Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo
All’inizio del Seminario e all’interno delle celebrazioni eucaristiche sono state tenute alcune omelie: Mons. Benigno Papa, Arcivescovo di Taranto e Presidente tanto della Commissione episcopale per il Clero e la Vita consacrata della CEI quanto del Centro Nazionale Vocazioni; il Guardiano del convento di san Giovanni Rotondo, Fr. Gianmaria Cocomazzi; il Ministro provinciale dei Cappuccini di Foggia, Fr. Paolo Maria Cuvino; hanno offerto alcuni spunti di riflessione che vogliamo aggiungere alle splendide relazioni del Seminario. Le riflessioni sono state sbobinate dalla registrazione e non riviste dagli autori. Conservano i limiti ma anche la freschezza del “parlato” e per questo la Redazione le propone volentieri così come sono.
Omelia di Mons. BENIGNO PAPA
alla preghiera d’inizio del seminario
Consentitemi, fratelli e sorelle carissimi, di ravvivare la nostra fede nella presenza del Signore Risorto e l’eco dell’annuncio della risurrezione di Gesù: credo che non si sia ancora affievolita nel nostro cuore dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro. Siamo uniti nel nome del Risorto. Parleremo, nel corso di questi giorni, di crisi, e tuttavia il mistero che abbiamo poco fa celebrato ci rende certi della compagnia del Vivente, che non si stanca di guidarci sino all’ingresso nella nostra terra promessa. Vorrei davvero complimentarmi con il Centro Nazionale Vocazioni per la scelta del tema e per aver chiamato a raccolta tante persone che sono impegnate nel seguire la vita secondo lo Spirito.
Sono contento della scelta del tema perché non vi è esperienza di vita secondo lo Spirito che non conosca il suo momento di crisi; non vi è esperienza formativa che non conosca il momento del Getsemani, un’esperienza che coglie tutti. Un’esperienza della quale si accorgono in modo particolare le guide, quelle persone, cioè, che sono chiamate per loro specifica missione ad accompagnare una persona a vivere nella fedeltà all’azione dello Spirito. Sono contento perché il Centro Nazionale Vocazioni chiama a raccolta queste persone, perché oggi, lo sappiamo bene, i documenti, ma anche l’esperienza della vita, ci insegnano come non si possa fare a meno della figura del padre spirituale, come quella del padre o della madre spirituale sia una figura insostituibile.
Il Signore parla agli uomini attraverso gli uomini, e anche san Paolo, che è stato folgorato dal Risorto sulla via di Damasco, ha avuto bisogno di una persona che facesse luce sulla sua vita. Vedo nella chiamata a raccolta dei padri e delle madri spirituali proprio una manifesta volontà di dire grazie a queste figure, di esprimere tutta la nostra gratitudine a tali persone. Nei documenti pontifici, ma anche in quelli della CEI c’è un incoraggiamento costante verso la presenza e l’azione dei padri spirituali, delle madri spirituali. L’occasione è opportuna per manifestare la riconoscenza della Chiesa verso queste figure davvero importanti nel cammino formativo di una persona.
Dicevo che non c’è esperienza di fede autentica che non conosca il suo momento di crisi: dalla Genesi all’Apocalisse, dall’esperienza di Abramo all’esperienza di Gesù, dall’esperienza della vita dei santi di tutte le epoche storiche possiamo cogliere momenti, individuare situazioni che ci parlano di crisi. Di queste situazioni se ne parlerà credo a lungo nel corso di questo convegno. Non è facile individuare anzitutto l’origine della cosiddetta esperienza di crisi. Da chi proviene la crisi? Come nasce? A causa di chi una persona, ad un certo momento del cammino vocazionale, avverte la necessità di riflettere, di fermarsi un tantino, di domandarsi che strada prendere, se è giusto camminare in una direzione oppure camminare secondo un’altra direzione; fino a provocare una situazione di crisi?
Non è facile stabilire delle tipologie vocazionali, così credo non sia facile stabilire delle tipologie di crisi: ogni situazione, cioè, va presa, va considerata nella sua singolarità, proprio perché, come abbiamo poco fa avuto l’opportunità di riflettere, in ultima analisi entra in gioco la libertà di Dio e la libertà dell’uomo. Non è facile davvero individuare le matrici di una crisi: se una crisi proviene da Dio, se una crisi proviene dall’uomo, se una crisi proviene dal maligno.
Nel libro della Genesi si legge che la crisi (possiamo dire) di Adamo ed Eva nasce dal serpente; comunque lo si interpreti, quella figura è una realtà esterna a Dio, esterna all’uomo, e fa incursione nella storia della vita di due persone e le mette in crisi. E quella è una crisi radicale: se accogliere la propria condizione oppure se non accettare la situazione di creatura ed essere talmente orgogliosi da stabilire da sé le regole del bene o del male. Se non è facile stabilire le origini di una determinata crisi, così non è facile individuare la natura della crisi: crisi di fede; una crisi che, conservata la fede, mette in discussione la tipologia di vocazione sinora vissuta, crisi nella fede, cioè, (se il Signore lo chiama ad un’altra via, ad un’altra strada); ci sono storie di santi, di sante che in un determinato momento della propria esperienza religiosa avvertono fortemente di essere chiamati ad un’altra condizione di vita, sempre nella santa madre Chiesa, sempre all’interno della vita di fede, ma con un percorso vocazionale un po’ differente. Sono momenti difficili, questi, nei quali però si può individuare il dito di Dio.
A volte può accadere che una persona entri in crisi perché avverta dentro di sé anche tanta delusione, un’esperienza di delusioni che richiama forse delle illusioni, il momento cioè in cui, nel primo approccio vocazionale, si presenta l’esperienza di fede cristiana, o l’esperienza di tipologia religiosa cristiana, secondo determinati caratteri accattivanti, seducenti. Bisogna mettere in conto il realismo della vita di fede in un determinato rapporto. Quelle proiezioni che venivano anticipate nel momento iniziale della formazione, in un determinato momento vengono meno: si crea una situazione di crisi perché si avverte tanta delusione, che deriva da fatue illusioni.
La crisi – e qui entriamo nel tema specifico del nostro seminario – nasce dalla esperienza della sofferenza; dalla esperienza della sofferenza morale, dalla esperienza – diciamo noi, con una parola evangelica – della croce. È un momento davvero decisivo, cruciale, saper leggere una dimensione, direi, umana, una situazione storica comune a tutte le persone, ma una attenzione a volte che diventa specifica per qualche creatura, leggere tutto questo alla luce della fede, alla luce del vangelo, alla luce dell’esperienza di Gesù. Ho voluto dirvi con molta semplicità le ripercussioni che questo tema, così come è formulato il titolo, ha esercitato nei confronti della mia persona. La presenza della guida è davvero fondamentale e provvidenziale. La guida spirituale in questi momenti è l’angelo custode che accompagna una determinata persona verso i sentieri della luce perché quello che apparentemente sembra buio, in realtà si trasformi in una luce che illumina ulteriormente la propria vita.
Questi momenti di crisi vanno vissuti nella preghiera e nell’ascolto della parola di Dio, perché non è possibile uscire comunque dalla crisi se non si vive la crisi in un contesto continuo di preghiera e in un contesto continuo di ascolto della parola di Dio. Noi pregheremo, ascolteremo la parola di Dio, ascolteremo l’insegnamento di persone che hanno così tanta e importante esperienza di vita. Prego che trarremo vantaggio da un tema davvero così vitale per l’esperienza della nostra vita cristiana, per l’esperienza della nostra vita religiosa, vocazionale.
Perciò vogliamo invocare da Dio la benedizione su questo seminario, la benedizione di Dio su ogni singolo partecipante perché mai come in questa circostanza la Chiesa ha bisogno di tanta assistenza che proviene dal Signore, per cercare di far luce su situazioni cosiddette critiche, che sembrano scoraggiare. Da Giacobbe, il quale camminava zoppo dopo essere stato colpito, ho pensato un po’ al nostro direttore, ma soprattutto ho pensato a quell’espressione di S. Agostino: “Meglio camminare zoppi sulla via giusta, che camminare in fretta sulle vie sbagliate”. Il Signore ci illumini nel corso di questo nostro convegno.
Omelia di Fr. GIANMARIA COCOMAZZI
Eucaristia di Martedì 17 aprile su Gv 20,1-18
Il Guardiano ci ha offerto una commovente riflessione, familiare e profonda ad un tempo. Molti esempi di vita vissuta. Tra le cose che ha detto le seguenti sembrano identificare bene i contenuti centrali della sua meditazione. Ben volentieri anche in questo casa si lascia il “parlato”, immediato e vivace.
Ci ritroviamo in Maria di Magdala? Questo personaggio di nome Maria, ce l’abbiamo un po’ dentro? Ti senti un po’, dentro, una Maria che va in cerca di Gesù? Forse noi, prima di tutto ci sentiamo una Maria che piange e va in cerca. Non tutti i personaggi del vangelo sono stati chiamati per nome; se pensiamo: la mamma non è stata mai chiamata per nome da Gesù. Nel vangelo noi non troviamo mai che Gesù abbia chiamato la madre sua con il nome Maria. L’ha chiamata donna. Questa donna la chiama come un innamorato: “Maria!”.
Maria va in cerca del suo amato. Si rivive il Cantico dei cantici. È lui che la trova, che la chiama per nome. È talmente profonda questa chiamata che Maria si sente travolgere dentro. Adesso lo riconobbe. Noi diciamo “dalla voce”; ma più che dalla voce, dall’afflato affettuoso con cui questa donna andava in cerca. Queste due persone, Gesù e Maria di Magdala si compenetrano profondamente. “Maria!”. A lei dice che li precede in Galilea. Il Signore si manifesta agli apostoli, così come abbiamo ascoltato anche dal testo degli Atti. Gli apostoli cominciano a predicare e si convertono più di cinquecento, per essere battezzati. Questa è la storia della vocazione.
Vediamo perché il Signore ci ha voluto bene. Quando ero ragazzo ne combinavo di tutti i colori. Nel mio seminario eravamo quaranta. Sapete quanti siamo rimasti? Tre. Un quarto è deceduto questi miei compagni sono andati tutti via, ed erano, lo dico col cuore, più bravi di me. Come è successo? Perché il Signore a te ha detto fermati, ho bisogno di te e sei rimasto? Il Signore, arrivati ad un certo momento della nostra vita, davvero lascia liberi di andarcene per altre strade. Perché c’è un progetto, senza nostro merito.
Questa donna che va in cerca ed è premiata dall’incontrare Gesù. Questa donna che si mette in cammino (…c’erano brave donne a quel tempo, ma proprio questa…!) si mette in cammino e va dai discepoli. I discepoli manifestano delle titubanze perché era una donna ad annunciare questi fatti: una donna non era mai portatrice di un messaggio di salvezza. Noi siamo spesso stanchi, sfiduciati; parliamo di queste vocazioni, facciamo un buco nell’acqua; ci sentiamo così, maltrattati dalle risposte. Siamo come quella Maria che va in cerca e piange. Il Signore ne sceglie qualcuno. Siamo stati dei privilegiati.
L’operatore vocazionale non deve pensare alla quantità. È una domanda costante che mi fanno qui quando vengono al convento: Quanti siete? Io dico: Uno solo! Quello! (N.d.R. si riferisce a P. Pio, alla cui tomba la messa è celebrata).
La gente non viene per me, non viene per i miei frati, viene solamente per quello. Perché di noi ne dicono di tutti i colori: che chiediamo sempre soldi… Noi siamo, come si dice, maltrattati. Non solo noi frati di S. Giovanni Rotondo, tutti gli appartenenti agli istituti: preti, frati, monache, suore… tutti maltrattati! Nonostante questo il Signore ci mantiene. Ci mantiene perché da questi cocci lui saprà trarre qualche vaso buono.
Dobbiamo ringraziare il Signore. Io, quando vengono specialmente le coppie, dico: Chiedete al Signore, chiedete per mezzo di padre Pio una cosa sola: la perseveranza! Oggi noi siamo una società che non riesce a perseverare in nessun obiettivo. Si insinua sempre di più la convinzione che non ci si dona al Signore per tutta la vita. Prima si diceva “professione solenne”, “professione perpetua”, “sacerdozio che non si cancella mai” e cose del genere… Adesso si dice al proprio vescovo, al proprio provinciale: Senti un po’… Io stavo in crisi quando è successo quel fatto, tanti anni fa, non capivo gran che… Non ho più vocazione… Perché? Perché è un fenomeno tipico sociale del nostro tempo, quello di non perseverare. Allora, quando incontrate i ragazzi, non vi preoccupate del numero, ma inculcate nei ragazzi questo solo obiettivo: perseverare.
Omelia di Mons. BENIGNO PAPA
Eucaristia di Mercoledì 18 aprile su Lc 24,13-35
Fratelli e sorelle carissimi, possiamo leggere il racconto dei discepoli di Emmaus come narrazione di una crisi che, grazie all’incontro con il Risorto, viene felicemente superata. È il racconto di una crisi di fede che i discepoli sperimentano nella propria vita, che si manifesta nel fatto che lasciano la città santa, sono tristi, spenti. La morte di Gesù li aveva sconvolti. Erano stati sempre con lui. A differenza di Marco, l’evangelista Luca, nel suo vangelo è attento a farci capire che i discepoli, che gli apostoli non abbandonano mai Gesù nel corso della sua vita. Essi sono presenti dall’inizio fino alla fine. Sono insieme con Gesù; Gesù ricorda questa loro perseveranza: nel racconto dell’ultima cena, troviamo scritte soltanto in san Luca queste parole: “Voi siete coloro che avete perseverato con me nelle prove”. Stanno sempre con Gesù. Hanno avuto familiarità con lui, e tuttavia non sembra che essi siano riusciti a comprendere appieno il mistero della sua persona. La crisi da cui sono attraversati, è una crisi di conoscenza parziale che hanno di Gesù. Quanto sanno di lui corrisponde a verità, ma non hanno compreso appieno il mistero della sua persona. Per superare la crisi avevano bisogno di una conoscenza più approfondita, avevano bisogno di una illustrazione maggiore della sua identità. Il confronto tra quello che i discepoli dicono di Gesù e quello che il Signore risorto dice di sé, evidenzia questa diversa modalità di guardare al mistero di Gesù. I discepoli parlano di lui come di una persona potente in opere e in parole, come una persona dalla quale si attendevano la liberazione politica d’Israele. “Non bisognava che Cristo patisse queste cose, per entrare nella gloria?”. Non avevano compreso il disegno salvifico di Dio su Gesù. Avevano avuto una conoscenza parziale, imperfetta, erano stati abbagliati da alcuni aspetti, direi secondari, periferici, anche se rilevanti, ma il cuore dell’esperienza propria di Gesù, alla luce del mistero salvifico di Dio, era loro sfuggito.
Scoprono che cosa è la chiesa, allora tornano a Gerusalemme. E anche i rapporti tra di loro non sono più rapporti di amicizia, ma rapporti tra persone che sono animate da una vitalità: “discutevano tra di loro”. Il Signore risorto si rende presente come un catechista che spiega loro le Scritture, fa conoscere loro tutto ciò che le Scritture dicono di lui riguardo alla necessità salvifica, che Cristo doveva passare dalla morte per poter entrare nella gloria. La morte, da esperienza, da fatto che aveva creato nel Signore la morte diventa invece un evento luminoso, che permette ai discepoli di capire l’identità del maestro. Il fatto che la crisi viene superata gradualmente (“non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre ci spiegava le scritture?”) lascia pensare non ad una crisi improvvisamente superata, ma ad una crisi che viene progressivamente superata grazie alla forza, empatia conoscitiva illuminante della Parola di Dio, che trova il suo culmine nell’apertura degli occhi provocata dallo Spirito di Dio al momento della frazione del pane. Il superamento della crisi si manifesta nel ritorno alla città santa. I discepoli sono in grado di raccontare la propria esperienza. Ma il racconto della propria esperienza è illuminato dalla regola di fede che essi ascoltano appena giunti nel cenacolo: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone”. Che cosa dice questo brano evangelico compreso in una tale maniera per noi?
Pensiamo anche ad analoghe situazioni di vita che noi sperimentiamo nella Chiesa. Accade anche a noi quello che è accaduto ai due discepoli. Può accadere anche a noi di stare molto tempo nella Chiesa e avere dimestichezza con Gesù, di pensare di conoscere tutto di lui; può accadere che noi abbiamo tanta e tale familiarità con Gesù da pensare ormai di aver davvero penetrato nell’intimità del suo mistero. Ma forse anche noi, come i discepoli di Emmaus, siamo stati toccati soltanto da alcuni aspetti della sua persona, forse da quegli aspetti a noi più congeniali, più corrispondenti alla nostra particolare psicologia, più corrispondenti ai nostri particolari bisogni. Anche noi possiamo essere stati abbagliati da manifestazioni di potenza e di grandezza, aver visto in Gesù un profeta potente in opere e parole, e nella santa madre Chiesa non mancano situazioni, manifestazioni di potenza.
Possiamo anche noi essere attratti da una speranza di liberazione umana? Può accadere che, però, dopo anni e anni trascorsi in una certa familiarità con Gesù, noi in realtà non lo abbiamo capito, non abbiamo capito il disegno salvifico di Dio per la nostra persona, per la nostra vita. Perciò dobbiamo saper entrare nella totalità del mistero di Cristo, illuminare la totalità del suo mistero che è insieme di morte e risurrezione. Allora la nostra vita trova la pace. Cessiamo di discutere e litigare tra di noi. Cessiamo di guardare la Chiesa come una matrigna, ma la riscopriamo come madre piena di misericordia. Cessiamo di guardare il futuro con disperazione, guardiamo, invece, al futuro con speranza. Saremo capaci di raccontare quello che è accaduto in verità nella nostra vita, senza cadere in un fatuo esperienzialismo, ma lasciandoci anche noi illuminare nel nostro racconto dalla regola oggettiva della fede, che nel nostro brano evangelico è espressa in quella frase sintetica: “Cristo è davvero risorto ed è apparso a Simone”. Così, con l’aiuto della Parola di Dio, con l’aiuto della grazia sacramentale, possiamo personalizzare in profondità la nostra vita di fede. E quando avremo davvero raggiunto un’esperienza di fede fortemente personalizzata anche i nostri occhi riceveranno la luce e segneranno il passaggio dalla tristezza alla gioia.
Omelia di Fr. PAOLO MARIA CUVINO
Eucaristia di Venerdì 20 aprile su Gv 21,1-14
Il mare di Tiberiade è il luogo scelto da Gesù per manifestarsi ai discepoli come risorto, vincitore della morte, egli è il Vivente. L’esperienza della pesca miracolosa ha un significato e una valenza vocazionale: si rivela cioè emblematica e paradigmatica della comunità cristiana, per ogni cristiano e in particolare per ogni operatore vocazionale, sia sul piano dei contenuti che del metodo. In questo orizzonte interpretativo voglio proporre qualche riflessione a mo’ di flash.
Uscirono e salirono sulla barca, ma in quella notte non presero nulla. L’esperienza fallimentare degli apostoli rivela anzitutto una necessità e un urgenza: prima delle cose da fare e consumare, prima del mestiere e della professione dei mestieri, in una parola prima dei programmi, delle tecniche e degli strumenti, dei mezzi, in sostanza prima e prima di ogni cosa, urge affidarsi a qualcuno; necessita la presenza di qualcuno, del Risorto presente con il suo Spirito, che si affianca al nostro fare, ai molti programmi e ai molti servizi, iniettando nel nostro cuore, nelle nostre membra e nelle nostre vene fiducia, consolazione, dinamismo, entusiasmo, gioia, voglia di fare e di lottare, di andare avanti nonostante le delusioni, i fallimenti, le stanchezze, gli ostacoli e le difficoltà. Gli apostoli, esperti nella pesca, per una notte intera non prendono nulla. Attraverso il fallimento scoprono che devono affidarsi ad uno sconosciuto, per giunta inesperto nell’arte della pesca. A cosa e dove devono andare?: debbono gettare le reti sulla destra e troveranno. Se non vogliamo lavorare a vuoto è fondamentale mettersi alla scuola di un maestro esperto in tutte le arti, particolarmente in umanità. È fondamentale agganciare la nostra azione a qualcuno, a lui, alla sua presenza, al suo intervento. C’è il pericolo che quando ci riteniamo esperti e specialisti in qualche materia o in qualche settore, rischiamo di prendere delle cantonate, e di sbagliare clamorosamente i tempi, i modi e i mezzi. Rischiamo soprattutto di gettare le reti dalla parte sbagliata, di lavorare per lungo tempo e di non prendere niente.
Gesù, chiamati gli apostoli dice: “Vi farò diventare pescatori di uomini”. Dopo la risurrezione riceveranno il mandato di essere pescatori di uomini. Egli ha affidato loro un compito e una missione. Ci domandiamo: chi e cosa devono pescare? Perché, quando e dove devono pescare? Domande cui è facile rispondere. Sappiamo che gli apostoli fecero la loro parte in modo meraviglioso, sostenuti in questo dalla presenza del Risorto, dalla forza dello Spirito. Anche noi nel nostro tempo siamo investiti degli stessi compiti e della stessa missione. Nel nostro tempo siamo inviati e spinti a gettare le reti dentro questa storia, dentro questo mondo, dentro le attese, le domande, le speranze di questa umanità, amata e benedetta da Dio; aperta alla buona novella, purché sia tale. Nonostante il peccato, le miserie, le contraddizioni e le continue infedeltà, perché Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto per dare la vita in abbondanza. E questo compito si rende concreto attraverso la nostra collaborazione ed il nostro impegno, donando la vita e facendosi suoi strumenti. Bisogna però pescare nel nome e per conto di Gesù, per la sua causa? E per il regno di Dio, certi che lui è la pietra angolare, soltanto in lui e in nessun altro c’è salvezza.
L’esempio di Gesù mentre condivide il pane e il pesce con i discepoli, ci rivela uno stile basato sull’amicizia, sulla convivialità, cioè uno stile fatto di umanità e di coinvolgimento, di ascolto e di accoglienza, di comunicazione e di reciprocità vitale sul piano emotivo – affettivo. C’è un atteggiamento veramente empatico. Emerge tutto lo stupore, la gioia dell’incontro e della condivisione, fondati sull’amore e sulla gratuità di un dono: un po’ di pane e qualche pesce sono sufficienti a creare nell’uomo l’apertura del cuore e il miracolo del riconoscimento del Risorto: “È il Signore!”. E nostro compito insieme a quello personale è importante essere conviviali, offrire valori e significati immediati, dare un’anima e un dinamismo creativo in tutti noi.
Il beato Padre Pio per gli operatori vocazionali è un modello e un riferimento non sul versante del fare frenetico ed efficientistico, organizzativo, dei mezzi a disposizione e delle tecniche utilizzate, ma della testimonianza, fondata sull’amore, sull’offerta, sulla contemplazione, sulla direzione spirituale, sulla umanità, sulla fedeltà al progetto di vita consacrata incentrata sui consigli evangelici. Padre Pio non è andato in altri mari per prendere qualche pesce; magari in qualche mare più pescoso. Non si è mosso da questo Monte Gargano, un tempo quasi deserto, e lo ha reso fecondo. Senza muoversi, la sua pesca è stata abbondante. Quanti pesci piccoli e grandi! Varietà di qualità, alcuni eccezionali, fuori dal comune. Come mai? La risposta è in questa sensazione di fronte al Signore. Guardate: ne sfama uno a uno, crea in sé ogni altra pace, ma perché? Forse perché era un sapiente, un organizzatore, perché aveva mezzi a disposizione? No! Perché diceva messa umilmente, confessava da mattino a sera, – ed è difficile a dirsi – rappresentante stampato delle stigmate di nostro Signore. Egli era un innamorato di Gesù, di Cristo Gesù. Era il testimone visibile e tangibile di un amore incontrato e vissuto nella gratuità, e donato totalmente; un amore speso senza riserve, ed affetto pieno a 360°, nell’accoglienza, nell’ascolto, nella direzione spirituale, nell’eucaristia, nella preghiera, nel sangue versato per i vicini e per i lontani. Per noi è un modello, ci offre una visione sgargiante e una testimonianza unica per il nostro ruolo di animatori vocazionali. Egli gettava le reti dalla parte destra, e secondo la tradizione biblica significa benedizione. Conosceva tempi, modi e mezzi. Dio lo benediceva. Oggi – dicevo – continua a pescare e le reti della sua pesca sono piene.
Chiudo queste riflessioni con queste parole di Padre Pio: “Coraggio e avanti sempre; non stanchiamoci di fare il bene; se, infatti, non desistiamo, a suo tempo mieteremo”. Su tutti voi, sul vostro lavoro, chiedo la benedizione del Signore, del Padre san Francesco e del nostro beato Padre Pio, auspicando veramente una grande pesca anche per voi e ogni benedizione dal cielo.