N.04
Luglio/Agosto 1996

Un libro per un percorso di vita: frammenti di ricerca vocazionale nelle letture dei giovani

Lezione di Religione, ultima ora del sabato. La fatica è in tutti: nel professore e negli alunni. La testa è già verso l’esame di maturità. Decidi di abbandonare il programma e butti lì una domanda: “Qual’è il libro in cui meglio vi rispecchiate, che sentite vostro, capace di interpretare quello che state vivendo, che sa offrirvi delle risposte alla ricerca di senso e di felicità che vi portate dentro?”. Cinquanta minuti fitti di interventi.

Con questa provocazione inizia questo contributo, che al di là di ogni pretesa di giudizio complessivo, non fa che registrare alcuni frammenti di un discorso ampio che vuole semplicemente sfiorare un problema fondamentale. Per il cristiano l’approccio al libro, al testo della Bibbia, e alla Persona che intreccia con il lettore un dialogo appassionato che assume tutte le gamme del rapporto interpersonale, dalla violenta requisitoria alla tenerezza dell’amore, è decisivo in ordine alla costruzione della propria fede e della risposta vitale della vocazione. Arrivare a pensare con le parole della Bibbia, arrivare a parlare con Dio il linguaggio di Dio, senza che quelle parole siano lontane, false o inutili. Sentirsi compreso da quelle parole, lasciare che quelle parole interpretino la vita di ciascuno fino a diventare le parole stesse con le quali rispondere con la vita al Dio vivente.

Ma ci sono altre parole, altri linguaggi di cui maggiormente si appropriano i giovani nell’intreccio di crisi, sfide in cui sono immersi e risposte che vogliono per la loro vita e decisioni da assumere per crescere?

Ho cercato tra la letteratura recente, quella che trovate se avete il coraggio di far chiudere loro l’Antologia di Italiano o gli “aurei classici greci-latini”, quella letta di nascosto durante un’interrogazione o una spiegazione noiosa, o quando anche gli amici e il partner stanno troppo stretti, di chiarirmi questo problema.

Forse il campo di indagine è ristretto perché altre forme comunicative attirano più del libro in quanto consumate nei riti del tempo libero: la musica, i film, la realtà virtuale, ma questo è solo per stimolare i lettori a continuare personalmente la loro ricerca sulla base di personali esperienze.

Le indagini sulle letture giovanili non mancano. Anche recentissime come quella promossa dal Premio Grinzane Cavour, dai Periodici S. Paolo con la collaborazione del Censis e dell’Editrice Bibliografica dal titolo I giovani e la lettura. Indagine Grinzaneletture ‘95[1]. Da essa si ricava come la fascia di adolescenti tra i 16/19 anni sia maggiormente attratta dalla lettura di opere di narrativa e di poesia, mentre si registri un calo oltre i 20 anni e, come limite intrinseco alla ricerca, la lontananza dei giovani-lavoratori dal mondo delle letture. Questi dati consentono alcune osservazioni.

Una prima legata alla percezione che, comunque siano le percentuali, i giovani in Italia leggono poco e male rispetto ai coetanei di altri Paesi europei. Inoltre il piacere e la fatica del leggere, con quanto comporta a livello di identificazione coi personaggi e le situazioni, resta appannaggio di una fascia ben delimitata di giovani (prevalentemente gli alunni degli istituti superiori) rispetto ad altri per i quali l’evasione del tempo libero è riempita dai riti del fine settimana come alternativi ad una fatica di affrontare la vita già marcatamente contrassegnata dal lavoro (spesso faticosamente trovato, duro e con ben poche soddisfazioni). Ma ciò che è maggiormente interessante per lo scopo di questa indagine è la contrazione della lettura di opere letterarie dopo i 20 anni. Forse perché l’approdo all’Università o le prime faticose esperienze di lavoro spostano maggiormente sul polo del realismo – o magari dell’appiattimento – laricerca dei valori, o forse perché, anche per la generazione che si affaccia al 2000, il periodo dell’adolescenza (16-19 anni) rappresenta ancora un tempo in cui da una parte affiorano chiaramente le domande importanti per la vita e dall’altra cresce l’insofferenza per risposte troppo irrigidite in schemi di pensiero comunque distanti dalla loro vita, e perché l’evasione nella lettura rappresenta la ricerca di parole, fatti, personaggi, situazioni, nelle quali interpretare e dare corpo alle domande stesse. C’è una ricerca vocazionale – ovviamente in senso ampio – che attraversa la ricerca di letture dei giovani.

Questa ricerca approda a letture che rappresentano consolidati punti di attracco per le domande di giovani da più di una generazione come il Ritratto di Dorian Gray di O. Wilde, l’intramontabile Siddartha di Hermann Hesse – o altre opere dello stesso scrittore -, gli scritti di Pirandello, Kafka, Dostoevskij, Calvino, Bach… Ma anche si attarda su testi, quale in modo emblematico Va’ dove ti porta il cuore di S. Tamaro, le cui qualità letterarie e le tenuità delle riflessioni proposte, fanno di essi brillanti operazioni commerciali piuttosto che opere di riferimento per elaborare percorsi di vita validi. Vorrei soffermarmi, piuttosto, su una tipologia di crisi, sfide e ricerca proposta in alcuni testi di autori contemporanei, che spesso circolano sottobanco (ma non troppo) tra gli adolescenti di oggi.

 

L’incompiuta ricerca della felicità: Jack Frusciante è uscito dal gruppo

Un primo testo, altro caso editoriale, ma con un diverso spessore rispetto all’opera della Tamaro, è l’opera del giovanissimo Enrico Brizzi: Jack Frusciante è uscito dal gruppo[2]. Al di là della trama dell’opera colpisce la sua capacità di dare pensiero a quanto riempie la vita di un adolescente sia nella sua volontà di anticonformismo e di scoperta dell’autenticità (espressa nell’uscire dal gruppo) sia nel riapprodare, per dare corpo a questa volontà, ad alcuni stereotipi ben diffusi nella cultura giovanile. Di questo romanzo vale il giudizio espresso da Giuliano Soria, presidente del Premio Grinzane Cavour, su molta letteratura di giovani autori per giovani: “raccontare una storia compiuta pare impossibile, e allora ecco le ‘situazioni tipo’ della vita dei giovani, sbadigli e ingiustizie sui banchi di scuola, feste e cene noiose, bighellonamento per la città. E gli unici eventi veri e propri sono spesso drammatici: il suicidio di un amico, la morte dell’unico parente con cui si aveva confidenza. Di questo passo fino alla conclusione, se così vogliamo chiamare un’ultima pagina che, il più delle volte, si ripiega sull’inizio, in una spirale che rappresenta di per sé la ‘morale della favola’”[3].

Forse il giudizio viene un po’ stemperato se si affronta il testo sforzandosi di leggerlo con un continuo riferimento al punto di vista dell’adolescente lettore. Resta l’impressione che Alex, protagonista del romanzo, si presenti bene a raffigurare il tipo dell’adolescente di oggi. La sua ricerca di felicità che passa attraverso la ribellione dello stereotipo dello studente modello, il silenzio misto ad uno sguardo di compatimento per i propri genitori, l’esperienza di una forte amicizia e la costruzione di un amore che sappia posporre la fisicità alla scoperta dell’altro, è realmente emblematica, non tanto nelle situazioni che si dispiegano nella narrazione, quanto nell’incompiutezza. Il romanzo si chiude sul ritorno della situazione iniziale nella stasi di una ricerca di sé che resta senza risoluzione, come una lezione della vita, che certamente si rincontrerà altre volte e senza un apparente esito fino a che “qualcosa”, forse, farà rientrare Alex nel gruppo. Una vocazione all’incompiutezza quella di Alex, come quella di tanti coetanei. Forse uno stimolo anche per gli educatori a valutare con maggiore attenzione questo dato. La sete di autenticità non corrisponde ad avere a disposizione, nonostante il rischio di provarci, delle risposte. E anche le risposte proposte dai percorsi educativi non possono fare a meno di scontrarsi su questa condizione di indocile irresolutezza, segno di quella particolare situazione della coscienza contemporanea della quale gli adolescenti sono solo il ritratto a tinte più vive[4]. Questa irresolutezza fa del cercatore di felicità una persona che si accontenta di quanto gli viene incontro spontaneamente e di cui, non senza soffrire, cerca di fare esperienza senza troppe questioni sulla ricerca di un equilibrio interiore. “Alla fine, l’equilibrio interiore non è da cercare. Forse ce l’abbiamo già, e più ci muoviamo o agitiamo o altro, e più ce ne allontaniamo. Il fatto è che a parlare di equilibrio interiore mi sento un povero stronzo. Mi sembra uno di quei termini che si usano nelle sedute di psicoanalisi liberatoria collettiva o nei rifugi per donne violentate… Il ragionamento è così. Non ci vuole un genio. E allora, perché dovrei sacrificare i momenti di serenità che mi vengono incontro spontaneamente lungo la strada?”[5].

Non manca nel testo un riferimento al convenzionalismo religioso; bellissime a questo proposito le pagine in cui Alex si confessa elencando peccati insignificanti che non toccano minimamente la propria attuale ricerca di vita, unito ad una critica di maniera, non priva, però, di risonanza anche per gli educatori, circa l’ipocrisia religiosa mai tramontata: “Alex cercava di credere in Dio, ma il problema maggiore” erano gli ipocriti “che incontrava in chiesa. Compresi i giovani del catechismo che animavano la messa con le chitarre e il coro di vergini in camicetta e gonna alle caviglie: gli sembrava una mossa commerciale, capite, divenuta necessaria per via del tracollo della Chiesa, del fatto che sempre meno giovani volevano andarci alla messa”[6]. Ricerca vocazionale, dunque, al di là dell’incompiutezza e della cautela davanti ad ogni facile proposta di felicità (“Bisogna avere molta cautela con chi è felice”, ricorda Alex), come sete di autenticità, autenticità che forse per quelli della generazione di Alex resta come incompiuta, come una promessa che non trova davanti a sé testimoni credibili di realizzazione.

 

“Due di due”: la difficile ricomposizione dell’unità

È un romanzo di un altro giovane autore italiano ad attirarmi perché segnala, in filigrana, un’altra grande sfida della giovinezza: quella dell’unificazione interiore per poter accedere alla maturità e far fronte in modo ragionevole e dignitoso all’avventura della vita. Si tratta di Due di due di Andrea De Carlo, un altro caso letterario ed un altro cult per gli adolescenti di oggi[7]. Il romanzo racconta l’avventura di un’amicizia maturata, quasi per caso, di due caratteri profondamente diversi e complementari, che si dipana dagli anni della contestazione fino agli anni ‘80. Due caratteri complementari, come due sono i personaggi della vicenda che, però, può essere letta (al pari e forse, con qualche significativo raffronto, del Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse) – come ricorda lo stesso De Carlo – quale “la storia delle due parti di una stessa persona”. Perché “nell’amico c’è qualcosa di noi, un nostro possibile modo di essere, il riflesso di una delle altre identità che potremmo assumere”. Esplorando in modo sincero gli ideali della generazione della contestazione e insieme distaccandosi per la risoluta ricerca di nuovi valori, il libro coglie nel segno una delle crisi e delle sfide tipiche dell’adolescenza; quella dell’amicizia, capace ed insieme desiderosa di superare le profonde diversità che possono dividere le persone. Tuttavia l’opera, se letta, appunto come lo sdoppiamento di due identità capaci di convivere nella stessa persona rivela livelli di profondità maggiore. Guido rappresenta l’anima ribelle, perennemente inquieta e geniale, l’“io narrante” quella capace di giungere ad una conciliazione con il “terribile quotidiano” fatto di routine, non banale simboleggiata dalla azienda agricola che il protagonista riesce faticosamente a costruire trovando in essa il suo equilibrio. Il libro coglie nel segno quando tratteggia i due personaggi emblemi della contraddizione del mondo giovanile fatta di slanci imprevedibili al di là degli schemi e da rotture e ribellioni con la realtà (simboleggiata dalla città di Milano da dove inizia la vicenda) e di ricerca di salvezza attraverso la creazione di un mondo possibile fatto di segrete e vitali armonie quotidiane (simboleggiate dalla azienda agricola delle Due Case). Ricerca vocazionale qui come tentativo di giungere all’unificazione interiore senza perdere lo slancio e la positività di ciascuna delle due parti lasciandone da parte insieme il negativo, l’improduttività della ribellione e l’intimismo esasperato del quotidiano. Riconciliazione tipicamente adolescenziale riempita di slanci verso la ricerca di maturità, intesa come rottura dal mondo delle convenzioni familiari e sociali, e, insieme, come profondo bisogno di ritorno alla casa, alla dimensione domestica e addomesticabile della vita. È proprio la casa a far da metafora e sancire l’epilogo di questa ricerca. Le due case presenti nel podere acquistato dall’“io narrante” e restaurate per ospitare in una la sua famiglia e, nell’altra, l’amico Guido, emergono nel corso del testo come emblema di questa impossibile riconciliazione interiore: Guido non abiterà mai la casa pensata dall’“io narrante” per lui. Resterà per un po’ ospite nell’altra casa, concependo qui il suo romanzo di successo, per poi lasciarla e continuare la sua ricerca oltre gli schemi.

Un esito drammatico, forse un suicidio, sancisce la fine di Guido e fa scattare il rito con cui si conclude l’opera e che “simboleggia” la raggiunta maturità dell’“io narrante” attraverso la fine dell’amico: l’incendio appiccato dall’“io narrante” alla casa di Guido. Quale possa essere l’impatto di questa lettura sull’adolescente va oltre i limiti di questa analisi. Al di là di un bel racconto di amicizia essa svela come la crisi della vita per la ricerca di senso e di appagamento attraversa ogni istante, è comunque esposta al rischio del fallimento quando vuole tentare di far convivere in unità gli elementi opposti che pure abitano nel cuore dell’uomo. L’incompiutezza di Alex in Jack Frusciante qui diventa la compiuta certezza che la maturità consista comunque nella perdita, nella morte di qualcosa che deve essere sacrificato perché non può convivere con il quotidiano. Pessimismo circa la capacità dell’uomo di fare sintesi o semplice registrazione di fatti colti attraverso il velo della metafora dell’amicizia e della casa? Non è facile trovare una risposta. Certo che la ricerca qui è ben presente. È fatta di azioni da parte di Guido e di sofferte interpretazioni da parte dell’“io narrante”. Agire e interpretare se stessi, saper ritornare e forse essere disposti a sacrificare qualcosa per assaporare la semplicità della vita: è la sfida dell’opera, ma anche quella proposta a ciascuna generazione. Anche se questa sofferta unità interiore, che è la via verso la risoluzione e la decisione di vivere, non può che destare stupore, quello di sentire come perse le altre possibili identificazioni con cui risolvere l’enigma della vita, ma anche quello di esser riuscito a compiere questa unificazione attraverso l’assimilazione delle lezioni quotidiane della vita. Ma per questo è necessario uno sguardo dall’alto, che non riconosca più le macerie distrutte delle altre possibili identificazioni: “…sono andato a fare una passeggiata da solo, fino alla collina che anni prima in un giorno di neve io e Guido avevamo risalito per contemplare il paesaggio. Ho cercato il punto preciso in cui ci eravamo fermati e ho guardato in basso come avevamo fatto allora, ed era strano vedere una casa sola dove ce ne erano state due”[8].

 

La salvezza nel cinismo di una generazione persa

Da altre macerie prende le mosse la terza opera che prendiamo in considerazione. Si tratta dell’opera prima di un giovane musicista e scrittore americano Michael Hornburg dal titolo La cenere degli angeli[9]. I protagonisti di quest’opera fanno parte di quella generazione di venti-trentenni disillusi, senza soldi e senza ideali, ben presto coniata dalla cultura americana come grunge. Le storie dei due personaggi David, aspirante regista e coltivatore di marijuana, e della sua ragazza Courtney si dipanano in paesaggi urbani di singolare squallore ben sottolineati dallo stesso linguaggio del testo. La storia oscilla tra la perdita che sviluppa due percorsi di vita paralleli accomunati dall’eccesso, dallo sperimentalismo che combina sesso, musica e droga, e un ritrovarsi per riconquistare, con l’amore, al di là della sua pura fisicità, un segreto per la vita e per affrontare le sfide di ogni giorno: il cinismo. “Hai mai pensato a cosa farai quando invecchierai?” “Morirò”. “No intendo fino a quel momento”. “Vivrò”. “Non hai altri progetti?” “No, perché? Tu hai dei progetti?” “No”[10]. Il cinismo come arma terribile per andare avanti giorno per giorno senza grandi progetti né di ambizioni carrieristiche, né di prospettive di tranquilla vita domestica. Precarietà come segno di un modo preciso di affrontare la vita e trovare quell’equilibrio sul crinale della trasgressione in cui anche l’amore può diventare una salvezza, ma che comunque non cambia il proprio mondo. È il non-finale a rivelarlo. Un breve momento di tenerezza per l’amore riconquistato che, come più volte nel corso della vicenda, va in prestito di similitudini e di immagini non convenzionali e con un linguaggio realistico e generoso di volgarità, che finisce stroncato nell’attimo in cui può essere assaporato per far ripiombare i due protagonisti nella cruda realtà eretta a stile di vita: “Le nostre vite erano come due mani unite in preghiera. L’avevo persa una volta e non volevo perderla di nuovo. Avrei fatto qualunque cosa per lei, dovevo farglielo capire… Presi la mano di Courtney, strinsi le sue dita tra le mie, le detti un lungo sguardo e poi un piccolo bacio. Lo sai che ti amo – dissi. – Già – rispose, senza nemmeno guardarmi. Ci sdraiammo sul marciapiede, dal cielo rosato di nuvole cominciò scendere una lieve pioggerella… Un poliziotto mi dette un calcio. – Forza…, levatevi di torno”[11].

Una lettura forse non di successo, ma attraverso la quale interpretare la crisi anche di questa generazione e dei “modelli americani” con cui si lascia interpretare. Nessuna poesia, o forse una poesia e un senso per l’esistenza che sono come bagliori, come “la polvere degli angeli” che per un attimo copre la città, ma che poi la lascia tale quale è. L’incertezza di Alex, la sofferta unità dei “due di due”, in quest’opera si tramuta nell’orgoglio di essere se stessi, al di là di ogni regola per ritrovarsi poi, nudi di sentimenti, davanti all’amore. Non c’è solo negativo, perché questo testo descrive una realtà forse ancora lontana da noi, ma della quale non dobbiamo avere paura. Fare breccia nel cinismo, tipico della decadenza dei valori, che rappresenta di per sé la ricerca soffocata o gridata di qualche valore, è una sfida anche per gli educatori di oggi. Se i giovani trovano veri e credibili i personaggi de La cenere degli angeli, resta allora da chiedersi se accanto alla caduta delle “grandi narrazioni” annunciata dal pensiero debole, non resti per i giovani di questa generazione l’approdo cinico di chi non ha nemmeno bisogno di frammenti di senso e di quei grandi orizzonti (i protagonisti si perdono nel loro mondo fatto di periferie e locali degradati) più volte proposti nell’educazione della gioventù. Perché di quei grandi orizzonti non sa che farsene. Più tenderà ad avvicinarsi, più gli appariranno lontani e sfocati. Meglio fermarsi prima e accontentarsi di rispondere in modo ironico alla vita.

È importante allora misurare, proprio su testi come questi, l’effettiva incidenza dei percorsi di senso che sono proposti nell’educazione dei giovani. Non c’è vocazione in questa vicenda. Non c’è risposta accolta ai grandi perché della vita, ma solo la reazione immediata agli stimoli di essa; positivi e negativi che siano.

 

Al di là della tipologia… una ricerca da continuare

Ricerca di senso come perenne incompiutezza, sofferta e impossibile riunificazione di sé, approdo nichilistico e cinico: tre modi diversi di articolare il tema della gioventù davanti al problema della vita. Tre risposte che comunque non sono le uniche, ma credo, rappresentative di quanto, al di là del velo della convenzione, i giovani vorrebbero rivelare. L’attenzione dell’educatore a non forzare troppo gli schemi, ma piuttosto a porsi in reale ascolto della loro vita, non potrà che portare benefici anche all’azione vocazionale stessa. Altri percorsi possono essere tentati, forse con esiti maggiori nel grande mare della letteratura e, soprattutto degli altri linguaggi che i giovani sanno parlare. Anche se la pretesa dell’educatore sarà quella di educarli al linguaggio di Dio, che pure ama e continua ad amare l’umanità, parlandone il suo linguaggio, nel desiderio che l’uomo impari a rispondere con quello di Dio.

 

 

 

 

 

Note

[1] Oscar Saggi: Mondadori, Milano 1995. Cfr. anche: M. BECK, Giovani e letteratura, in Communio, (1996) 146,55-69.

[2]  Romanzi e racconti 34, Baldini & Castoldi, Milano 1995.

[3] G. SORIA, Convincere Alex l’apprendista che non legge, in Famiglia Oggi 19, (1996) 3, 66.

[4] Si può vedere una descrizione di questa coscienza contemporanea letta attraverso i criteri dell’ambivalenza, della difficoltà al discernimento e della deistituzionalizzazione nel contributo: P.D. GUENZI, Educare la coscienza morale oggi educando l’amore, in ‘Vocazioni’ 13, (1996) 1, 21-23.

[5] E. BRIZZI, Jack Frusciante…, 41.

[6] Id., 47-48.

[7]  Scrittori italiani e stranieri, Mondadori, Milano 1989.

[8] Op. cit., 385 (si tratta del finale del romanzo).

[9]  I libri di Panta, Bompiani, Milano 1995 (ed. or. Grove Press, New York 1995).

[10] Op. cit.,.160-161. 

[11] Op. cit., 161-162.