N.02
Marzo/Aprile 1996

Formazione al presbiterato e pastorale vocazionale

Tutti i giorni nella mia comunità ottanta giovani dai venti ai trent’anni si interrogano sulla loro vocazione, si preparano al ministero presbiterale e coltivano il desiderio che anche altri possano accogliere questo dono. La loro vita è assolutamente normale e tuttavia nasconde qualcosa di prezioso. I nostri discorsi e le nostre attenzioni spesso ritornano al problema: dove conduce questa avventura della fede? E questo desiderio di essere del Signore in mezzo alle comunità cristiane ci ritroverà adeguati, pronti, umili, segno di un vangelo che non si logora, speranza per noi e per i nostri fratelli? Così si formano i preti di domani e insieme, verificando la loro vocazione, ci interroghiamo su una più generale pastorale vocazionale in ordine al ministero ordinato. Nascono alcune considerazioni, serene, pacate, e tuttavia sono considerazioni che non rinunciano a guardare con attenzione a quello che ci sta davanti.

 

Il cambiamento delle comunità

Se l’esperienza della fede nella preghiera e nella carità è mantenuta vivace non ci sono dubbi sulla verità e sullo splendore del Vangelo, ci sono invece molte riflessioni sulla Chiesa, precisamente sulla configurazione delle comunità e, al loro interno, sulla concreta modalità di vivere il ministero ordinato. La convinzione è che tutto questo non è irrilevante per una pastorale vocazionale. Si sa che la vocazione nasce dalla fede, dalla fede dei singoli e dalla fede di una comunità; anzi la vocazione è proprio l’espressione della concretezza della fede. È il modo concreto e singolare con cui ciascuno vive la sua fede. Si deve perciò trovare nella esperienza della fede, così come viene vissuta o non viene vissuta, il primo luogo di verifica di una pastorale vocazionale. Non è però questione di tecniche o di propaganda, è qualcosa di più fondamentale. La trasformazione dei vissuti di fede nelle comunità trasforma le dinamiche e gli esiti della pastorale vocazionale. È cambiata la Chiesa, sono cambiate le comunità, è cambiata la pastorale vocazionale, è mutato il numero, la qualità, i percorsi individuali che conducono al germinare di una vocazione. Tra fede, prete, comunità e vocazione esiste una circolarità insopprimibile. Non sono staccati tra loro questi elementi: si tratta di pensare il tutto, e il tutto insieme; diversamente la logica che si assume diventa troppo stretta e le indicazioni che ne possono derivare sono poco lungimiranti; alla fine l’insistere su una dinamica parziale risulta distruttivo, frustrante, luogo di lamentazioni infinite.

La formazione al ministero e la pastorale vocazionale diventano perciò prevalentemente la questione di una Chiesa che sta cambiando. Dal momento che il ministero – specie quello ordinato – rappresenta uno degli elementi molto strutturanti una comunità, si deve dire che uno sguardo sulla strutturazione pastorale delle comunità e della loro esperienza di fede può dire molto circa la pastorale vocazionale e la formazione al ministero. Questo sguardo ci conduce a vedere una Chiesa che, restando solida in tutto ciò che rappresenta e si configura come profezia di vangelo, tuttavia si presenta tendenzialmente come un insieme di comunità in forte destrutturazione. Una bassa marea delle istituzioni tradizionali più capillari. I mass-media ancora raffigurano e ingigantiscono il particolare, ma le situazioni locali, le parrocchie, le forti istituzioni ecclesiastiche degli ultimi due secoli stanno subendo una grossa bassa marea, raccolgono meno, hanno minore autorità, perdono di competenza, faticano ad essere presenti nel contesto sociale con ministeri credibili su ampia scala. Fa male vederlo ma non si possono chiudere gli occhi. Le figure e i modelli ministeriali, i loro compiti, le loro occupazioni, si presentano con un’insufficienza e una debolezza maggiore: partecipano ad un’indeterminatezza che influisce certamente su coloro che cercano modelli convincenti sui quali costruire la loro vita e concretizzare la loro fede.

Si vuol dire che una certa destrutturazione della Chiesa, a prescindere dalla verità del vangelo, influisce fortemente sulla non emergenza di una popolazione giovanile disposta a determinati ministeri. I modelli non sono più convincenti, se a torto o a ragione non importa, ma di fatto è così. Perciò riflettere sulla pastorale vocazionale significa oggi prevalentemente tre cose: tener conto della destrutturazione di una Chiesa, considerare la profondità di convincimento dei vissuti spirituali in atto e la possibilità di esibire esistenze ministeriali credibili. Le conseguenze sono semplici da dire e difficilissime da mettere in pratica: prima, è necessario riconsiderare il rapporto con il territorio e le istruzioni, che non può più essere quello del passato; questa operazione non è indolore. Secondo, solo la presenza di intensi vissuti spirituali permetterà un’abbondante, non smisurata, emergenza di vocazioni particolari; e questo comporta una seria considerazione sulla bellezza e creatività spirituale che può avere un cristiano semplice, segnato solo dal battesimo. Terzo solo l’esistenza di preti credibili, contenti, maturi, non dispersi su questioni marginali di recupero della istituzione possono attrarre a sé altre esistenze. Si tratta di precisare in concreto gli atti e i vissuti del ministero ordinato. Chi si sente chiamato a questi vissuti diventerà prete e non altri. Il ministero ordinato diventa meno generico, e quindi inevitabilmente verrà individuato più tardi nella vita. Altre scorciatoie finiscono per essere patetiche o volontariste, consegnate alla fatalità di una decadenza più che al vangelo.

 

La cura della fede

La pastorale vocazionale e anche la formazione più specifica al ministero ordinato si pone perciò innanzitutto, sia nelle comunità parrocchiali come nelle comunità del seminario, soprattutto nei sui tratti più introduttori, come preoccupazione per la cura della fede. I grossi slanci maturi verso il ministero e le crisi più considerevoli partono e arrivano sempre lì. Certamente poi c’è tutto il capitolo sulla verginità e sul celibato, ma il nucleo fondamentale è la fede nella configurazione ministeriale di una chiesa. A dire il vero, da qualche tempo, mi pare emerga con maggiore consapevolezza la domanda ministeriale della fede: è il problema dell’obiettiva consistenza, della reale credibilità e della convincente figura del ministero. Ma prima di tutto sta sempre la fede, nella forma particolare di chi si chiede se il ministero oggi e propriamente e principalmente a servizio della fede e non di altre più deboli incrostazioni. Se si vuole favorire una pastorale vocazionale è necessario perciò costituire delle comunità di fede, segnate dalla preghiera, da una comunicazione profonda e da una reale carità, sia in seminario come e soprattutto tra la gente. In questo senso mi pare superata un’eccessiva attenzione tecnica ai percorsi seminaristici, perché lì è già stato fatto molto: verrebbe da dire con un’immagine che più dell’arredamento bisogna occuparsi della casa. L’attenzione va posta alle comunità giovanili, ad uno stile di convivenza, ad un amore generoso per i poveri, ad un’esperienza radicale di preghiera, ad una sincera passione per la sofferenza e per lo smarrimento psichico delle persone. Tutta questo è la “liturgia” necessaria, che non ci deve essere tolta mai.

All’interno di questa prospettiva, che al momento sembra non soddisfare appieno perché lascia gli operatori tecnici del settore piuttosto depauperati da un loro intervento immediatamente specifico e produttivo, è necessario valorizzare molto le istituzioni più generalmente pedagogiche della tradizione cristiana. La pastorale vocazionale in ordine al ministero ordinato non è più innanzitutto un problema dei seminari: il seminario può essere un monitor sul quale si leggono gli impulsi che vengono o non vengono da più lontano. Lì certamente si raccolgono, si strutturano, si fanno crescere, si portano un po’ più avanti nella loro maturazione, verso un’esistenza ministeriale, la quale troverà il suo assetto ancora e soltanto nel concreto e contraddittorio vissuto delle comunità e nel mondo. La cura della fede in ordine alla vocazione chiede oggi delle attenzioni particolari. Indico brevemente alcune di queste prospettive che i ragazzi invocano per chiarire se stessi, alimentare il senso del loro futuro, sostenere la loro preghiera.

È necessario innanzitutto – in una comunità giovanile come anche all’inizio del seminario teologico – spiegare l’umano, cioè togliere le persone dalle loro confusioni, mettere un po’ d’ordine tra pensieri, sensazioni, sentimenti, emozioni, tensioni idealistiche, inevitabili frustrazioni; bisogna favorire la costituzione di abitudini buone in un contesto storico che privilegia l’attimo all’habitus. Una pastorale vocazionale va coltivata nelle famiglie e nelle comunità cristiane come riqualificazione delle possibilità della vita, come emancipazione dai miti della cultura contemporanea, come valorizzazione della libertà, come purificazione e altezza delle possibili forme dell’amore. Quello che oggi deve far pensare è anche il fatto che è scarso il numero delle vocazioni, ma soprattutto il fatto che oggi è debolissima tra i credenti la considerazione che la vocazione al sacerdozio costituisca una possibilità credibile di pienezza di vita. Non è che non ci sono i ragazzi che vanno in seminario; molto di più non c’è la convinzione sul valore della possibilità che un proprio figlio vada a farsi prete. Questo può significare almeno due cose: o che è debole la fede, o che non è credibile la modalità concreta del ministero. Probabilmente entrambe. La pastorale vocazionale deve intervenire qui. Nei prossimi anni ci sono molte preghiere da dire e molto lavoro da fare, prima di aumentare il numero dei seminaristi. Questo non è per nulla scoraggiante, se uno lavora bene.

Un’altra attenzione pedagogica indispensabile è certamente quella di trovare i linguaggi per far percepire la grazia. Quella grazia che crea e custodisce il futuro, quella grazia che garantisce l’identità di una persona, raccoglie il suo negativo, la riconcilia con se stessa, la perdona, la propone per compiti non propri; quella grazia che appassiona e distacca, quella grazia che è l’incontro con Gesù, insostituibile interlocutore dei giorni. Incontri, letture, preghiere, silenzi, affetti, relazioni solide e pulite: è complessa e bellissima tutta l’architettura che permette di percepire la grazia. La grazia predica la misericordia, sostiene le promesse della libertà, tollera le lentezze della storia, raccoglie il proprio peccato, aiuta a decidere, scioglie le paure, mostra l’unica possibilità che non deve essere lasciata cadere, la propria vocazione.

 

Trasmissione della fede e motivazioni del ministero

Una pastorale vocazionale deve riscoprire con più essenzialità le motivazioni teologiche, pastorali ed umane del ministero ordinato. Esiste un lavoro obiettivo da fare, il quale non è solo ricerca diretta di vocazioni, ma intenso operare perché ce ne siano le condizioni. Ad esempio se il ministero è rapporto con Gesù e cura della fede deve essere realmente tale, non può scadere oltre misura in un ruolo burocratico o istituzionale conservativo; se i sacramenti hanno una loro identità e significazione la celebrazione dei sacramenti deve risultare tale altrimenti il ministro non regge più il suo stesso operare e il suo posto nella Chiesa viene svuotato dall’interno; se l’annuncio della Parola è veramente importante colui che accede al ministero deve sentire questo carisma e sostenerne la preparazione. Una volta ordinato dovrà andare a fare questo e non altro.

Una proposizione da leadership indifferenziata non sostiene più una motivazione ministeriale, sia perché la leadership del ministro cattolico si è indebolita all’interno della società, sia perché un generico desiderio di donazione sostenuta dalla gratificazione che il leader riceve non garantisce più lo specifico cristiano della propria esistenza. Favorire queste dinamiche è autentica pastorale vocazionale anche se sembrano molto lontane dalle tecniche di un pur corretto reclutamento vocazionale.

Se la pastorale vocazionale esige una particolare vivacità e precisione nel trasmettere la fede, certamente è suo compito prevedere luoghi e itinerari di fede che curino la profondità e la qualità dell’esperienza; in questo senso non è compito proprio di questa pastorale soltanto una preoccupazione di prima evangelizzazione. Il desiderio di arrivare a tutti non deve essere a detrimento della coltivazione particolare di alcuni. Per natura sua la pastorale vocazionale diventa in un certo senso una cura specifica della fede. Non generica, sarà capace di vagliare e discernere i moti culturali, saprà rendere ragioni ad altri, sarà ancorata ad una profonda tradizione spirituale, terrà in alta considerazione l’esperienza della preghiera, conoscerà i suoi slanci e le sue aridità, saprà ricondurre il linguaggio ordinario ai significati ultimi. Le riproposizioni generiche dei contenuti di fede, non sono sufficienti a suscitare vocazioni al ministero. Una coltivazione profonda diviene necessariamente specifica.

 

Una Chiesa più spirituale

Da tutto questo emerge che la riflessione tra pastorale vocazionale ed educazione al ministero ordinato ci porta a desiderare e a promuovere una Chiesa non meno storica ma più spirituale. Per questo riscopriremo la gioia che proviene dal Vangelo, ci abitueremo con un qualche soffrire e non pochi malintesi tra noi, a reggere psichicamente di fronte a questa bassa marea istituzionale, stabiliremo un nuovo rapporto tra visibilità della fede, ecclesiasticità e territorio, favoriremo una coltivazione nuova dell’esperienza spirituale in relazione ai bisogni delle persone, sia quelli relativi al conforto psichico, come quelli inerenti la coltivazione teologica, l’appartenenza comunitaria e l’esercizio della carità.

Il prete potrà essere compreso e promosso nella coscienza della Chiesa e delle sue comunità in un modo sempre meno isolato dalla sua storia e dal suo mistero, sapendo che la storia degli uomini chiede ai credenti di ripensare sempre da capo come il Vangelo può esprimersi e prendere forma nelle coscienze e nelle istituzioni. Spesso chi si lamenta grossolanamente della mancanza dei preti non è sempre per un motivo spirituale ed evangelico, spesso è per la convenienza, per opportunità, per pigrizia mentale. Diverso è chi soffre per la mancanza di preti.

Nella forma della più recente tradizione la pastorale vocazionale si è esaurita e già rinasce nella forma nuova, più difficile, meno visibile, più pacata. Rinasce all’interno di comunità cristiane che accolgono la fede come un dono, luogo di decantazione e di risposta di senso, relazione profonda con Gesù, autentica partecipazione al soffrire dell’uomo, e alla sua intramontabile speranza.