N.03
Maggio/Giugno 1999

Le vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata nella prassi pastorale delle nostre chiese

Testo integrale della relazione introduttiva, tenuta da S. E. Mons. Enrico Masseroni – Arcivescovo di Vercelli, Presidente della Commissione Episcopale per il Clero e del CNV – all’Assemblea della CEI

 

Premessa

– La riflessione sulle “Vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata nella prassi pastorale delle nostre chiese”, pur distinta dalla tematica riguardante la pastorale giovanile, oggetto di studio nell’ultima assemblea generale dei Vescovi, ne continua tuttavia l’istanza di fondo nella prospettiva della vocazionalità, precisando ulteriormente l’impegno evangelizzatore della chiesa nei confronti delle nuove generazioni. Ma nel contempo dilata l’orizzonte perché, se è vero che l’adolescenza e la giovinezza costituiscono la curva evolutiva psicologicamente più recettiva e decisiva in ordine alle chiamate di Dio, è pur vero che la pastorale delle vocazioni comprende tutto l’orizzonte della vita e coinvolge tutte le persone nella comunità cristiana. Lo sguardo pertanto va alla prassi pastorale, e segnatamente ai cammini di pastorale vocazionale delle nostre chiese particolari, alle fatiche, alle risorse delle nostre comunità cristiane.

 

– Gli angoli di osservazione sull’orizzonte della pastorale vocazionale in Italia sono essenzialmente due: anzitutto il punto di vista dei Vescovi, frutto delle riflessioni condivise nelle regioni conciliari sulla traccia del documento del Congresso vocazionale europeo celebrato nel maggio del 1997 (le risposte sono pervenute da 12 regioni). Il secondo angolo di osservazione è il CNV che, come è noto, da molti anni mantiene contatti con le nostre chiese attraverso puntuali incontri con gli incaricati regionali, favorendo lo scambio delle esperienze, coltivando le grandi idee teologiche ispiratrici dei cammini vocazionali in Italia e promuovendo ogni anno convegni e seminari finalizzati alla formazione degli operatori vocazionali nelle nostre chiese.

 

– Tra le due letture non ci sono discrepanze di rilievo; ma semmai integrazioni, accentuazioni, domande differenziate, suggerite per lo più dai contesti culturali diversi da regione a regione. Soprattutto un dato sembra essere comune: la coscienza della sproporzione tra il lavoro profuso e i risultati raggiunti. In molti educatori particolarmente sensibili al problema vocazionale torna spontanea, non senza il tono dell’amarezza, la constatazione dei discepoli di Gesù: “Maestro abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,5). A fronte di questa consapevolezza non manca la convinzione che l’impegno vocazionale costituisca, per natura sua, la fatica meno gratificante delle nostre comunità, perché non si tratta di educare le persone e i giovani in particolare a decisioni “ad tempus”, bensì a scelte segnate dalla definitività. La stessa parola “vocazione”, al di là delle sue ricezioni approssimative o riduttive, evoca immediatamente una prospettiva che mette in gioco tutta l’esistenza. Di qui la rimozione del problema, delegandolo ad alcune persone disposte a gettare le reti nelle notti insonni. Per cui la domanda, più o meno esplicita, nelle diverse relazioni regionali e soprattutto negli operatori pastorali, è sufficientemente interpretabile: “È possibile sperare in un salto di qualità all’interno delle nostre chiese per quanto attiene alla pastorale delle vocazioni?”.

 

 

1. Oltre o dentro la crisi

– In realtà la parola “crisi” è latente o presente in modo esplicito nella coscienza delle nostre comunità ecclesiali; termine inflazionato e ambiguo, che diventa persino esasperato quando viene usato come categoria interpretativa dell’andamento vocazionale in Italia; soprattutto perché quando si parla di vocazioni la parola “crisi” viene coniugata con il diagramma del dato numerico. Sono in molti oggi a porre la domanda: “Custos quid de nocte?” (Is 21,11). Quanto manca per rivedere l’aurora? Non pochi infatti si chiedono se siamo ancora in mezzo al guado o se siamo già oltre. La risposta non può essere univoca. Di fatto l’andamento vocazionale è disomogeneo. Complessivamente, gettando uno sguardo disincantato sul quadrante delle statistiche, è da osservare da venti anni a questa parte una ripresa lenta ma significativa, per quanto riguarda le vocazioni al seminario maggiore e le ordinazioni sacerdotali. Tuttavia l’incremento numerico non è tale da pareggiare i vuoti lasciati dai presbiteri defunti o dalle defezioni (in forte diminuzione, queste ultime, in questi vent’anni rispetto agli anni immediatamente post-conciliari, ma tali da costituire motivo di riflessione, soprattutto in ordine al discernimento vocazionale). Così sono in crescita i diaconi permanenti e le vocazioni consacrate maschili e femminili alla vita claustrale. Mentre sono tuttora in calo le vocazioni alla vita religiosa apostolica maschile e femminile e gli istituti secolari. Quando si vuole esprimere una valutazione globale sull’andamento vocazionale, sembra di poter dire che segnali di qualche ripresa si esprimono in modo diseguale a seconda dei contesti ecclesiali. Non pare tuttavia che si possa stabilire una sorta di equazione: là dove si lavora corrispondono degli effettivi risultati; là invece dove manca un lavoro assiduo perdura la carenza vocazionale. È possibile invece constatare che ovunque ci sia una chiara inversione di tendenza nella ripresa delle vocazioni, soprattutto al ministero ordinato, c’è il supporto di una paziente e intensa opera di animazione vocazionale.

 

– Pertanto la domanda alla “sentinella” non è riproponibile esattamente nei termini detti, ma va opportunamente riformulata: “Come attraversare questa stagione che impropriamente va sotto il nome di crisi? Come affrontarla evangelicamente con lo sguardo di un sapiente discernimento?” Ci sono infatti modalità diverse per entrare nelle curve difficili o complesse della storia. Ciò risulta con sufficiente chiarezza dai contributi regionali e dalle testimonianze degli operatori pastorali, soprattutto quando si discorre del lavoro vocazionale nelle comunità parrocchiali. Di fronte alla crisi perdurante si avverte talora, soprattutto a livello di comunità religiose femminili, una sorta di colpevolizzazione: si vive con disagio, pensando che la penuria vocazionale sia un prezzo da pagare per scelte sbagliate o per gravi omissioni. In altri, soprattutto nei presbiteri, c’è l’attesa che la storia volti pagina e torni qualche stagione meno avara; sembra essere sottesa una visione un po’ fatalistica della storia, che ingenera passività, indifferenza, oppure immersione in attività pastorali forse più produttive sotto altri aspetti, ma non scevre da attivismo in cui la dimensione vocazionale risulta piuttosto censurata. In altri ancora emerge l’attesa, un po’ risentita, che la chiesa riveda talune sue antiche opzioni, che sarebbero decisive in ordine alla soluzione del problema delle vocazioni, soprattutto nella direzione del ministero presbiterale.

 

– In verità non mancano sollecitazioni ad usare con cautela la parola “crisi” e soprattutto a non interpretarla in termini puramente negativi. Perché a fronte del processo di contrazione numerica delle vocazioni al presbiterato, vanno crescendo nella direzione dell’ecclesiologia conciliare comunità cristiane più partecipate e più ministeriali; anche se la crescita del ministero diaconale e la partecipazione dei laici alla vita della chiesa non possono essere motivate dal venir meno dei presbiteri nella comunità, ma hanno da essere espressione positiva di una nuova coscienza ecclesiale e vocazionale. A fronte di famiglie religiose di antica storia che sembrano imboccare il lento viale del tramonto, è palese il fenomeno, per altro non inedito, del sorgere di nuove famiglie religiose e di nuove forme di vita consacrata. Soprattutto non mancano nelle nostre chiese comunità religiose maschili e femminili che lavorano con tenacia anche in questi tempi difficili; non mancano sacerdoti e operatori pastorali che remano contro vento per garantire l’esistenza stessa dei nostri seminari o delle comunità di formazione; e sarebbe ingeneroso non riconoscerne il merito. Insomma anche il prisma vocazionale, quale volto della chiesa postconciliare, suggerisce non tanto la categoria della “crisi” per leggere questo tempo, bensì quello della “complessità”, in cui risulta d’obbligo l’atteggiamento evangelico del discernimento aperto alla speranza. Senza dimenticare che anche i tempi ardui della storia, nelle sue svolte epocali, hanno un formidabile significato pedagogico per la chiesa e per le stesse vocazioni: soprattutto nella direzione di un radicalismo più parlante, di una sobrietà più credibile, affrancata dagli apparati che forse non dispiacciono a qualcuno, ma sono privi di mordente kerigmatico; nella direzione di una passione più trasparente che non ceda alla cultura della chiesa di Laodicea, richiamata da Gesù perché “né fredda né calda” (Ap 3,15); nella direzione di una chiesa più comunionale e ministeriale, capace di coinvolgimento e di partecipazione laicale sul fronte della comune missione.

 

 

2. Le risorse e le fatiche della pastorale vocazionale in Italia

La fatiche che oggi si osservano sul versante della pastorale vocazionale possono facilmente indurre una visione riduttiva e persino distorta delle scelte sotto il profilo del lavoro pastorale. Si registrano di più i problemi come sostantivi che non come aspetti di una realtà complessa con le sue sorprendenti risorse. Pertanto, prima di isolare alcune istanze problematiche e faticose dell’azione pastorale, non vanno dimenticati alcuni aspetti evocativi o chiaramente espressivi della ricchezza di questo tempo e delle nostre chiese in particolare.

 

1) Non a caso da più parti emerge l’invito ad uno sguardo sapienziale, più positivo, della stessa realtà culturale fortemente segnata dal soggettivismo. Ad esempio: se da una parte tale categoria induce a pensare all’uomo come tendenzialmente chiuso alla trascendenza e ad una visione dialogica della vita, e pertanto ad un io assuefatto alle domande deboli o spente, dall’altra richiede alla comunità cristiana e in particolare agli educatori che vi operano l’arte di suscitare le domande serie di fronte all’esistenza, soprattutto dei giovani. Se da una parte il soggettivismo pervasivo porta ad esasperare il bisogno di realizzazione personale, dall’altra non va dimenticata l’urgenza di una retta interpretazione di essa nella direzione dell’autotrascendenza evangelica piuttosto che in quella dell’autogratificazione immediata. Non pochi sollecitano a vedere le risorse esistenti, da incoraggiare o da assumere, soprattutto nella quotidiana fatica dell’evangelizzazione e dei cammini pastorali. Alcune sensibilità non sono mai spente sull’orizzonte giovanile, proprio in ordine ai valori vocazionali: come il desiderio di andare oltre le esperienze effimere, il bisogno di essenzialità, il desiderio di giocare la vita su modelli persuasivi oltre le misure mediocri, la capacità di riconoscere i testimoni e il desiderio di imitarne l’esempio, il bisogno di riferimenti e forse ancor più puntualmente il bisogno di paternità spirituale; ma soprattutto la crescente stima, tra i giovani, per la vita sacerdotale, consacrata e missionaria, e contestualmente la diminuita paura della ricerca vocazionale a tutto campo. La parola vocazione è meno intesa come unica ipotesi di futuro, ma piuttosto come prospettiva aperta, che sollecita piuttosto attenzione e intelligenza spirituale nel discernimento.

 

2) Un significativo incoraggiamento alla speranza viene poi dagli stessi giovani, che pure in questi tempi e in modo crescente approdano alle comunità seminaristiche o a quelle di vita consacrata, lasciando alle spalle una storia che racconta un’esperienza, intrisa di sacrificio e di lavoro assiduo e nascosto, di tanti silenziosi operai del Regno. Siamo tutti d’accordo nel costatare che permane la sproporzione tra i numeri di ieri e quelli di oggi, tra la fatica profusa e i risultati concreti. Ma non possiamo dimenticare che ogni vocazione è dono dello Spirito, sempre all’opera anche sui tornanti difficili della storia. Le risorse pertanto vanno riconosciute dentro l’orizzonte delle nostre comunità cristiane, dei movimenti e delle associazioni, dove effettivamente il discorso vocazionale viene fatto in modo esplicito, senza genericismi o reticenze.

 

3) Altra prospettiva promettente è la crescita, in tante comunità, di una vera autocoscienza vocazionale, in cui la vocazione viene già proposta ed accolta come “bella notizia” dell’evangelizzazione, perché richiama immediatamente la centralità di Gesù come Signore della vita e della storia e come persona che conferisce un senso pieno all’esistenza di ciascuno sino ad impegnarla totalmente per il Regno. Un segnale non poco significativo di questa autocoscienza comunitaria, quale mediazione necessaria di ogni dono dello Spirito, è la crescente partecipazione del popolo di Dio alla preghiera, come testimonianza concreta di adesione all’invito del Signore (Mt 9,38). Questo rapidissimo sguardo sapienziale sull’orizzonte vocazionale delle nostre chiese non ci impedisce di focalizzare le fatiche legate a questa curva di storia e sollecitanti una diversa attenzione pastorale.

 

4) Anzitutto la dilatazione dell’età evolutiva. Sembra infatti finita la stagione delle chiamate alle stesse ore della giornata nella parabola della vita. Tradizionalmente quasi tutte le vocazioni si collocavano entro l’arco dell’adolescenza; le comunità seminaristiche e religiose esprimevano un volto psicologico piuttosto omogeneo, i ritmi di crescita risultavano in qualche modo meno problematici. Oggi nelle comunità di formazione convivono i ventenni con i trentenni e sovente oltre. L’arcipelago di provenienza dei candidati al ministero o alla vita consacrata risulta assai variegato: per cultura, per esperienze di fede, per appartenenze e per cammini di discernimento. I problemi sottesi sono di grande rilievo, proprio dal punto di vista del discernimento vocazionale: il trentenne che approda al seminario nasconde una semplice logica di rimando della decisione vocazionale comune ai giovani del nostro tempo, oppure qualcosa di più serio? Insomma, la frantumazione dell’età evolutiva (adolescenza o giovinezza) come segmento privilegiato o momento favorevole per un progetto di vita, trascina con sé problemi inusuali di discernimento vocazionale e trova non raramente spiazzati le nostre comunità di formazione, le comunità cristiane e soprattutto gli stessi formatori.

 

5) La seconda fatica registrata nell’attuale svolta della pastorale vocazionale è identificabile nel passaggio dalle esperienze straordinarie (occasionali o periodiche) ai cammini feriali della pastorale ordinaria. La storia della pastorale vocazionale in Italia suole identificare l’ultimo ventennio di questo tempo postconciliare come il tempo di forti e creative esperienze pastorali. Forse non si è mai lavorato in modo così intenso per le vocazioni come in questi anni: constatazione, questa, ribadita anche durante il Congresso europeo per le vocazioni, soprattutto per quanto riguarda le chiese particolari d’Italia. D’altra parte le difficoltà del passaggio dalle esperienze ai cammini feriali sono avvertite soprattutto dai giovani, che il più delle volte dopo un corso di esercizi spirituali, dopo un’esperienza di preghiera e di condivisione in un clima totalmente diverso ed emotivamente coinvolgente, tornano alla routine quotidiana, rassegnati all’amara constatazione che altro è l’appuntamento straordinario e altro è la vita di tutti i giorni. La riscoperta dei cammini vocazionali dentro i normali solchi in cui pulsa la vita di fede delle nostre comunità è un’impresa ardua.

 

6) Una terza fatica della pastorale vocazionale, non senza connessione con quella precedente, viene riscontrata nel passaggio da una pastorale di élite ad una pastorale per tutti, dai CDV ai solchi periferici delle nostre comunità cristiane. Non raramente viene segnalata o denunciata una sorta di schizofrenia all’interno delle nostre chiese: da una parte non mancano gli esperti nel discernimento e nell’animazione in senso vocazionale, ma il loro lavoro si riduce entro gruppi ristretti di giovani in ricerca; dall’altra ci sono i giovani, ma senza punti di riferimento e senza educatori esplicitamente vigili e attenti alla vocazionalità della vita. Insomma da una parte esperti senza giovani, e dall’altra giovani senza guide attrezzate per il discernimento. Non mancano infatti i “bravi ragazzi” disposti ai molti servizi nelle nostre comunità. Ma la visione della vita come coscienza di un dono da mettere a servizio degli altri o come risposta ad una chiamata richiede il passaggio dall’essere bravi ragazzi all’essere apostoli con la passione per il Regno. Forse una delle cause concrete di tale difficoltà, verificabile entro il cammino della chiesa italiana, può essere ravvisata nella stessa modalità di proposta formativa messa in atto pure con grande dispendio di energie in questi anni, che in verità non tocca soltanto la pastorale vocazionale. I molti convegni che hanno caratterizzato l’ultima stagione della chiesa italiana hanno coinvolto una cerchia certamente significativa di persone delle nostre chiese (sacerdoti, religiosi/e e laici), ma oggettivamente un numero modesto di parroci, che sono i diretti responsabili dell’animazione sul campo. Pertanto i difficili traguardi della pastorale vocazionale restano le comunità parrocchiali e i luoghi concreti in cui per altro emergono domande di senso per la vita: come il mondo della solidarietà, del volontariato, della scuola e non meno i giovani periferici della stessa comunità cristiana. “Tutti i giovani quali soggetti e destinatari della proposta pastorale restano ancora un’utopia, prospettata a Palermo e ribadita a Collevalenza nell’ultima assemblea CEI.

 

7)  Il passaggio da una pastorale di reclutamento ad una pastorale unitaria. Una sorta di timore affligge talora non poche chiese e soprattutto le comunità religiose, al punto di provocare un lavoro pastorale più attento alla propria sussistenza che non alla comunione: da una parte l’affanno di qualche animatore (o rettore di seminario) preoccupato di ripopolare in modo più consistente le comunità seminaristiche; dall’altra la preoccupazione delle comunità religiose di aggregare nuovi soggetti. Per cui l’auspicata pastorale unitaria voluta da tutti i documenti magisteriali, a partire dal Concilio, corre tuttora il grave rischio di essere praticamente smentita. L’impegno di “tutta la comunità per tutte le vocazioni” corre il rischio di restare un principio solo enunciato. Lo stesso CDV, per altro formalmente presente quasi ovunque, non manca di debolezze strutturali: o perché chi ne è responsabile è oberato da altre precise incombenze, oppure perché c’è un avvicendamento eccessivamente rapido delle persone in questo servizio (che a detta di molti risulta meno gratificante di altri compiti in seno alle nostre chiese). Pertanto un ministero che avrebbe bisogno non solo di un po’ di entusiasmo giovanile, ma pure di una qualche esperienza, accumulabile soltanto con gli anni, viene di fatto in parte vanificato. Tale fatica dei CDV viene pure accentuata dalla tacita delega o autodelega, che non favorisce l’animazione della pastorale ordinaria. La fatica si acuisce per la non chiara collaborazione a livello progettuale con i centri di pastorale giovanile e con gli altri uffici pastorali della diocesi; anche se il clima di comunione è in crescita e viene ovunque desiderato ed auspicato da tutti.

 

 

3. I motivi teologici ispiratori della prassi vocazionale

Non si vuole qui riproporre una teologia delle vocazioni, bensì accennare alcuni punti di snodo che hanno ispirato la pastorale vocazionale in Italia ed hanno trovato espressione in alcuni documenti magisteriali: soprattutto nel “Piano pastorale per le vocazioni in Italia” del 1985 (Commissione educazione cattolica) nella “Pastores dabo vobis” (1992) e nel documento conclusivo del Congresso Europeo “Nuove vocazioni per una nuova Europa” (6.1.98).

 

1) “Ogni vita è vocazione”. L’espressione viene ripresa dalla “Populorum Progressio” (15) ed è stata sviluppata nell’intervento del Santo Padre nel contesto del suo saluto ai partecipanti al Congresso citato. L’affermazione richiama una duplice esigenza: diacronica e sincronica. La parabola dell’esistenza umana è contrassegnata da alcuni precisi appelli di Dio: la chiamata al banchetto della vita, come partecipazione alla pura gratuità dell’amore creativo di Dio; la chiamata alla fede, attraverso il battesimo, come partecipazione alla famiglia dei figli di Dio nella chiesa; la chiamata, nella chiesa, a testimoniare un preciso dono dello Spirito per condividere l’unica missione. Ed infine la chiamata ad entrare nel Regno compiuto, attraverso la partecipazione alla condizione del Risorto nella visione, oltre la fatica della fede. Ma, insieme, l’equazione “vita-vocazione” sollecita a vedere ogni dono particolare entro l’universale chiamata alla santità, che trova la sua sorgente nel battesimo. Non va dimenticato il forte significato di attualità e di aggancio di questa prima equazione, soprattutto in un contesto culturale in cui la vita è diventata un valore debole e secondario rispetto ad altri, con l’enfasi della libertà affermata sopra la vita stessa, divenuta valore a rischio. La nuova evangelizzazione non può eludere questo capitolo della vita come dono che sta alla radice di ogni altro dono, qual è ogni vocazione particolare nella chiesa e nella storia.

 

2) La struttura vocazionale della fede. Sta qui l’originalità dell’esperienza cristiana come incontro tra Dio e l’uomo, in un contesto di Alleanza e pertanto di amore, che prende l’iniziativa da Dio e sollecita la risposta coinvolgente della persona. Di qui la natura intrinsecamente progettuale della fede. Essa non è una proposta generica di valori e neppure un’etica dell’amore. La fede, tradotta in azione pastorale coerente, è proposta di un incontro concreto e decisivo con Gesù Cristo. Sta qui la peculiarità del vissuto cristiano in rapporto ad altri vissuti religiosi ed etici. L’incontro, quando è vero, prevede due reazioni dentro la fede: il riconoscimento di Gesù il Signore e l’auto riconoscimento del discepolo. È l’esperienza di Pietro e dei discepoli narrata dai sinottici. Pietro per un dono che viene dall’alto riconosce nel rabbi venuto da Nazaret il Signore: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). E Gesù, in riscontro, configura l’identità del discepolo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). Il lento e progressivo autoriconoscimento del discepolo è la necessaria conseguenza di un riconoscimento del Signore. Ciò interroga ogni operatore pastorale: perché sul versante della pastorale comunitaria giovanile in particolare, urge andare oltre un genericismo o una proposta parziale dei cammini di fede. Giustamente il piano pastorale per le vocazioni in Italia (1985) indica con chiarezza solare questa convergenza progettuale della fede: “La pastorale giovanile crescendo genera la proposta vocazionale specifica” (n 23).

 

3) Il dinamismo trinitario dell’evento vocazionale. “L’atto creatore del Padre ha la dinamica di un appello, di una chiamata alla vita” (“Nuove vocazioni per una nuova Europa”, 16). “Creandola a Sua immagine e conservandola continuamente nell’essere, Dio inscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è pertanto la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano” (Giovanni Paolo II, “Familiaris consortio”,11). In questa prospettiva l’uomo non può considerare la propria esistenza come casuale o cosa ovvia. Bensì come dono, come chiamata alla somiglianza con Dio; per cui la ricerca di senso dell’uomo come soggetto interrogante trova la sua piena espressione nell’amore, nella consapevolezza dell’essere amato per amare. E ciò diventa il clima vero della fondamentale relazione di filialità con il Padre e con i fratelli, celebrata nel battesimo. Diventa contesto esistenziale ed appello per una ricerca affettuosa della volontà del Padre: come per Gesù, il cui cibo era fare la volontà del Padre (Gv 4,34), come nella stessa preghiera dei figli nel Figlio: “Sia fatta la Tua volontà” (Mt 6,10) Ma il desiderio di vedere il Padre – “Signore mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8) – nella conoscenza e nell’amore, passa attraverso il Figlio: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Il Padre infatti ci ha creati nel Figlio, predestinandoci ad essere conformi all’immagine Sua (Rm 8,28). Pertanto se l’amore è il senso forte della vita, come somiglianza con l’amore creativo del Padre, tale progetto vocazionale per l’uomo si realizza attraverso la sequela sulle orme del Figlio e soprattutto si attua imitando il suo amore oblativo. È Cristo infatti il nuovo Adamo della storia redenta; è Lui il prototipo della nuova umanità, il modello di ogni vocazione, il contenuto di ogni progetto antropologico. La cristologia è il fondamento dell’antropologia. Ma nel mistero di Cristo c’è un aspetto fondamentale che ne definisce l’identità: Gesù è il Figlio mandato. La missione diventa così il senso pieno e forte di ogni vocazione cristiana. Forse è questo l’aspetto vocazionale da recuperare con maggior vigore e passione: l’essere “per”; il che evoca certamente il primato della comunione: l’uomo è chiamato “per” la comunione; ma ciò si attua attraverso l’essere “per” il Regno nel mondo, attraverso una missione. Se il battesimo è celebrazione della vita come dono, l’Eucaristia diventa celebrazione della vita come dono per gli altri, nella dinamica del “pane spezzato”. Ma alfine la vita realizza in pienezza la sua chiamata alla somiglianza con il Padre e il Figlio attraverso l’azione interiore dello Spirito. Il riconoscimento di Gesù come il Signore (1Cor 12,3) è possibile attraverso lo Spirito Santo: che è sorgente di ogni carisma nella chiesa (1Cor 12,4) e sorgente di quel dono di intelligenza spirituale che permette di riconoscere il carisma, per realizzarlo nella fedeltà sino alla sua pienezza nella santità. Di qui l’urgenza pastorale del primato della vita spirituale che è vita sintonizzata sull’azione misteriosa dello Spirito Santo, che è il respiro e il segreto per garantire alla stessa pastorale vocazionale un vero salto di qualità. Forse è il caso di dire che il miracolo di nuove vocazioni sarebbe una diffusa interiore adesione all’azione dello Spirito: la corrente di santità.

 

4) Il dinamismo antropologico della vocazione. Non è assente nel magistero ecclesiale una sorta di preoccupazione a riguardo delle vocazioni: smentire una filosofia della vita che opponeva l’uomo a Dio. Il pregiudizio culturale infatti, indotto dal pensiero del secolo scorso e divenuto modo comune di pensare, era che Dio condizionasse la libertà dell’uomo. Non a caso, secondo Feuerbach nel suo libro “L’essenza del cristianesimo”, la scelta di Dio significava un no alla vita, un’esistenza tarpata; donarsi a Dio significava il prezzo di un’irrealizzazione umana. Pertanto l’affermazione dell’uomo esigeva la negazione di Dio. Recentemente non è più così, ma resta comunque l’opportunità culturale di accentuare il rapporto tra antropologia e cristologia; tra interrogativi universali dell’uomo e rivelazione di Dio nella storia e nella vicenda personalissima dell’uomo. Ciò non inverte i termini del dialogo vocazionale: non è l’uomo che chiama Dio, ma è Dio che ha messo nel cuore dell’uomo le domande cruciali circa il senso del vivere e del morire, ed è ancora Lui che, chiamando ad una vocazione particolare, si offre come la risposta vera alla domanda di realizzazione umana. Di qui l’arte pedagogica degli educatori per suscitare o liberare le domande profonde che troppo sovente stanno nascoste nel cuore della persona e dei giovani in particolare; domande che sollecitano silenzio, ascolto e preghiera per accogliere gli appelli di Dio nella vicenda imprevedibile di ciascuno.

 

5) Il dinamismo ecclesiologico dei doni dello Spirito. Ogni vocazione nasce in un contesto preciso, concreto: la comunità ecclesiale, la quale ha una struttura profondamente vocazionale, perché segno di Cristo missionario del Padre, “perché segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1) e per questo “mysterium vocationis” (PdV 34). “Pertanto ogni vocazione, come scelta stabile e definitiva di vita, si apre in una triplice dimensione: in rapporto a Cristo ogni chiamata è ‘segno’; in rapporto alla chiesa è ‘ministero’; in rapporto al mondo è ‘missione’ e testimonianza del Regno” (NVNE 19). Pertanto entro il dinamismo ecclesiale, in cui va colta la solidarietà delle vocazioni, tutte necessarie e tutte relative, va interpretato il rapporto tra il ministero ordinato del vescovo e del presbitero e tutte le altre vocazioni. Il ministero ordinato costituisce “la garanzia permanente della presenza sacramentale di Cristo redentore in diversi tempi e luoghi” (Giovanni Paolo II, Christifidelis laici 55), e pertanto fa essere la chiesa soprattutto attraverso l’Eucaristia “culmen et fons” (SC 10). Ogni altra vocazione nasce nella chiesa e fa parte di essa. Di qui il corretto rapporto tra il ministero ordinato e tutte le vocazioni, nonché la traduzione concreta del principio: “tutta la comunità per tutte le vocazioni”. Il presbitero celebrante dell’Eucaristia fa essere la comunità ed è chiamato a costruirla promuovendo tutti i doni dello Spirito, e in particolare quelli che accentuano il dinamismo profetico della chiesa, le vocazioni alla vita consacrata. Non esiste infatti una comunità a-vocazionale. D’altra parte si giustifica una concreta attenzione di tutta la comunità verso il ministero ordinato, perché deve in qualche modo garantire il proprio esserci, il proprio futuro. Pertanto la preoccupazione del vescovo o di una chiesa per il proprio seminario non ha soltanto una giustificazione contingente, legata ad una stagione piuttosto avara di candidati al ministero, bensì trova una sua precisa motivazione ecclesiologica.

 

 

4. Per un “salto di qualità” nella pastorale vocazionale delle nostre chiese

Un oculato discernimento, sulla recente storia della pastorale delle vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata, sembra indicare il salto di qualità nella prassi vocazionale in alcune direzioni precise: che da una parte tendono a superare questa lunga fase esperienzalistica, per altro non infruttuosa; dall’altra sembrano esprimere insieme una garanzia di efficacia maggiore per il futuro. Le prospettive pastorali qui indicate non hanno pretesa alcuna di risultare scelte miracolistiche, soprattutto se prese singolarmente; possono invece disegnare un tessuto di fede pedagogicamente fruttuoso, se interpretate sincronicamente all’interno delle nostre chiese. Forse spetta al ministero del Vescovo prevedere e prefigurare all’interno delle nostre comunità cristiane quel progetto sufficientemente organico che su tempi non brevissimi possa garantire il maturare di nuove vocazioni. Qui vengono disegnate sei opzioni pastorali aperte all’approfondimento e all’integrazione con il contributo di tutti.

 

1) Anzitutto la mediazione insostituibile della comunità cristiana, la parrocchia. In essa si specchia la “chiesa madre di vocazioni, perché le fa nascere al suo interno con la potenza dello Spirito, le protegge, le nutre e le sostiene. È madre, in particolare, perché esercita una preziosa funzione mediatrice e pedagogica” (NVNE 19). La comunità cristiana è il luogo concreto in cui i credenti partecipano della comune dignità dei figli di Dio attraverso il battesimo e maturano quelle vocazioni particolari che “insieme” esprimono il volto della chiesa come comunità dei doni dello Spirito. La cura della comunità cristiana non qualifica la pastorale come generica proposta di vita secondo l’etica dell’amore, bensì chiede attenzione puntuale alle persone, perché siano aiutate a discernere il loro modo preciso e concreto di testimoniare la sequela di Cristo. La vocazionalità pertanto è un problema di tutti nella comunità, e richiede una sapienza evangelica della vita, da impostare, secondo Dio e con gli occhi della fede, oltre i criteri puramente orizzontali delle convenienze umane. L’opzione per la comunità cristiana – la parrocchia – si concretizza nella corretta e rispettosa attenzione ai luoghi pedagogici della fede: i gruppi, le associazioni e i movimenti, da non ignorare come tavole fuori testo, ma da assumere come strumenti di quei cammini di fede in cui prendono corpo gli itinerari vocazionali. Le comunità parrocchiali pertanto vanno rese opportunamente consapevoli che le vocazioni non vengono solo da fuori, quasi fossero un diritto acquisito talora da lunga data; bensì devono entrare nella logica della reciprocità dei doni, nei contesti vitali della chiesa particolare. Ci sono infatti parrocchie che da parecchi decenni non esprimono più vocazioni per la chiesa, ma sono semplicemente abituate a “ricevere”. Il più delle volte sono comunità afflitte dalla patologia della chiesa di Laodicea. La sfida dunque per un salto di qualità nella pastorale delle vocazioni sollecita questo auto-coinvolgimento di tutte le nostre comunità parrocchiali. Di qui le due fondamentali caratteristiche della pastorale vocazionale: la coralità e la popolarità. Il problema vocazionale va riportato sul terreno giusto, nei solchi periferici delle nostre chiese, in cui è urgente l’apporto di tutti, in cui la gente, e soprattutto il popolo della domenica, va aiutato ad entrare nella logica del dono: le vocazioni sono da accogliere, ma pure da favorire per farne dono ad altre comunità. Insomma le vocazioni sono un problema di chiesa di popolo, luogo di annuncio esplicito di tutte le vocazioni, oltre un discorso sovente generico. Nelle nostre chiese non vanno poi sottovalutati i luoghi-segno della vocazionalità della vita, come il seminario e le comunità di vita consacrata, onde non avvenga che la gente si accorga della loro esistenza soltanto quando vengono meno.

 

2) Una seconda opzione pastorale è la testimonianza del primato assoluto dello Spirito attraverso la preghiera incessante. Nella strategia pastorale di Gesù, di fronte alle urgenze del Regno risultano chiare due indicazioni: da una parte la preghiera e dall’altra l’iniziativa della chiamata per nome. In verità la preghiera risulta l’impegno crescente e più caratterizzante delle nostre chiese sul fronte della pastorale vocazionale. In non poche diocesi sta allargandosi a macchia d’olio la presenza del “monastero invisibile”, iniziativa di origine francese, che coinvolge in una preghiera permanente, notte e giorno, un po’ tutte le categorie di persone: sani e ammalati, giovani e adulti, consacrati e laici. Senza dubbio questa presenza nascosta costituisce un movimento promettente quale antidoto del secolarismo pervasivo. Anche questo fa parte di quella risorsa non quantificabile, che senza eco di notizia alcuna, è certamente in sintonia con l’indicazione di Gesù di fronte alla messe matura. La preghiera, soprattutto a livello di famiglie e di giovani, fa nascere una cultura della preghiera: quella che favorisce una visione non solo orizzontale della vita, ma verticale; quella che immette negli affanni del vivere quotidiano il respiro della gratuità e fa spazio al protagonismo insostituibile dello Spirito, affrancando la prassi pastorale da un pragmatismo ambiguo, gratificante e sterile insieme.

 

3) Nella comunità diventa urgente la testimonianza del primato dello Spirito nella vita dei chiamati al ministero ordinato e alla vita consacrata. Tre aspetti, tra loro connessi, sembrano connotare il nostro tempo: da una parte, ormai da lunga data, sembra dissolta nella società in genere la considerazione dei preti o dei religiosi come appartenenti ad uno “status” appetibile. È diffusa invece la consapevolezza che la scelta di accedere al ministero ordinato e alla vita consacrata sia contro corrente e persino desueta, al punto da far notizia. E risulta sovente scoraggiata, per non dire fortemente ostacolata, soprattutto a livello di famiglia. In genere, pure a livello giovanile, viene riconosciuto che una scelta della sequela è una scommessa impegnativa, di fronte alla quale viene facile la tentazione di defilarsi. D’altra parte emerge con evidenza il protagonismo dei testimoni, che diventano punti di riferimento soprattutto tra i giovani. I testimoni dicono con la vita che la scelta dell’essere preti o consacrati non è solo impegnativa, ma è bella. Essi aiutano il difficile passaggio: dal timore al fascino per una vita giocata su ideali alti. In terzo luogo, gettando uno sguardo nel solleone del secolarismo, non è difficile ravvisare una domanda: quella di “personalità spirituali forti”. Forse per un bisogno di identificazione in un contesto culturale di diffusa psicolabilità, dicono gli psicosociologi. Ma forse soprattutto per un bisogno di modelli, di santità, quale strada indicata da Gesù per lo stesso annuncio evangelico: “ (Voi) mi sarete testimoni” (At 1,8). Non è poco interessante, infine, raccogliere qualche direzione verso cui sembra esprimersi la nostalgia di testimoni o di profeti, soprattutto nel ministero sacerdotale o nei consacrati: pare di poter dire che i giovani dimostrano di apprezzare il segno della fraternità tra i presbiteri (la solitudine risulta una reale controindicazione vocazionale), fraternità che non consiste solo nello stare insieme per condividere la fatica pastorale, ma in una visibile appartenenza ad un presbiterio. I giovani dimostrano poi di apprezzare i valori umani e spirituali dell’ascolto, dell’accoglienza, della gioia, della sobrietà, della dedizione senza calcoli, dello stare tra la gente. Va pure nella stessa direzione il segno della vita consacrata perché esprima con significativa evidenza la sincronia del carisma nella dimensione fraterna, orante e missionaria. Un dato è certo: che nessuna strategia di pastorale vocazionale può sostituire l’insignificanza del testimone.

 

4) Nella comunità cristiana va riconosciuta la grazia dei cammini vocazionali. Certo non è possibile immaginare una pastorale vocazionale “popolare” senza riscoprire il dinamismo dei molti percorsi che attraversano l’essere e l’operare della comunità celebrante i misteri di Dio nel tempo degli uomini. Si tratta di itinerari che si configurano come sentieri dentro la grande scuola permanente di fede qual è l’anno liturgico. Come Gesù infatti nella sua esperienza storica, attraverso la quotidiana frequentazione con i dodici li ha fatti crescere nel discepolato, così la celebrazione dei misteri di Cristo fa crescere un progetto di vita secondo le esigenze della sequela, a partire dall’avvento come tempo della speranza, alla Pentecoste come dono per la missione. Ma occorre coglierne i contenuti, la grazia, atti a suscitare risposte di vita, stimolata a crescere secondo la “misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,13). Gli itinerari poi di cui si parla sono quelli classici, scanditi dalla parola di Dio, dalla catechesi, dalla liturgia, dalla preghiera, dall’annuncio del vangelo nella testimonianza della carità. Non a caso è attorno e dentro queste esperienze di vita cristiana che sono fiorite non poche vocazioni nel recente passato. Naturalmente la caratteristica dei cammini vocazionali prevede la motivata fedeltà personale ai ritmi sovente faticosi di una comunità cristiana, oltre il facile entusiasmo per esperienze episodiche emotivamente coinvolgenti. Con questi percorsi possono coniugarsi sapientemente altri cammini: soprattutto quelli che si instaurano a livello personale nella direzione spirituale o quelli, peraltro già sperimentati in ambito diocesano, per un discernimento vocazionale doverosamente più specifico.

 

5) Nella comunità cristiana è decisiva la cura della mediazione educativa, con particolare attenzione al ministero del presbitero per una sapiente pedagogia della proposta. Sia il magistero, sia l’esperienza di questi anni stanno a indicare in questa opzione pastorale il segreto forse decisivo per il rifiorire di nuove vocazioni nelle nostre comunità. Quando si parla di mediazione educativa si intende pure la famiglia, i catechisti, non senza particolare attenzione alla ministerialità della donna. Ma soprattutto nella comunità cristiana è determinante il ministero del sacerdote, il “coltivatore diretto” di ogni vocazione. D’altra parte, a testimonianza di molti, la genesi di molte chiamate registra questa presenza: di un prete che ci ha interrogati, affascinati ed ha rappresentato la mediazione concreta della pedagogia di Gesù. Ancora in tempi recenti, in molti sacerdoti ed educatori perdura una sorta di equivoco, che in realtà ignora il dinamismo della chiamata e la sapienza della proposta. Ciò si concretizza nel “silenzio vocazionale” o nell’attesa che siano i giovani ad esprimere il desiderio di una possibile ipotesi di vita sacerdotale o consacrata, nella sottile illusione di non condizionare la libertà per lasciarla dispiegare a tutto campo. Oggi insomma è diffusa la prassi dell’autocandidatura. In realtà il silenzio vocazionale, l’assenza di una proposta positiva condanna la libertà a soccombere e a cedere ai modelli egemoni, che di fatto si impongono con una forza umanamente irresistibile. Ora il dinamismo della chiamata non si esprime attraverso il desiderio dal basso di seguire Gesù: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16), bensì sempre attraverso l’iniziativa di Gesù. Sta qui l’originalità del discepolato cristiano. Pertanto la dinamica della chiamata si attua, oggi, attraverso la chiesa madre di ogni vocazione e garante di ogni risposta e si fa concreta soprattutto attraverso il presbitero, guida della comunità e promotore di ogni vocazione. La sapiente pedagogia della proposta non significa invitare un giovane ad entrare in seminario o una giovane a varcare la soglia di un monastero; bensì vuol dire proporre ai giovani un cammino di discernimento del progetto di Dio, che può attuarsi nella direzione spirituale o in un gruppo di ricerca vocazionale; significa personalizzare il dialogo con i giovani oltre una pastorale di gruppo o di comunità. Soprattutto, ma non in modo esclusivo, con quei giovani in cui risultano emergere dei segni “oggettivi” che lasciano presumere un’ipotesi di vita al servizio a pieno tempo per il Regno. La personalizzazione dei rapporti non significa ovviamente soltanto la riscoperta della direzione spirituale, che sovente richiede una reimpostazione della vita stessa del presbitero, ma suggerisce un’immagine di prete tra la gente, tra i giovani, capace di ascolto e di dialogo, capace di suscitare domande sovente censurate dalla cultura della distrazione, capace di diventare mediazione, con la parola, della Parola di vita.

 

6) Nella chiesa diocesana va sapientemente previsto il servizio del CDV in raccordo con la pastorale giovanile. Alcuni nodi pastorali vanno comunque risolti da questo servizio pastorale, voluto del resto dallo stesso Concilio. Esso non è pleonastico all’interno del coordinamento pastorale degli uffici delle nostre chiese e tale da essere accollato come terzo o quarto impegno per un presbitero.  Il CDV non ha solo lo scopo di promuovere quelle iniziative che possono aggregare i giovani per esperienze positive ma occasionali; esso ha il compito di animare la vocazionalità diffusa nelle nostre comunità, promuovere la formazione dei formatori, animare i cammini specifici per il discernimento vocazionale ed elaborare un programma di pastorale vocazionale con l’apporto e in rapporto con gli uffici pastorali, in fruttuosa e sapiente collaborazione con la pastorale giovanile. Non va infine dimenticato che la natura stessa della pastorale vocazionale richiede non solo entusiasmo giovanile e pertanto una certa freschezza per una relazione costruttiva con le nuove generazioni, ma pure esperienza, capacità di comunione a tutto campo per operare con profitto; e ciò richiede pazienza e tempo, ed esclude pertanto un’eccessiva rapidità negli avvicendamenti delle persone a ciò incaricate.

Per concludere: sono dunque sei le priorità pastorali di cui ogni chiesa particolare è chiamata a farsi carico, per favorire il salto di qualità da tutti auspicato, possibile solo attraverso la fede nel primato assoluto dello Spirito, il primo animatore vocazionale sempre operante nella chiesa di Dio.