Pellegrinaggio alle sorgenti
Almeno una volta l’anno giungono presso il mio monastero alcuni pellegrini particolari. Normalmente provengono dalla Francia – lì sono chiamati routiers – e sono diretti ad Oriente, dove sorge la luce. Camminano a piedi, per lunghi mesi, sostando qua e là, dove trovano accoglienza. Spesso non hanno con sé, assieme al misero bagaglio, nemmeno una carta geografica, ma percorrono ugualmente la strada, come attirati da una stella che li precede. Portano i segni di un universo di esperienze, spesso violente come la guerra, che lasciano nel corpo e nel cuore dell’uomo ferite profonde e incancellabili. Qualcuno di loro è stato nell’inferno di Sarajevo, altri a Kabul o nell’Iraq, dove la carneficina continua. Il loro cammino li conduce ora il più lontano possibile da questi luoghi, ma non sono dei naufraghi. Sono pellegrini e cercano con tutte le loro forze di trovare una nuova verginità del mondo: da qualche parte deve esistere l’uomo, senza la maschera del potere, della menzogna, della morte. L’esperienza dell’inferno ha posto nel loro cuore un desiderio di un altrove, di un altrimenti, che sperano di trovare dal lato opposto di quello della guerra, dell’odio, della distruzione. Vanno là dove sorge la luce, a Gerusalemme, la città che può svelare lo shalom di Dio pur in mezzo al dramma della storia. Non cercano luoghi, ma il luogo. La pace è, infatti, rivelazione del volto dell’uomo, dell’uomo possibile, che posso scoprire nell’altro e in me stesso solo se accetto di mettermi in cammino.
Il grande scrittore Dostoevskij diceva che «la strada è qualcosa che sembra non avere fine: è come un sogno umano, la nostalgia dell’infinito». Penso anch’io che il pellegrinaggio sia la strada. Il suo scopo non è tanto una meta da raggiungere, quanto la strada stessa sulla quale camminare. Si tratta di fare strada in avanti, a piccoli passi, mettendo insieme spazi diversi e orizzonti dell’anima, le cose create e i volti di una umanità inesauribile. La strada diventa così epifania della creazione e dell’intera esistenza. Attraversa deserti e città, fiumi e valli, montagne e pianure: la strada diventa come un filo che tiene insieme la totalità della vita, il bene e il male, la gioia e la disperazione, la solitudine e la compagnia degli uomini. È sulla strada che l’uomo, a poco a poco, ritrova se stesso. Devo dire che non è facile, e non è neanche scontato.
Quando Dio, nel giardino dell’Eden, cerca Adamo e gli dice: «Dove sei?», questi si nasconde e scappa. «Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento davanti al volto di Dio, l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità»[1]. Ma la domanda che Dio pone all’uomo rimane. La sua voce è “la voce di un silenzio simile ad un soffio” (1Re 19,12) ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Scrive ancora Buber: «Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano»[2].
È per ritornare al luogo del loro cuore che questi amici hanno iniziato un faticoso viaggio. Sono diventati pellegrini, come molti altri prima di loro. Come ogni altro uomo che ha preso coscienza di essersi perduto e che sa che la via della salvezza è solo nel cammino. Ascoltando la voce.
La via di un pellegrino è il titolo di un libro che ha nutrito la spiritualità di generazioni di credenti, non solo dell’oriente cristiano, e che è diventato giustamente famoso. «Per grazia di Dio – scrive il suo anonimo autore – sono uomo e cristiano, per le mie azioni grande peccatore, per condizione un pellegrino senza tetto della più umile specie, che va errando di luogo in luogo. I miei averi sono un sacco sulle spalle con un po’ di pane secco e una Sacra Bibbia che porto sotto la camicia. Altro non ho». Ho conosciuto un uomo, un pellegrino, che non possedeva nemmeno questo. Vestiva di sacco, e non portava con sé nulla. Era un convertito e, prima di incontrare il Signore, in teatro faceva il mimo. Aveva capito che solo imitando Gesù poteva diventare se stesso. Ha cominciato allora a percorrere tutte le strade cantando la sua libertà. Molti lo deridevano, ma se qualcuno lo fermava e, incuriosito, lo invitava a casa, accettava. Chiedeva di poter lavare il suo sacco di iuta e poi sostava lì due o tre giorni, pregando e lavorando in silenzio. Il suo sguardo e il suo sorriso erano tutte le sue parole. Si chiamava Pietro ed era di San Gimignano, il paese delle torri. È da qualche anno che non lo vedo più, né sento più parlare di lui: forse, dopo tanto cammino, è giunto a casa. Giovanni di Kronstadt, un gigante della spiritualità russa (1828-1908), si domandava: «Che cos’è la nostra vita?». E rispondeva: «Il cammino di un viandante: appena ha raggiunto un certo luogo gli si aprono le porte, abbandona gli abiti da viaggio e il bastone da pellegrino ed entra in casa sua».
Mentre scrivo questo articolo, il Papa sta per iniziare il suo pellegrinaggio di speranza e di pace in Medio Oriente. Il suo percorso in Terra Santa è un viaggio alle radici della fede. In questa terra Dio è apparso, manifestandosi in molti modi ad Abramo, ai patriarchi, a Mosè, ai profeti. In questa terra, “nella pienezza dei tempi”, Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazaret, il Crocifisso risorto. Il viaggio del Pontefice è dunque, innanzitutto, un pellegrinaggio alle sorgenti. Simile a quello di milioni di persone che, spesso affrontando fatiche e difficoltà, lo hanno intrapreso nel corso dei millenni. Salgono al nostro cuore le parole del Salmo:
«Quale gioia quando mi dissero:
“Andremo alla casa del Signore!”.
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!» (Sal 122,1-2).
A Gerusalemme sono saliti Giuseppe, Maria, Gesù, gli Apostoli, che dopo la Pasqua risiedevano sul santo monte di Sion. Ma, almeno nei primi tre secoli dell’era cristiana, Gerusalemme non è diventata meta di pellegrinaggi. La città era stata distrutta dall’esercito romano nel 70 d.C., e così il tempio e tutte le primitive testimonianze cristiane. La nuova Aelia Capitolina, voluta da Adriano, voleva nascondere per sempre i segni di questa nuova fede. I cristiani, tuttavia, erano piuttosto rivolti alla Gerusalemme celeste (cf Gv 4,23-24), mentre ogni gesto di devozione verso luoghi terreni appariva loro privo di significato (cf Lc 24,5; Gv 2,18-22). Un ritorno a Gerusalemme si ebbe con Costantino e la madre Elena: essi recuperarono i luoghi santi e innalzarono su queste memorie monumentali basiliche, ospizi, monasteri. In breve, i santuari di Terra Santa divennero così ricchi per il flusso dei pellegrini «tanto che cominciarono a pullulare di guardiani, di venditori di reliquie, di mercanti, di artigiani che organizzavano vere e proprie fiere in occasione delle festività religiose»[3]. Credo che questo avvenga ancora oggi nei grandi santuari, meta di imponenti pellegrinaggi, come Roma, Santiago di Compostela, Assisi, Canterbury, Padova, Fatima, Lourdes, La Salette, Pompei, Czestochowa, San Giovanni Rotondo, come anche nei più anonimi luoghi, memorie di antiche visioni e di grazie ricevute. La fede dei santuari mette sempre insieme, come nella vita reale, santità e peccato, ricerca di Dio e cedimento alle voglie della carne. E il tempio può sempre diventare nascondiglio di briganti, come è scritto nella parola profetica di Geremia: «Voi confidate in parole false, che non giovano: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, seguire altri dei che non conoscevate. Poi venite e vi presentate davanti a me in questo tempio, sul quale è invocato il mio nome, e dite: “Siamo salvi!”, e poi continuate a compiere tutti questi abomini. Forse per voi è un covo di ladri questo tempio sul quale è invocato il mio nome?» (Ger 7,8-11).
È impressionante il finale del film di Louis Buñuel, La via lattea. Due pellegrini, ciechi, sorreggendosi l’uno con l’altro, dopo un lungo cammino, giungono finalmente a San Giacomo di Compostela. Ma lì, alle soglie del santuario, vengono attirati dalla voce di una prostituta. E la seguono. Il pellegrino che inizia un cammino, pur nella confusione dei linguaggi e dei segni, cerca un approdo alla sua “fatica di vivere”, una semplificazione dell’esistenza, una rigenerazione nelle acque sorgive del fiume. Il pellegrinaggio è un lento procedere dalla morte alla vita, cercando la sorgente. Non sempre si trova la via.
La più antica descrizione di un pellegrinaggio che si sia conservata è datata 333 d.C. ed è stata redatta da un anonimo di Bordeaux che ricorda minuziosamente il suo lungo itinerario, dalla Gallia Narbonense fino alla Palestina, attraversando paesi che ora corrispondono all’Italia, all’Austria, all’Ungheria, alla Romania, alla Bulgaria, alla Turchia e alla Siria, fino a Gerusalemme e a tutti i luoghi santi ricordati nelle Scritture. I miei amici che, provenendo dalla Francia, si recano a piedi fino al Santo Sepolcro, attraversano ancora queste stesse regioni. Uno di loro, Antoine, portava continuamente nella preghiera, lungo il suo cammino, i nomi di coloro che lo avevano ospitato, in un rosario di volti che cresceva di tappa in tappa. Il suo pellegrinaggio diventava così cammino di un popolo intero, nella compagnia di tutti i volti incontrati per strada, di quanti avevano trovato accoglienza nel cuore di un fratello. Il pellegrinaggio può esprimere, così, una fortissima solidarietà e compassione, in una comunione con tutto e con tutti.
Una donna pellegrina divenuta famosa nell’antichità è Egeria, una monaca spagnola che compì il suo viaggio nella Tebaide, al Sinai e in Terra Santa tra il 381 e il 384, lasciando poi alla Chiesa di Gerusalemme tutti i propri beni. Ma dovremmo citarne anche molti altri, tra cui Paola, una nobildonna romana che decise di seguire San Girolamo a Betlemme, con la figlia Eustochio, entrambe ora ricordate accanto alla grotta della Natività, e l’anonimo pellegrino di Piacenza, che si recò in Terra Santa nel 570. Furono questi pellegrinaggi, che sempre più assunsero un carattere devozionale e penitenziale, a preparare l’insediamento del monachesimo nei luoghi della memoria, segnati dagli eventi narrati nell’Antico e Nuovo Testamento. Tuttavia molti Padri della Chiesa rimasero sempre critici nei confronti dei pellegrinaggi verso i luoghi santi. Gregorio di Nissa esortava a “tralasciare i pellegrinaggi del corpo” e a “pellegrinare” verso il Signore con la preghiera (Epistulae, 2,18). San Girolamo, che pure aveva invitato Paola a seguirlo in Terra Santa, ricorda che «Antonio e tutte le schiere dei monaci… non hanno visitato Gerusalemme e, ciononostante, le porte del paradiso si sono aperte dinanzi a loro» (Epistulae, 58,3).
Per comprendere il senso spirituale del pellegrinaggio desidero servirmi di alcune immagini bibliche. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì, avviandosi per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava, infatti, la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso… Nella fede morirono tutti costoro… dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra» (Eb 11,8-9.13).
In realtà, stando ad una lettura attenta del testo della Genesi, Abramo partì due volte: la prima volta con suo padre, alla ricerca di fortuna, come molti; la seconda volta chiamato da Dio. «Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio di suo figlio e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono» (Gen 11,31). Per quanto questo possa essere stato un viaggio avventuroso, esposto ad insidie e pericoli, rimane una decisione dell’uomo, un segno tangibile ed eroico della sua intraprendenza e del suo desiderio di futuro. È dentro questa avventura umana che inizia l’avventura della fede. C’è un Dio che entra nella tua vita e che non ti attende alla fine dei tuoi giorni, o nel momento del dolore e della disperazione, ma è già lì all’inizio del tuo andare, anche se tu non lo sai. Ecco, allora, la seconda partenza, vissuta come obbedienza ad un imperativo divino, che raggiunge Abramo in un fremito impercettibile dell’aria, come voce del silenzio:
«Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela,
dalla casa di tuo padre» (Gen 12,1).
Diventare pellegrini della fede è lasciarci dietro tutto un mondo fatto di sicurezze materiali, di orizzonti culturali, di relazioni affettive. Solo chi decide nel suo cuore questa nuova partenza, diventando per sempre “un forestiero, un uomo di passaggio” (Gen 23,4), potrà sperare di trovare un approdo sicuro, fino ad ereditare i beni promessi. La via del pellegrinaggio non è un’evasione. Fuggire semplicemente dalla vita sarebbe un futile tentativo di evitare la responsabilità, non rinunciando però ai suoi vantaggi. La via del pellegrino è una via verso responsabilità maggiori e stabili, è una rinuncia ai vantaggi e alle illusioni.
Essere pellegrini richiede prima di tutto, e in particolare, la rinuncia ad un’ossessiva ricerca del potere individuale o collettivo. Questa spinta aggressiva al possesso e all’esercizio del potere, infatti, implica una visione totalmente diversa della realtà rispetto a ciò che ci è dato di contemplare quando si decide di diventare pellegrini. «Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gen 12,4). Il pellegrinaggio della fede si snoda perciò lungo le vie dell’obbedienza. Diventare pellegrini è obbedire ad una parola, lasciandone cadere molte altre, pure importanti. «Non si tratta di dire all’uomo quale cammino deve percorrere: perché c’è una via in cui si segue Dio con lo studio e un’altra con la preghiera, una col digiuno e un’altra mangiando. È compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze» (Rabbi Giacobbe Isacco di Lublino).
L’esodo dall’Egitto alla terra promessa è un altro paradigma della storia umana. Parla di coloro che, attraversando i deserti dell’anima, desiderano trovare un approdo alle loro contraddizioni e inquietudini. «Inquietum est cor nostrum – diceva Sant’Agostino – donec requiescat in te». Solo entrando nel sabato di Dio il cuore dell’uomo trova riposo, al termine del suo faticoso pellegrinaggio. L’esodo degli Ebrei dalla dura schiavitù degli Egiziani, proprio perché è un evento che accoglie al suo interno un’epifania salvifica divina, ha un valore permanente ed è un memoriale sempre vivo ed operante. Il popolo di Dio, anche quando si sarà stabilito nella terra di Canaan, dovrà sempre sentirsi “pellegrino e straniero”. Egli abita provvisoriamente la terra, che appartiene solo a Dio: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Lv 25,23).
Faremmo bene a ricordare che questa dimensione di non possesso, di provvisorietà, dell’essere pellegrini in una terra che non è nostra, è una dimensione permanente, che vale anche per i cristiani. Il Signore, all’inizio, ha preso l’uomo e lo ha posto nel giardino dell’Eden «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15), ma di questa terra l’uomo non ha mai il diritto assoluto di proprietà. In essa egli dovrà considerarsi sempre “uno straniero e pellegrino”, come si esprime l’Apostolo Pietro scrivendo «ai fedeli che vivono come stranieri, dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia» (1Pt 1,1). E aggiunge: «Comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri» (1Pt 1,17).
L’esodo, come paradigma di una vita di fede che, iniziando dall’Egitto, prosegue attraverso il deserto, sperimentando prove, tentazioni, peccati, fino all’ingresso nella terra promessa, potrebbe essere la raffigurazione di un pellegrinaggio che comprende anche il tempo dell’oscurità, del silenzio di Dio, dell’infedeltà dell’uomo, che continuamente infrange le alleanze, nel desiderio di recuperare gli idoli abbandonati in fretta in terra straniera. C’è infatti anche un cammino all’indietro che porta solo al tormento, alla disperazione e ad ulteriori trappole. Sì, esiste la tentazione ad un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo alla verità e metterlo sul cammino, gli prospetta l’impossibilità della strada.
Ho abitato per alcuni anni in Calabria, in una piccola comunità di preghiera che accoglieva molte persone. Un giorno capitò da noi un giovane uomo di nome Bertrand. Credo venisse dalla Normandia. I bambini lo chiamavano Gesù, per via della barba e dei capelli lisci e lunghi. Come molti a quel tempo, era scappato da casa alla volta dell’India, nel tentativo di trovare la sua libertà. Per via aveva incontrato solo solitudine, disperazione e la schiavitù della droga, che lo condusse fino all’ultimo gradino della vita. Decise allora di risalire, riprendendo in mano la propria esistenza. Incontrò, non so come, il volto di un Dio che lo amava. Iniziò allora la sua uscita dall’Egitto. Non sapeva dove sarebbe arrivato e quali deserti avrebbe dovuto ancora attraversare. In Grecia incontrò l’Ortodossia, ma era il tempo del golpe militare dei colonnelli e gli sembrò che quella Chiesa fosse troppo stretta in un abbraccio mortale con il regime. Approdò così in Calabria. Nella mia comunità trascorse tre mesi, lavorando alacremente. E pregando in silenzio. Dopo un faticoso cammino all’indietro, nella ricerca dell’idolo perduto, aveva iniziato un pellegrinaggio per ritrovare davvero se stesso e raggiungere così il proprio destino, risalendo alla Fonte.
È chiaro che la vita e l’essere, in noi, derivano da una Fonte invisibile, trascendente e infinitamente ricca. Noi conosciamo questa Fonte in modo oscuro, inesplicabile, ma con una certezza che trascende sia la ragione, sia la semplice fede. Ripartì a piedi, com’era venuto, una mattina d’autunno.
Provvidenzialmente lo ritrovai, qualche anno dopo, in Terra Santa, nel monastero di San Giovanni del deserto, nei pressi di Ayn Karem, dove era entrato per farsi monaco. Potei assistere, non senza un’intensa commozione spirituale, alla liturgia della sua vestizione, quando l’abate gli diede il nome di Benedetto Maria, il santo pellegrino, il mendicante di Dio, che passò la sua vita tra Loreto e Roma, chiedendo l’elemosina e nutrendosi del pane che trovava per strada e della preghiera incessante per tutte le creature, cattive e buone. Custodisco ancora una piccola croce di legno d’ulivo, acquistata in quel monastero, come memoria perenne di quel Salmo che dice:
«Nell’andare se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni» (Sal 126,6).
Bertrand è rimasto nel mio cuore come ricordo di una indefettibile fedeltà di Dio, che «raccoglie nel suo otre le lacrime dell’uomo e le scrive nel suo libro; che conta i passi del nostro vagare» (Sal 56,9) e che può fare di un naufrago perduto un pellegrino che ha ritrovato la via di casa.
Anche il Figlio di Dio è vissuto come un pellegrino, per tutta la vita. È nato a Betlemme, al termine di un faticoso viaggio dei genitori che obbedivano ad una legge dell’Impero. È stato portato in Egitto, ancora bambino, in fuga dall’odio violento di Erode. Si è stabilito a Nazaret, per diventare poi un rabbì itinerante. Dirà di se stesso: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Egli è sempre per via nella ricerca di ciò che era perduto. Il suo pellegrinaggio ha inizio quando egli discende da “presso Dio” per divenire “carne”, come uno di noi (Gv 1,2.14). Percorre le strade dell’uomo sofferente e ammalato, peccatore e perennemente in fuga. Si stanca, ma non cessa di camminare, di cercare. Va di terra in terra, ma non trova l’uomo da nessuna parte. Finalmente lo incontra, nell’oscurità dell’inferno, in quel luogo di maledizione che è la croce. L’uomo si era rifugiato lì, nel punto più lontano da Dio, e lì il Figlio dell’uomo lo trova. È scritto, infatti, che lui cerca il perduto “finché non lo trova” (Lc 15,4.8). Ed è subito festa.
Gesù, da bambino, era stato condotto a Gerusalemme, nel tempio, per essere offerto al Signore (Lc 2,22-24). Nel tempio sarebbe tornato a dodici anni, in compagnia di Giuseppe e di Maria, per affermare il suo singolare rapporto con Dio: egli doveva abitare “nella casa del Padre suo” (Lc 2,49). Nella città santa Gesù sarebbe tornato ripetutamente, stando al vangelo di Giovanni, e avrebbe parlato spesso del tempio come “casa di preghiera” (Lc19,46). Ma non era il tempio lo scopo e la meta del suo pellegrinaggio. Gesù è per via per incontrare l’uomo e per comunicargli un amore, quello di Dio, più forte della potenza del peccato e della morte. Le tappe del suo pellegrinaggio portano nomi comuni di uomini e di donne: Pietro e Andrea, Levi e Maria Maddalena, Marta e Maria, Bartimeo e Zaccheo. E di una moltitudine di poveri, ciechi, lebbrosi, peccatori, nella casa dei quali Gesù è entrato, sostando presso di loro, toccandoli e guarendoli dalle loro infermità e malattie.
Quello di Gesù è uno straordinario pellegrinaggio di fiducia, fino alla morte di croce, “fuori della porta della città” (Eb 13,12). La Scrittura ci invita a continuare il suo pellegrinaggio quando dice: «Usciamo dunque verso di lui, fuori dell’accampamento, portando il suo disonore, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14).
E quale sarà la nostra invocazione mentre la strada ode il rumore dei nostri passi? Può essere quella di un contemplativo del nostro tempo, pellegrino dell’Assoluto: «Che io cerchi il dono del silenzio, della povertà, della solitudine, dove tutto quello che sfioro si muta in preghiera: dove il cielo è la mia preghiera, gli uccelli sono la mia preghiera, il vento tra gli alberi è la mia preghiera, perché Dio è tutto in tutto» (Thomas Merton).
Note
[1] M. Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 1990, p. 21.
[2] Ibidem, p. 23.
[3] F. Bisconti, «Osservatore Romano», 8 maggio 2009, p. 5.