culture; conflitti di conoscenza tra teorie e modi di pensare diversi.
Nel linguaggio quotidiano con la parola conflitto intendiamo normalmente guerra e violenza. Eppure c’è da chiedersi se sono proprio impossibili un’intesa e una possibile cooperazione effettiva fra noi umani, pur all’interno di una situazione di conflitto. Di fatto, nella maggior parte delle nostre relazioni e della nostra esperienza sono la guerra e l’antagonismo a predominare. Le nostre emozioni aggressive possono portarci ad avvicinarci o a distruggerci a seconda di come le elaboriamo nelle nostre relazioni e di come ci educhiamo a vivere insieme agli altri. È ormai indiscusso che noi diventiamo noi stessi solo attraverso una fitta rete di relazioni con gli altri. E la distruttività umana sembra proprio collegata al modo in cui le nostre relazioni contribuiscono all’elaborazione della nostra aggressività. Esse possono sostenerci nella direzione della reciprocità, del dialogo, della buona elaborazione delle differenze con cui ci incontriamo e quindi dei conflitti; oppure possono intrigarci verso comportamenti distruttivi, che non tollerano le differenze, facendo vincere la paura di conoscere e di cambiare e inducendo quindi a fare prevalere l’uso della forza.
La scintilla dell’incendio distruttivo dei conflitti è per lo più determinata da una insufficiente conoscenza dei nostri comportamenti emotivi, affettivi e dei processi che stanno alla base dei nostri modi di agire. Per questo le luci e le ombre dell’anima devono essere guardate bene in faccia, devono essere comprese, se si vuole cercare di gestire i conflitti in modo virtuoso. È essenzialmente questione di coscienza e di conoscenza. Infatti la coscienza di noi stessi e del mondo è la condizione della nostra presenza e nello stesso tempo la via per la quale siamo sensibili in maniera virtuosa sia al nostro mondo interiore che alla realtà del mondo. È questo che crea l’attenzione al valore delle differenze a tutti i livelli. Occorre perciò superare il senso comune e l’immaginario, che considerano l’altro essere umano guidato principalmente da interessi egoistici da perseguire e difendere ad ogni costo a nostro svantaggio.
Quando parliamo di luoghi comuni non ci riferiamo a spazi di condivisione, bensì a modi di dire che condizionano poi modi di fare, che tendono ad emarginare chi e cosa non si condivide. Se cediamo al fascino delle generalizzazioni e si attribuiscono tutti i pregi (o i difetti) ad una realtà, senza pesi e misure critiche di positivo e negativo, si finisce presto per provocare una specie di cortocircuito sociale, per cui, ad esempio, l’esperienza, il senso della memoria, la rilettura del passato degli anziani cessano di dialogare con la creatività, l’audacia, la passione un po’ incosciente dei giovani. Ma così la società intera barcolla, priva di radici e di ali; diviene un mondo ostile di vecchi e di insoddisfazione per gli stessi giovani. È inutile illudersi: tutti i mezzi tecnici ed economici che abbiamo a disposizione, per quanto potenti, si rivelano inadeguati a gestire le relazioni e i conflitti, anzi li complicano, perché non c’è società pienamente umana senza dignità di ogni singola persona.
Occorre invece lavorare su più fronti (la conoscenza della propria persona, l’educazione della coscienza, il senso del bene comune, i grandi principi e valori della dignità umana…) nella consapevolezza dei propri limiti e fragilità e di quelli della società intera. Occorre in ogni caso esporsi in prima persona al “contatto”, al reciproco riconoscimento, alla capacità di accoglienza e di primo passo. Inoltre, creare le condizioni perché un problema di conflitto possa trasformarsi in una risorsa di crescita sia personale che sociale. Si tratta di individuare ciò che è foriero di morte per sradicarlo e di lì liberare le energie del rinnovamento.
Accogliere il conflitto e il suo valore generativo significa prestare attenzione alle possibilità della riorganizzazione delle situazioni che ogni relazione ci offre con nuove opportunità e una nuova creatività che supera l’indifferenza, l’anonimato e l’abitudine, proprio quelle cose che avvolgono la nostra società come una tela di ragno. Allora il conflitto, che tanta eco drammatica ha nel cuore dei giovani, non sarà forse e probabilmente un lacerante grido di aiuto per liberare se stessi, la vita, la società tutta dalla prigione contemporanea del vuoto? Ma per questo è necessario lo start up della misericordia.

3. Nel conflitto “generativo” la profezia della misericordia
Roberto Vecchioni nel suo ultimo libro, La vita che si ama. Storie di felicità, si chiede se la felicità così semplice, così inafferrabile, un sentimento o un concetto, che ti corre magari accanto all’esistenza, che talvolta la si incrocia per un istante, una giornata, un breve riposo, è davvero solo transitoria oppure può diventare una condizione stabile, un modo di affrontare la vita anche di fronte alle fatiche e ai dolori della quotidianità. E risponde con la sua esperienza, asserendo che lo spazio della felicità, quella duratura, non solo quella momentanea, sta nel tempo verticale, cioè quello che tiene tutto sotto un unico colpo d’occhio. Diverso dal tempo orizzontale che possiede solo un cerchio di felicità limitato immediatamente al momento dell’attimo fuggente2.
Qui non si tratta solo di ridurre il danno grande dello stato di conflitto in cui tutti siamo immersi. Sarebbe in ogni caso una ben misera riduzione. Si tratta invece di puntare al massimo guadagno da questa situazione conflittuale, per trasformare la nostra vita e quella degli altri in una rigenerazione inedita. E il massimo guadagno ancora sempre all’ideale. Lo sappiamo, sono gli ideali più che gli interessi a spingere avanti il mondo. Tuttavia la tentazione sempre ben appostata ad ogni angolo è quella di accontentarsi di fare una operazione al ribasso: ridurre cioè gli ideali alla misura delle offerte più gettonate della società, subendo l’ambiguità e l’equivocità delle mode. Mentre l’ideale della persona si riassume tutto nella sua vocazione, qualunque essa sia. È la posta in gioco del tempo verticale rispetto al tempo orizzontale, come sostiene Vecchioni. È su questo disegno misterioso che le grandi aspettative di Dio e quelle dell’esistenza di ogni creatura umana si devono incontrare e devono camminare insieme. Dopo avere navigato per nove mesi nelle profondità del grembo materno, questo sogno di Dio diventato persona viene traghettato nel mare e alla luce del mondo. Parte così l’iniziazione alla vita che avviene cammin facendo, continuando con il ritmo di un proprio viaggio.
E questo attraverso una serie incalcolabile di giravolte in avanti e in retrocessione, con ogni passo che agevola o contrasta il cammino personale e quello degli altri. La persona è una singolarità irrepetibile, ma l’umano resta strettamente comune. Quando perdiamo questo senso di relazione, la vita umana si imbarbarisce. Questo è l’imprint della iniziazione alla vita che ogni generazione deve comprendere. Una iniziazione quindi che viene decisa in base alla propria capacità di coscienza e di condivisione. Non si può comprare, non si può vendere, non si può affittare, non si può cedere: resta tua per sempre al di là che ti realizzi o ti distruggi. Uscire dal rifugio del proprio grembo e mettersi in cammino sulle strade degli uomini, imparando l’umano che è comune, ma in rotta verso l’ideale contenuto nel tempo verticale, come dicevamo. L’«I care» di Dio è straordinario nell’accompagnare passo dopo passo, anche se non ci si accorge della sua presenza. La vita nel tempo tra la nascita e la morte è iniziazione alla capacità di ricevere e condividere l’ospitalità misericordiosa del grembo di Dio. Lui ci offre tutto: esistenza, una quantità illimitata di possibilità, persino la rotta, accompagnamento compreso. Non solo, ma ci rimette continuamente in gioco dopo ogni sbandamento. A noi tocca, se lo vogliamo, costruire pezzo su pezzo e tratto dopo tratto questo percorso fra slanci del cammino, contraddizioni, lacerazioni, entusiasmi, sbandamenti, lacerazioni, tradimenti… nei riguardi sia della nostra esistenza che della convivenza con gli altri, fra diffidenza, aperture, vulnerabilità, contesto e persona, ospitalità e rifiuto, miseria e santità. Tutto questo fa parte del sistema umano, non è il fastidioso ingombro di un ritardo del percorso. Riconosciamolo: nessuno è puro e a posto. Tutti ci troviamo in qualche modo deficitari, ritardatari, traditori, in una parola peccatori. Solo lui, il Signore, è puro e santo, fedele a prova di croce e proprio per questo misericordioso. Uscire dal rifugio del proprio grembo, imboccando la via verticale della felicità, richiede di seguire la rotta di questa misericordia del nostro Dio e ristabilire così la civiltà della compassione verso se stessi e verso gli altri: una profezia straordinaria della misericordia, che smentisce di brutto le prospettive di vita reclamizzate dai prepotenti e parassiti della nostra società. Si crea in tal modo una mappa della misericordia fatta di passaggi e di stazioni come in un pellegrinaggio, per camminare con Dio e insieme a lui nei flussi del tempo.
Mi permetto allora, a conclusione di questa riflessione, di indicare almeno un passaggio e una sosta fondamentali, che daranno vita ai passaggi e alle tappe successive.
1) Lo diceva già Sant’Agostino: «Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità»3. È il passaggio fondamentale urgentissimo a cui avviare i nostri ragazzi e giovani. Condurli cioè, in qualche modo, al desiderio curioso di rientrare in se stessi e scoprire la meraviglia del proprio mondo interiore. Passare dall’ipertrofia del narcisismo esteriore, che ha bisogno di sentirsi al centro del mondo per poter dire di esistere, alla ricerca dell’interiorità, per scoprire il proprio cuore ricco e traboccante della misericordia di Dio, che ti fa sentire amato, rispettato e sognato prima ancora di pensare di essere qualcuno; sognato e “programmato” per diventare un capolavoro, con una mappa affidata alla tua libertà, depositata anch’essa nello scrigno del tuo cuore per realizzarlo. In tal modo è possibile educare la propria coscienza e passare da una fede di un cristianesimo formale all’incontro vivo con Gesù vivo.
2) Oltre questo passaggio strategico una stazione e una tappa che rinfranca: la profezia della misericordia è possibile da vicino, non da lontano. Occorre condurre i nostri giovani a fare esperienza dei luoghi dove l’umano è più schiacciato o manifesta tutta la sua debolezza: carceri, campo profughi, posteggi notturni di barboni e scarti della società, ospedali… Sono i “non luoghi” misconosciuti dalla società, che invece corre all’impazzata tra gli stadi e le piazze degli spettacoli, tra i locali del divertimento e i tour operator di vacanze. Accoglienza, rifiuto, indifferenza, compassione… da lontano e pour parler sono solo un pacchetto di retorica molto comodo di idee e chiacchiere. Ma il farsi prossimo concreto, a contatto vivo dove l’umanità più langue, infonde il gusto per camminare verso la tappa successiva. E allora arriva vincente la profezia della misericordia proprio per la mente, il cuore e le mani dei giovani. Ormai protagonisti anche in questo.
Mi piace concludere con una riflessione di papa Francesco che riassume bene queste poche pagine: «Molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande sfida culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione»4.

NOTE
1 A. Bagnasco, Prolusione ai lavori del Consiglio Permanente CEI, Genova, 14-16 marzo 2016, n. 5.
2 R. Vecchioni, La vita che si ama. Storie di felicità, Einaudi, Torino, 2016.
3 Agostino, De vera religione, 39,72.
4 Francesco, Laudato si’, n. 202