Il cantico della Riconciliazione
È risaputo che nessuno riesce a vedere bene il significato di ciò che sta vivendo. A Taizé non abbiamo il distacco necessario per valutare la vita e l’opera del nostro fondatore. E lui sarebbe il primo a rifiutare l’appellativo “testimone di santità”. Nonostante ciò, è innegabile che tantissime persone, giovani e meno giovani, siano state rese attente al mistero di Cristo e della sua Chiesa attraverso un contatto, diretto o indiretto, con il fondatore di Taizé. In che cosa consisteva il suo fascino? Per tentarne un approccio, vorrei indicare qualche convinzione di base che, a mio avviso, ha segnato la vita di frère Roger.
La prima di queste è il primato della vita. Giungendo al piccolo villaggio di Taizé nel 1940, il giovane studente di Teologia, che si chiamerà più tardi frère Roger, era animato dalla convinzione che, affinché il messaggio di Gesù Cristo cambiasse il cuore degli uomini e animasse la società, erano necessarie non soltanto parole o idee, ma segni concreti o, meglio, una vita che diventasse segno. Egli era consapevole che in Europa l’esistenza di Gesù Cristo, del Vangelo, della Chiesa, non era ormai un segreto per nessuno, eppure questo non sembrava sufficiente a fare della fede una realtà viva. Mancava una dimensione concreta indicando che la fede non era soltanto un’ideologia o una teoria, ma una vita vissuta. Meditando sulle fonti cristiane, frère Roger era convinto che questa vita dovesse iniziare con un’esistenza in comunità, un gruppo di persone donate a Cristo e vivendo per questo motivo una profonda unità fra loro. Così frère Roger è stato portato a riscoprire l’antica tradizione monastica, sparita nelle Chiese della Riforma, adattandola per i nostri giorni.
- Non parole, ma gesti d’amore
Il fondatore di Taizé non aveva mai avuto molta pazienza con parole non incarnate in atti. Di fronte ad un problema cercava sempre un gesto concreto che potesse indicare una via di risposta. I cristiani non sono forse divisi in diverse confessioni, diminuendo così la credibilità e l’impatto del Vangelo? Cominciamo allora a vivere insieme e a condividere ciò che è possibile, preghiamo e lavoriamo insieme e, a poco a poco, una via di riconciliazione si aprirà. Le spiegazioni verranno in seguito. Il mondo non è forse diviso tra una moltitudine di poveri e un numero ristretto di persone che godono un benessere estremo? Rechiamoci allora in piccoli gruppi di fratelli nei paesi poveri per stare con la gente, non con una ricetta per risolvere i loro problemi, ma per tentare di capirli e cercare delle soluzioni insieme. Non ci sono forse delle situazioni d’ineguaglianza e di guerra che creano l’immigrazione e la miseria? Accogliamo allora nel nostro villaggio di Taizé delle famiglie prima del Portogallo, poi della Bosnia, del Ruanda, dell’Iraq… Inviamo dei camion pieni di viveri e di medicinali in Corea del Nord, nell’ex Jugoslavia…
Certo, lui sapeva che questi piccoli gesti non bastavano per cambiare il mondo, ma voleva far capire che le intuizioni che non entrano nella pratica, nell’esistenza concreta, non manifestano la fede in Cristo, perché questa fede non è una teoria, ma una vita. È la vita dello Spirito Santo dentro di noi che, attraverso noi, può trasformare il mondo che ci circonda.
È forse una specie d’ironia divina che quest’uomo, che cercava sempre gesti che parlano, ha finito la sua esistenza terrena in maniera “simbolica”, vittima di un atto di violenza. L’ultimo gesto attraverso il quale ha trasmesso qualcosa del Vangelo è stato la suamorte. Certo, frère Roger non aveva cercato né desiderato una morte violenta, solo l’idea l’avrebbe disturbato, ma, come ha espresso il priore della Grande Certosa: «Le circostanze drammatiche della sua morte non sono altro che un rivestimento esteriore che serve a mettere ancora più in luce la vulnerabilità di frère Roger, che lui ha coltivato come una porta per la quale, preferenzialmente, Dio può entrare in noi».
- Semplicità evangelica
Un secondo tratto della fisionomia spirituale del fondatore di Taizé, legato a quello appena evocato, è stato la semplicità, o meglio, l’essenzialità. Lungi discorsi su Dio o sulla Chiesa lo mettevano subito a disagio: preferiva le poche parole e i gesti che andavano diritto al cuore. Temeva tutto ciò che poteva fare schermo fra l’anima umana e Dio o il prossimo. Non è per nulla che il ricordo che molte persone hanno di lui è stato il suo sguardo, sguardo contemporaneamente di bambino e di anziano, pieno di tenerezza, che rendeva le parole quasi superflue. È significativo che ogni volta che rileggeva il testo di base che descriveva la vita della comunità, la Regola (chiamata più tardi le Fonti) di Taizé, lo abbreviava, togliendo ogni espressione che rischiasse di fuorviare. Allo stesso modo, voleva che durante la preghiera comune si leggessero di preferenza i testi biblici più essenziali, a costo di ripetere spesso le stesse letture. Pensava sempre ai giovani che magari venivano per la prima volta in chiesa e potevano essere urtati da parole troppo insolite.
Bisogna comunque aggiungere che questa semplicità in lui era tutt’altro che ingenuità innata o rifiuto di vedere la complessità delle cose. Al contrario, si aveva l’impressione che essa fosse frutto di una lunga lotta interiore, come appare da queste parole dalla prima edizione della Regola di Taizé: «Se tu non rimetti ogni cosa costantemente nelle sue mani, se tu non gli parli con la semplicità di un fanciullo, come fare, allora, a ritrovare un’unità in te, quando tu sei per natura inquieto o soddisfatto?». Si ha l’impressione che qui frère Roger ci stia rivelando qualcosa della sua propria vita interiore.
Un altro punto di forza dell’esistenza di frère Roger che vorrei mettere in rilievo è la sua persuasione che una strada privilegiata per trasmettere il mistero del Dio di Gesù Cristo sia quella dello spirito di misericordia o, per utilizzare un’espressione sempre più cara a lui, la bontà del cuore. Il testimone che ha confermato maggiormente questa scelta è stato il beato Giovanni XXIII, “il papa della bontà”.
- Un uomo dal cuore buono
Come ha detto l’attuale priore di Taizé, frère Alois, durante il funerale di frère Roger: «Frère Roger ritornava costantemente a quel valore del Vangelo che è la bontà del cuore. Non è una parola vuota, ma una forza capace di trasformare il mondo, perché, attraverso di essa, Dio è all’opera. Di fronte al male, la bontà del cuore è una realtà vulnerabile. Ma la vita donata di frère Roger è una prova che la pace di Dio avrà l’ultima parola per ognuno sulla nostra terra».
Il fondatore di Taizé sapeva che per molte persone, e specialmente per molti giovani, la strada verso la fede è ostacolata dall’immagine di Dio come un giudice severo. Sapeva inoltre che il cristianesimo ridotto ad un moralismo stretto non aiuta le persone ad aprirsi al messaggio evangelico. Per far riscoprire la fede come una buona notizia di liberazione, per frère Roger era dunque essenziale privilegiare la bontà del cuore e la semplicità. L’immagine che molti giovani hanno di lui è sicuramente quella di un uomo circondato da bambini durante la preghiera comune e di una persona a cui poter confidare ciò che pesava sui loro cuori e, negli ultimi anni, ricevere una semplice benedizione, la sua mano posta sopra il loro capo. Certo, come Papa Giovanni prima di lui, frère Roger non ignorava che la bontà potrebbe essere intesa da alcuni come ingenuità o debolezza, ma aveva fiducia nella potenza dello Spirito Santo che opera attraverso ciò che è debole agli occhi umani.
- Un’amore universale
Un’ultima convinzione che ha animato la vita di frère Roger era che il Dio di Gesù Cristo non esclude nessuno dal suo amore. Era profondamente convinto che, con il Cristo, una sorgente di vita veramente universale sia entrata nella storia umana. Egli amava ritornare a queste parole della Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II, parole riprese nella prima enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor hominis: «Per l’incarnazione Cristo si è unito ad ogni essere umano senza eccezione». Secondo lui, per essere veramente se stessa, la Chiesa doveva apparire come una famiglia universale, quella di Dio, e ogni forma d’esclusione non poteva che deformarne il volto. Perciò, il fondatore di Taizé si riferiva spesso all’ultima udienza con un altro pontefice, Giovanni XXIII, poco prima della morte del papa. I fratelli di Taizé cercavano dalla bocca del papa come un testamento spirituale sul futuro della comunità. Poi, facendo più volte gesti circolari con le mani, il Santo Padre precisò: «La Chiesa cattolica è fatta di cerchi concentrici sempre più grandi, sempre più grandi». Questa immagine dei cerchi concentrici, d’altronde, è stata ripresa dal Vaticano II nella costituzione dogmatica Lumen gentium, e da Paolo VI nella sua enciclica Ecclesiam suam.
Se frère Roger è sempre stato molto attento ai due grandi doni della Chiesa cattolica che sono l’Eucaristia come luogo di unanimità e il ministero di pastore universale, è proprio perché essi esprimono la vocazione della Chiesa ad essere non un gruppo ristretto, ma il sacramento universale di salvezza.
Qui tocchiamo il cuore della visione di frère Roger per quanto riguarda la vocazione ecumenica. Se la riconciliazione tra cristiani divisi per le sfortune della storia lo appassionava, ciò non era mai fine a se stesso, per essere più forte contro qualcuno, ma perché la Chiesa manifestasse veramente la sua identità come comunità universale, luogo dove tutti possono sentirsi accolti. A Taizé, questa vocazione ecumenica ha sempre significato in primo luogo l’accoglienza di tutti, senza porre condizioni preliminari. Nei primi anni questo voleva dire offrire ospitalità agli ultimi della società – le vittime della guerra, i profughi, gli orfani, i prigionieri. Più tardi è stata soprattutto l’accoglienza dei giovani, che cominciava in un momento in cui le nuove generazioni non erano prese sul serio nella società e nella Chiesa. Frère Roger invece, ricordando la sua gioventù, pensava che i giovani avessero qualcosa da dire e che avessero un bisogno vitale di essere ascoltati. Le parole che terminano il suo ultimo libro, pubblicato qualche settimana prima della sua morte, lo dicono bene: «Per parte mia, andrei sino ai confini del mondo, se potessi, per dire e ridire la mia fiducia nelle giovani generazioni». E questa fiducia è stata largamente ricambiata.
Misteriosa e completamente inattesa è stata la fine della vita di frère Roger, che ha reso tangibile la sua visione della Chiesa come luogo di comunione per tutti. A Taizé abbiamo vissuto un breve momento di sgomento quando una povera donna ha compiuto quel gesto malsano che ha tolto la vita al nostro fondatore. All’inizio della preghiera serale c’è stato un urlo infernale e cinque secondi di panico. Poi un frère ha intonato un canto, Laudate omnes gentes, e la liturgia ha ripreso come ogni sera, anche mentre portavano via il corpo di frère Roger. Da allora in poi la serenità non ci ha mai abbandonato. Come non vedere questo come un segno che la vita dello Spirito è più forte anche della morte, il canto della lode più potente del grido dell’odio e della paura?
Poi, nei giorni e nelle settimane seguenti, siamo stati consolati da tantissimi messaggi, visite e chiamate dal mondo intero. È come se per un attimo la morte di un solo uomo abbia reso tangibile una rete universale d’amicizia e di comunione, come un’anticipazione di quella Chiesa indivisa per la quale frère Roger ha sempre lavorato e infine dato tutta la sua vita.
Abbiamo visto con i nostri occhi che questa rete di comunione, questa famiglia universale di Dio esiste, non è soltanto un’utopia. Il nostro compito di credenti in questo nuovo secolo non è forse quello di trarne le conseguenze e di vivere in modo che la Chiesa di Dio sia sempre più chiaramente ciò che è nel più profondo di sé – un luogo di comunione e di pace per tutta la famiglia umana? Ciò facendo, rispondiamo sicuramente al desiderio che fu nel più profondo del cuore di frère Roger e che ha fatto di lui un “testimone della santità”.