I Santi: testimoni per i giovani di oggi
Ogni “accompagnamento” e/o “discernimento” vocazionale è minacciato da una possibile radicale ambiguità: che il “chiamato” non senta in realtà alcuna “voce”, se non quella che egli stesso produce nelle profondità più o meno consapevoli del suo “io” (facendo da cassa di risonanza a paure, emozioni, desideri che si porta dentro) o che egli oda soltanto l’eco di ciò che circostanze e persone esterne gli suggeriscono.
Sappiamo certo che la “voce” di Colui che chiama può farsi strada – se vuole – anche attraverso i grovigli interiori del chiamato (e servendosene perfino) o anche attraverso le circostanze più discutibili; ma normalmente la “vocazione” dovrebbe accadere in maniera adeguata e rispettosa del mistero della Incarnazione.
Se “il Verbo si è fatto carne”, anche la Parola di Dio che chiama deve farsi carne e deve risuonare come voce che interpella “cristianamente”. I “chiamati” di cui il Vangelo racconta la vicenda godono infatti di questa sconvolgente novità: che essi odono fisicamente la Voce di Dio fatto Uomo, in un tempo e uno spazio ben determinati, così come determinate sono le condizioni e le modalità della sequela ad essi offerta.
I racconti evangelici non sottolineano quasi mai quei risvolti psicologici ed emotivi, ai quali noi siamo così sensibili, ma descrivono piuttosto le circostanze oggettive dell’incontro: Gesù chiama “alle quattro del pomeriggio”, oppure “camminando sul litorale”, oppure “mentre i pescatori riassettavano le reti”, oppure “nel passare, vedendo Levi seduto al banco delle imposte”…
Il dialogo vocazionale, di solito, è ridotto a uno scarno “seguimi!”, cui il chiamato reagisce, se vuole, col fisico e indubitabile movimento di chi abbandona qualcosa o qualcuno che fino allora lo ha tenuto occupato, per intraprendere una nuova vita itinerante assieme al Maestro. Ciò che qui si vuol dire è che anche oggi – anche nel Corpo ecclesiale – la chiamata dovrebbe accadere nella maniera più cristiana possibile: come ascolto della voce ben incarnata di Cristo, che ci raggiunge “qui e ora” con il suo suono inconfondibile. Non si può generalizzare e spiritualizzare troppo.
Dicendo, ad esempio, che Cristo parla oggi attraverso tutte le circostanze e tutti gli incontri, si dice qualcosa di vero, ma si dimentica troppo facilmente che Egli ha lasciato – nella Chiesa, suo corpo – tracce evidenti e molteplici della sua incarnazione. Ed è giusto attenderci che la sua Voce risuoni meglio e più oggettivata, quando si lega a queste “reliquie dell’incarnazione” e quasi da esse scaturisce.
Nei primi tempi dopo la sua Ascensione, ad esempio, sarebbe stata cosa assai strana se qualcuno avesse preteso di “ascoltare la Voce di Cristo”, con un procedimento tutto spirituale, tutto interiore, o casuale, trascurando il fatto che la Sua Voce riecheggiava davvero, umanamente, in quella di Maria, di Pietro, di Giovanni e degli altri discepoli. Nessuno negava allora che Cristo e il suo Spirito potessero parlare direttamente al cuore dei credenti, ma costoro preferivano certo pendere dalle labbra di coloro che avevano “veduto con i loro occhi, toccato con le loro mani, udito con i loro orecchi il Verbo della Vita” (Cfr. Gv 1,1 ss). Riferirsi ai “Santi di Gesù Cristo” era allora il metodo più diretto e sicuro di udire e interpretare la Sua Parola.
Perfino Paolo – l’unico Apostolo che non conobbe Cristo – si sentì chiamato e afferrato attraverso la santa concretezza umana dei primi discepoli da lui osteggiati: “Io sono quel Gesù che tu perseguiti” fu la voce che lo fece stramazzare a terra: voce con cui Gesù assumeva improvvisamente i tratti del volto di Stefano e degli altri cristiani perseguitati. Ciò che fu vero alle origini della storia ecclesiale, resta sempre vero: che altro è infatti la storia della Chiesa se non una catena di generazioni di discepoli, nella quale ogni anello garantisce e trasmette la Parola all’anello successivo?
Se perciò affermiamo che “la parola dei Santi” deve entrare nella formulazione di ogni vera “chiamata”, lo diciamo non con motivazioni vagamente ascetiche e spirituali, ma con vera preoccupazione dogmatica: essi sono infatti protagonisti viventi, necessari per una trasmissione incarnata della Parola fatta carne.
L’agiografia cristiana da un lato è ricca di esempi al riguardo; e dall’altro è essa stessa uno strumento di questa continuata incarnazione. Ignazio di Loyola sente la voce di Cristo che lo chiama mentre legge occasionalmente le sacre avventure di San Francesco e San Domenico: per questa porta egli entra in un “nuovo mondo” di lotte e di gloria e di amore, di cui sente di poter diventare protagonista, e la decisione comincia ad accadere quando scopre che il suo spirito abita con gioia in quelle nuove e sconosciute regioni, già abitate da altri Santi.
E il fatto che tale voce gli sia giunta come eco vivente di quella del Nazareno, lo dimostra il suo farsi subito pellegrino (così inizia allora a chiamarsi): e va alla ricerca di tutte le altre tracce dell’Incarnazione. Intraprende allora quel viaggio nella terra di Gesù che gli è necessario per imparare ad applicare a Lui e al Suo mistero perfino i suoi cinque sensi: Ignazio voleva respirare la stessa aria di Cristo, guardare i suoi stessi panorami, percorrere le sue stesse strade, odorare gli stessi profumi…
Studiando le esperienze dei Santi (quelli più antichi e quelli più recenti: dagli antichi pellegrini, a Charles de Foucauld) si resta sorpresi a vedere l’importanza decisiva che assume nelle loro vicende vocazionali la permanenza in terra santa! Dapprima essi sentono una santa voce ecclesiale che giunge come eco di quella di Cristo, poi si appassionano a tutte le tracce storiche che portano a Lui.
I Santi sapevano come ogni altro buon cristiano che, dopo l’Incarnazione, tutta la terra è diventata sacra e che Dio tratta con l’uomo in ogni luogo e in ogni tempo: ma ciò non li ritraeva affatto dal badare attentamente alla geografia della fede: e i diversi “luoghi sacri” (compresi i mille santuari mariani) sono sempre stati luoghi decisivi per il loro colloquio vocazionale con Dio. Non pretendevano mai di ritrarsi nella propria interiorità per coltivare narcisisticamente la Voce intimamente udita.
A volte la loro vocazione si chiarisce e si invera proprio nel fisico risuonare di una autorevole voce ecclesiale: Madre Francesca Cabrini, ad esempio, passa la giovinezza sognando la missione in Estremo Oriente, fin quando non sente Leone XIII che le dice con decisione: “Non in Oriente, Cabrini, ma in Occidente”. E fidandosi di tale voce divenne la Madre di milioni di diseredati.
Proprio come accadde a Filippo Neri che si sentì dire da un vecchio monaco cistercense: “Le tue Indie sono a Roma!”, e divenne l’apostolo e il Padre della città eterna. Camillo de Lellis, giunto sull’orlo della disperazione e dell’estremo fallimento, schifato dalle piaghe che gli rodevano non solo l’anima ma anche le ossa, trovò un santo vecchio fraticello cappuccino che gli disse: “Dio è tutto. Il resto è nulla. Bisogna salvare l’anima che non muore…!”. E per salvare l’anima sua e di tutti i derelitti cominciò ad amare i corpi malati con la tenerezza degna del Corpo sofferente e glorioso di Cristo.
Da allora “vocazione”, nel senso più stretto del termine, fu per lui ogni lamento di malato, ogni vocazione di moribondo in cui sentiva risuonare per sé, attualizzato, l’evangelico: “sono malato, vieni a visitarmi”. A Edith Stein – ebrea, atea, professoressa di filosofia – parlò per una notte intera S. Teresa d’Avila: tutta una notte durò infatti la lettura della Autobiografia della Carmelitana, presa casualmente dagli scaffali della biblioteca di certi amici. Ma, la mattina dopo, ella poté concludere: “questa è la Verità”, quella verità che aveva cercato per anni e anni sui libri e che trovò solo in quel libro, vivo come un Vangelo, in cui la Santa di Avila ha raccontato il suo profondo dialogo vocazionale con un Cristo che non si rassegna mai a perdere la sua Sposa.
Sempre, nelle vite dei Santi, la vocazione si presenta come un abbraccio che l’umanità di Cristo riserva alla sua Chiesa: abbraccio che si fa carne e si personalizza “qui e ora”, proprio per questa creatura, trasmettendosi – per così dire – da Santo a Santo. Abbraccio che la Chiesa riceve: lei lo provoca (e, in questo senso, i Santi stimolano i Santi), lei lo riceve, lei lo custodisce, lei lo trasmette. E così continua ad essere celebrato nella storia il Cantico dei Cantici.
Quali insegnamenti trarre allora da così brevi accenni che potrebbero però moltiplicarsi all’infinito? Anzitutto la necessità di sottolineare, sempre di nuovo, che i cristiani non hanno mai altro problema che quello della loro santità: cioè della loro amorosa appartenenza a Colui che “è, Lui solo, Santo!”. A questo tutti sono chiamati. Ogni altra vocazione non indica se non la strada privilegiata – a ognuno quella tracciata dall’Alto – per la realizzazione del compito comune. E non bisogna mai dimenticare che il movimento di appartenenza a Cristo accade sempre con lo stesso ritmo con cui il discepolo si lascia – come Lui e in Lui – inviare missionariamente al mondo. La santità non è mai narcisismo spirituale, ma dono che afferra e travolge e dona colui che lo riceve.
In secondo luogo, occorre persuadersi che tale “chiamata alla santità” non può essere altrimenti garantita che da un “clima di santità”: deve accadere, essere recepita, essere nutrita, essere realizzata, essere difesa in un clima di santità. Dicendo questo non pensiamo affatto che il chiamato debba essere tenuto costantemente in un clima di surriscaldamento spirituale o di eroici esercizi ascetici.
Basta la oggettiva, umile, quotidiana santità ecclesiale alla quale bisogna però cordialmente appartenere: bisogna respirarla, là dove è possibile e non appena possibile. Così come bisogna sapersi riscaldare là dove un po’ d’amore di Cristo (oggettivamente e soggettivamente) divampa.
Un prete in crisi vocazionale, ad esempio, ha più probabilità di risentire la voce che lo ha chiamato leggendo un profilo – commovente perché ben fatto – della vicenda del curato d’Ars, o del Cottolengo, o di Massimiliano Kolbe, di quante non ne abbia sottoponendo il suo caso alle fredde analisi di uno psicoterapeuta. La santità si riscalda solo restando accanto alla santità, e la voce che chiama la si sente meglio vicino a chi ha imparato da tempo ad ascoltare e ad obbedire.
È un principio col quale è possibile recuperare e comprendere tutta l’antica saggezza dei consigli che gli antichi padri spirituali davano ai chiamati: per accompagnarli dai primi passi del discernimento, ai passi impegnativi di una crescente fedeltà. Preghiera, devozione eucaristica e mariana, familiarità con la Parola di Dio, affidamento a un santo “padre spirituale”, buone compagnie (viventi e scritte), sana e robusta ascesi di ogni giorno: che altro sono se non la descrizione dettagliata di come la santità della Chiesa (anzitutto quella del “Santo Servo Gesù”) può raggiungere anche oggi l’uomo che a lei si affida?
I Santi di ieri e di oggi, dunque, non solo ci danno una conveniente esemplarità di quanto abbiamo cercato di esporre, ma possono davvero prendere personalmente parte alla vicenda della nostra personale vocazione. Anche nelle singole vicende vocazionali il mistero della “comunione dei Santi” fervidamente accade.