N.06
Novembre/Dicembre 2015

Amare e donare, il frutto di un memoria grata

Ciascuno di noi, se chiude gli occhi per qualche istante e si chiede: «Dove io ho imparato a voler bene?», quasi per incanto si vedrà scorrere dinanzi i volti familiari della propria infanzia: la propria mamma e il proprio papà, i nonni, i parenti vicini alla famiglia, qualche prete o suora, o altri volti per noi significativi.
Sono tutte persone che in maniera diversa ci hanno fatto sentire accolti, voluti bene, curati e aiutati; ci hanno donato amore e ci hanno educato a ridonare amore.
Oggi la situazione è profondamente cambiata e l’esperienza intensa di una accoglienza e di un affetto familiari si scontra con famiglie ferite e frammentate e con una pluralità di rapporti che disorienta i bambini e gli adolescenti e non li aiuta a crescere con una identità positiva e con una affettività capace di decentrarsi e donarsi.
Questa è una regola di vita: chi riceve poco non ha le risorse per donare molto.
Anche se il Vangelo è in grado di scompigliare le carte e di dimostraci il contrario.
Ricordiamo una icona bellissima che ci propone il Vangelo della misericordia e della tenerezza di Luca: Gesù si incontra con una donna che sa amare molto e per questo egli la ricambia con una infinita tenerezza di accoglienza e di perdono (Lc 7,36-50).
Gesù ha accettato di andare nella casa di Simone il fariseo. Alla “Bet hammidràsh”, la casa dove si studia la Legge, il suo gesto di coraggio, di apertura mentale, di mediazione strategica sarebbe stato certamente commentato e non da tutti in maniera benevola. Gli viene concesso il posto d’onore, ma c’è sempre un distacco sussiegoso e il rituale di accoglienza non è eseguito nella sua completezza: sembra una ospitalità molto formale; forse un tentativo di mediazione tra il rabbi contestatore e i Farisei contestati.
Ma ecco che nel cuore della festa entra una visita del tutto inaspettata, una prostituta.
Entra senza che nessuno se ne accorga e vive l’incontro con Gesù nella massima discrezione: non parla, tiene gli occhi bassi, sta alle spalle di Gesù e poi si rannicchia ai suoi piedi; piange e compie gesti di amorosa tenerezza, versando un intero vasetto di olio profumato, molto prezioso, sopra i suoi piedi.
Il resto del racconto lo conosciamo bene… e la conclusione è semplice e provocatoria: quella donna ama assai più di Simone e di tutti gli altri. Per questo suo grande amore, caldo e affettuoso, silenzioso e discreto, generoso sino allo spreco, Gesù la guarisce nel cuore e le dice: «Ti sono perdonati i tuoi peccati, perché sei stata capace davvero di tanto amore».
Ci chiediamo: «Io, di che amore sono capace?».
C’è una “road map” delle nostre relazioni affettive che lo rivela e ci conduce direttamente alla famiglia in cui siamo cresciuti.

«La misura dell’Amore è amare senza misura» (S. Agostino).

Il Sinodo sulla Famiglia, riletto in chiave vocazionale in questo numero di «Vocazioni», porta un titolo emblematico: «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo, oggi».
Come ridare dignità e forza ad una priorità della Chiesa e della stessa pastorale familiare e vocazionale? Come creare le condizioni per una cultura vocazionale della famiglia, affinché essa possa essere “un grembo generativo di vocazioni”?
«La famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali (…) La fragilità dei legami diventa particolarmente grave, perché si tratta della cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli!» (Evangelii Gaudium, n. 66).
È essenziale restituire alla famiglia il primato educativo, integrandolo con la ricchezza di apporti che sorgono dalle vocazioni sacerdotali e consacrate e dalle varie proposte che vengono dalla comunità cristiana e dai suoi pastori.
«Voi genitori siete i primi naturali educatori vocazionali (…) La vostra fedeltà alla chiamata di Dio è mediazione preziosa e insostituibile perché i vostri figli possano scoprire la loro personale vocazione, perché “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10)» (Nuove Vocazioni per una nuova Europa, n. 5).
Tutto questo apre una stagione nuova nella Chiesa, che domanda una maggiore collaborazione tra sposi, presbiteri e consacrati.
Il sogno comune che coltiviamo è che la diffusa preoccupazione di fronte alla sterilità delle nostre chiese rispetto alle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata non sia una preoccupazione soltanto dei sacerdoti, dei consacrati e dei responsabili della pastorale vocazionale, ma divenga anche la preoccupazione delle famiglie cristiane.
Le famiglie non possono fare a meno dei sacerdoti e delle persone consacrate per essere aiutate a vivere pienamente le loro relazioni familiari e per non lasciare che il loro amore sia imprigionato e impoverito tra le pareti di casa.
Anche i sacerdoti e i consacrati debbono essere consapevoli che non possono fare a meno degli sposi per vivere in modo pienamente umano ed evangelico la loro identità e il loro servizio pastorale: in modo caldo e persuasivo, con una forte carica testimoniale, all’interno di relazioni umane piene e mature.
È bello sognare una pastorale vocazionale e familiare in sinergia tra loro: che fare perché non sia solo un sogno?
Per dare un respiro vocazionale a tutta la pastorale è necessario che l’annuncio del Vangelo della Vocazione si intrecci con il cammino delle famiglie, stimolandole nell’accompagnare il discernimento libero dei propri figli, perché si scoprano “chiamati e custoditi dall’Amore” e “inviati per Amare”.
Guardiamo alla Santa Famiglia di Nazaret: Giuseppe e Maria rappresentano tutti gli sposi e i genitori della terra, uomini e donne che, prendendo su di sé le vite dei figli, vivono l’amore senza contare fatiche e paure.
Essi danno volto a tutti coloro il cui «compito supremo nel mondo è custodire delle vite con la propria vita» (E. Canetti); concreti e insieme sognatori, poveri e fragili eppure più forti di ogni potente di questo mondo.