La famiglia educa alla povertà, vivendola
“Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il
vostro patrimonio per ciò che non sazia?” (Is 55,2)
Vogliamo evitare di scrivere generiche esortazioni a vivere il valore della povertà e a testimoniarlo per i figli, per due motivi: primo perché la misura della povertà è molto personale ed elastica e, secondo perché ci sembra che usare esortazioni generiche sia un’impresa educativa disperata, visto l’attuale contesto culturale pieno di stimoli opposti al valore della povertà. Tuttavia, essendo convinti che la testimonianza e la trasmissione dei valori attenga proprio alla persona come tale e al ruolo educativo che questa si assume con il matrimonio, cercheremo di evitare sermoni e ci limiteremo a descrivere alcuni stati d’animo e mentalità diffuse capaci di ostacolare la trasmissione dei valori, tra i quali quello della povertà. E questi stati d’animo o mentalità sono diffusissimi anche tra coloro che fanno domenicalmente professione di fede nella Provvidenza divina e proclamano la carità e la solidarietà a pieni polmoni.
Modi di dire e… di fare
Tali stati d’animo e tali mentalità sono manifestati, come spie, da determinati modi di dire e da certi comportamenti. Ecco alcuni modi di dire: “a nostro figlio non deve mancare nulla”, “per noi è stata dura, non permetteremo che lui patisca”, “bisogna essere previdenti per il futuro, non si sa mai”, “gli affetti sono una cosa e gli interessi un’altra”, “con la fiducia in Dio non si riempie lo stomaco”. Questi modi di dire correnti rivelano uno stato d’animo o una mentalità di fondo poco conciliabile o per nulla conciliabile con la fiducia nella vita in generale e con la fede in Dio in particolare, virtù che fanno da base allo sviluppo dello spirito di povertà.
Ci sono poi dei comportamenti socialmente strutturati, in presenza dei quali risulta difficilissimo vivere ed educare alla povertà. Prendiamo ad esempio tutta quell’enfasi che c’è attorno a certe attività di modestissima rilevanza produttiva, eppure pagate esageratamente: che lavoro è ballare seminuda su un cubo di notte in discoteca? che razza di lavoro è sfilare avanti e indietro per qualche manciata di minuti ostentando vestiti e corpi? che cosa rappresenta nel panorama lavorativo la lettura delle previsioni meteorologiche delle annunciatrici della televisione? come si giustificano i miliardi ai tiratori di calci nel pallone? E sono solo alcuni esempi.
Ma non possiamo passare sotto silenzio una considerazione di fondo: come si fa onestamente ad educare alla povertà (che è una sorta di equilibrio tra ciò che serve veramente per la vita e ciò che è superfluo) quando c’è tutto uno squilibrio concettuale che attribuisce più prestigio e più rilevanza sociale a determinati lavori rispetto ad altri? Perché uno psicanalista prende duecentomila lire a seduta? Perché anche i ginecologi cattolici prendono sui cinque milioni per un parto assistito? Perché la Costituzione italiana afferma che la Repubblica italiana è basata sul lavoro lasciando intendere che tutti i lavori hanno pari dignità e poi in pratica incoraggia la giungla selvaggia di retribuzioni e pensioni?
Ma non è finita. Battiamoci una buona volta il petto come credenti: come si fa ad educare alla povertà quando buttiamo milioni per un pranzo di prima comunione e centinaia di mille lire per fare bella figura nel regalare il calice d’oro al prete novello? Se certi lavori arricchiscono oltre misura è giusto chiamarli peccati sociali. Se certi festeggiamenti soffocano i significati dei gesti perché non paragonarli a lussurie mistiche?
Educare vuol dire sognare…
Come intervenire? Utopico aspettarsi a breve scadenza un cambio di marcia culturale che assegni alla persona e non al lavoro un valore di priorità assoluta? Utopico, in casa cattolica, aspettarsi dei segni profetici capaci anche di scandalizzare un po’ le quiete coscienze dei frequentatori degli altari? Utopico? Ma a noi piace l’utopia perché è molto imparentata con la speranza cristiana. Nel frattempo ognuno può attingere alle proprie risorse (che son sempre un bel dono di Dio).
Quali sono le risorse della famiglia cristiana? Sono essenzialmente risorse “spirituali”. Fra queste la capacità di discernere, in quei modi di dire o in quei comportamenti biasimati poc’anzi, un’evidente anima di tentazione, di tentazione contro la speranza. L’impegno di testimonianza quindi e il conseguente impegno educativo deve muoversi nella direzione della resistenza alle tentazioni, tentazioni che coprono l’intero arco della vita anche se caratterizzano a grandi linee le sue tre fasi a cominciare da quella di vivere il sesso slegato dall’amore (prima fase) proseguendo a quella di vivere il soldo come fine anziché come strumento (seconda fase), per finire a quella di vivere il successo come autocompiacimento anziché come grazie a Dio (terza fase).
Nella quotidianità dei gesti…
Sesso, soldi e successo tre tentazioni che possono allontanare da Dio, tre parole che iniziano con la lettera “esse”, come “serpente”. Abbiamo letto che le tentazioni si possono anche considerare come delle vocazioni al contrario. Per cui, così come alle vocazioni si è soliti rispondere subitamente (“lasciate le reti, subito lo seguirono”) altrettanto occorrerà reagire subitamente e senza ragionamenti alle tentazioni. Al momento potrà sembrare poco razionale, ma alla lunga sarà partita vinta. Anche se non sarà sufficiente giocare in difesa. Occorrerà attaccare sul fronte di una spiritualità sorridente e coraggiosa. Occorrerà che la famiglia, concretamente, faccia dei gesti che rispondano alla sua vocazione genetica di continuare ad essere tenacemente e teneramente il luogo umano degli affetti e della spicciola solidarietà quotidiana tra i suoi membri. Solo a partire da questa base le sarà possibile fare vita di povertà ed educare alla medesima. Con un’attenzione strategica particolare che avrà i caratteri dell’insolito e del profetico, l’attenzione alla sobrietà e allo spirito di sacrificio. Parole ostiche, ma che vanno dette e incarnate. Quale educazione alla sobrietà è quella di figli che soffocano sotto il peso di oggetti regalati mentre anelano inconsapevolmente a giocare con papà e mamma? Costa tempo e fatica giocare con i figli o parlare con loro, ma è quella la vera relazione appagante ed educativa. Tale educazione all’uso sobrio dei mezzi comporta di dover dire dei “no”, dei “no strutturanti” come dicono i più seri psicologi e consulenti familiari. Come si può presumere di dire improvvisamente un “no” al figlio quindicenne che chiede il motorino se no si suicida, quando per tutti gli anni precedenti della sua breve vita non si è mai detto un “no” alla sua richiesta di caramelle, di cartoni animati in televisione, di oggetti da gioco? Dire “no” non è cattiveria, così come dire “sì” non è permissivismo.
La rotaia dei “no” (attraverso cui si protegge) e la rotaia dei “sì” (attraverso la quale si incoraggia) devono essere parallele e in piano perché il figlio scivoli via senza scossoni o deragliamenti sul binario della propria vita. Su questo binario i genitori spingono i figli fino ad una certa età in modo che dopo siano capaci di “spingersi” da soli. Ed anche questo sacrificio del “distacco” sarà lezione di povertà per entrambi, per genitori e figli.
Si è sempre padri e madri, in eterno, ma bisogna sapersi distaccare dalla funzione terrena e temporanea dell’essere educatori. In ultima analisi, sapersi distaccare dalla propria funzione educativa, saper sacrificare questa dimensione consente al figlio di fare il santo nell’avventura della vita. Povertà come libertà dalle cose, quindi, ma anche come libertà da legami invischianti… Povertà come amore, quindi. “Se ami qualcuno, lascialo libero”. Se vogliamo educare alla povertà abbiamo una sola povera risorsa, quella dell’amore.