Il Pastor in Agostino: Figlio della chiesa, Discepolo di Cristo, Custode del gregge
Il panorama
Mettersi di fronte al lungo Sermo 46 di Agostino, più comunemente chiamato De Pastoribus, significa scrutare e comprendere la figura del pastore qui tratteggiata dall’Ipponate. Corretto, ma scontato. Nel fare ciò, tuttavia, è importante non trascurare che lo stesso predicatore è a sua volta Pastor, in quanto Vescovo. Fin da subito ecco alcuni tratti essenziali che permettono di comprendere il terreno da cui muove questo lungo discorso che non vuole essere, in alcun modo, un trattato sul Sacerdozio e che, proprio per questo motivo – forse – trova ampio spazio nel Breviario. È questa l’occasione per una riflessione continua e una meditazione che accompagna la maturità di ciascun lettore nel tempo che sia egli vescovo, sacerdote, diacono o fedele cristiano. Ciò che colpisce fin da subito, infatti, sono i destinatari di questa lunga omelia: non i religiosi consacrati, ma il semplice popolo di Dio. E qui troviamo il genio del Vescovo d’Ippona.
Scritto tra il 408 e il 414, Agostino si pone in polemica con i Donatisti, gruppo ecclesiale che pretendeva di incarnare l’unica vera Chiesa, quella dei Santi, erede della tradizione africana, ciprianea in particolare, che in realtà si allontanava da una certa romanità. A questo problema Agostino dedicherà ampio spazio dal numero 31 in poi del Sermone in esame. Non tralasciamo un dato curioso: nella città di Ippona la cattedrale donatista era costruita proprio di fronte alla cattedrale cattolica. Vedere uscire da una chiesa un cristiano e vederlo entrare nell’altra poteva non dire nulla, poiché la professione nell’Unico Cristo era la stessa, o poteva dire tutto, in quanto andava a intaccare la vera ed autentica cattolicità. Per questo motivo l’Ipponate si rivolge alla Chiesa della sua città e, parlando ad essa, parla a tutta la Chiesa del suo tempo in quanto Vescovo.
Colui che parla è Pastor e sa di dover insegnare sollecitando l’ascoltatore con le parole: «Entra con me, se puoi, nel santuario di Dio» (Serm., 48,8), certo anche che, mentre insegna, egli stesso impara dal suo Maestro, per cui «impara con me da colui che mi ammaestra» (Serm., 48,8).
La sua predicazione è rivolta a tutti coloro che lo ascoltano: a gruppi ristretti o a grandi folle convenute nelle chiese, «capaces aut tardiores»(Serm., 52,20), silenziosi o rumorosi; a tutti l’Ipponate si rivolge dicendo: «Chi intende ne goda; chi non intende, creda» (Serm., 118,2), riferendosi al contenuto delle sue parole che lo rivelano come teologo, squisitamente capace di una sintesi tra preghiera, vita pastorale e speculazione teologica. Egli parla, così, al credente senza rinchiuderlo in una condanna, ma chiedendogli coerenza tra fede e vita, memore egli stesso della sua esperienza descritta, qualche decennio prima, nelle Confessiones, nelle quali narrava come anche la sua vita fosse da sempre prevenuta e sorretta dal dono della Grazia: «Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità» (Conf., X, 27, 38).
Persino la sua stessa difficoltà a spiegare alcuni passi della Scrittura altro non rivela che la grandezza dell’incontro con questo dono della Grazia, richiamando la buona volontà degli uditori ai quali chiede: «Mi usi pazienza la vostra carità […] perché la vostra fatica sia giovevole, sia paziente il vostro ascolto» (Serm., 42,1).
Non da ultimo è da considerare lo spirito del predicatore per cui egli dovrà porsi verso se stesso, verso gli uditori e verso la Parola che annuncia con un atteggiamento di sincera umiltà perché «la condizione di maestro è rischiosa, mentre la condizione di discepolo è sicura […] È più tranquillo l’ascoltatore che l’oratore» (Serm., 23,1). Un’umiltà spesa nel segno della prudenza e dalla quale nessuno è dispensato, infatti «è più prudente perciò, sia per noi che parliamo sia per voi che ascoltate, riconoscerci condiscepoli dell’unico Maestro. È certamente più prudente ed è meglio che voi ci ascoltiate non come vostri maestri ma come vostri condiscepoli» (Serm., 23,1). Comprendere o no, non dipende dall’essere intelligenti o dal non esserlo, ma dal fatto che la Parola stessa trovi più o meno posto nel cuore dell’uomo secondo lo spazio che egli, in una libertà donata, concede ad essa.
Ecco la trasversalità di un discorso fatto al popolo, il cui contenuto però è riferito a coloro che lo guidano: i pastori. Sarà il monito ripetuto più volte in tutto il capitolo 34 del Libro di Ezechiele a guidare la riflessione omiletica di Agostino, prolungando la profezia veterotestamentaria: «Guai ai pastori che pascolano se stessi! Non dovrebbero forse pascere il gregge?» (Ez 34,2).
Quale figura di Pastor viene qui tratteggiata da Agostino? È ancora attuale alla riflessione della Chiesa del nostro tempo?
- Cristo: fondamento dell’identità del Pastore
«Tutta la nostra speranza è in Cristo; egli è tutta la nostra gloria, gloria vera e salutare. La vostra Carità non ode oggi per la prima volta queste cose: voi infatti appartenete al gregge di colui che provvidamente pasce Israele» (Serm., 46,1).
Alla luce di questo fondamento iniziale, Agostino descrive il ruolo ricoperto dal destinatario di questa omelia, in quanto oves, e quello di colui che parla, poiché Pastor: la forte consapevolezza dell’Ipponate sta nel riconoscere che gregge e pastore (che qui possiamo intendere, in modo più ampio, in riferimento al sacerdote) appartengono all’unico gregge che Cristo pasce, io sono il buon pastore (Gv 10,11), Cristo-Pastore «nel quale Dio stesso si prende cura della sua creatura, l’uomo, raccogliendo gli esseri umani e conducendoli al vero pascolo»[1]. Solo la consapevolezza di essere gregge può significare l’impegno a divenirne poi pastore, così come l’obbedienza insegna la vera paternità e il discepolato illumina il ministero di maestro. Un percorso, questo, che apre cuore e mente di ogni uomo alle parole di Cristo, proprio perché Egli dice: «Prendete il mio giogo sopra di voi ed imparate da me» (Mt 11,29) che nessuno potrà «legare fardelli pesanti e difficili da portare sulle spalle della gente» (Mt 23,4). Questo è lo sguardo di Cristo sul suo gregge, che il Padre gli ha affidato, sguardo che interpella alcuni, scelti tra loro, a divenire Pastores eius, in quanto Pastores sui. Qui si gioca la comprensione della propria identità da cui poi scaturisce la missione: Cristo chiede di fare esperienza di lui essendo inseriti in lui poiché, «rendendoci suoi, ci affida tutto; ci affida tutto se stesso»[2].
Ecco compreso il punto di partenza della riflessione omiletica dell’Ipponate speso nella distinzione identitaria del Pastor tra «la dignità di cristiani e quella di vescovi: la prima è per noi, l’altra è per voi» (46,2): Agostino non è intenzionato a mettere sullo stesso piano il ministero della guida e quello di colui che è guidato, ma vuole ricondurre entrambi alla centralità dell’autorevolezza di Cristo «al quale dovremo rendere conto del nostro ministero» (46,2).
1.1 Pastores qui pascunt se solos, non oves. I propri interessi e non quelli di Cristo
Cristo annuncia che «mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato» (Gv 4,34), cioè «che non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (Gv 6,39): non c’è spazio per una personale autoreferenzialità nel ministero. Esso è dono e, come tale, deve spendersi nella gratuità e nell’edificazione del Regno di Dio in quanto Cristo è venuto perché gli uomini «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Agostino reclama nei confronti di coloro che si pongono come pastori, ma poi si rivelano incapaci di pascere il gregge, divenendo «causa di morte per l’uno e per l’altro» (46,9). Pastori che giustificano i loro interessi chiedendo al popolo onerosi tributi motivando un proprio tornaconto reso saldo sulla stessa Parola di Cristo quando disse che «chi lavora ha diritto al suo nutrimento» (Mt 10,10) senza attendere, però, dal Signore «la ricompensa delle loro fatiche» (46,5). Si possono anche incontrare Pastores capaci di destreggiarsi all’interno delle parole del profeta perché «vi nutrite di latte e vi vestite di lana» (Ez 34,3), dove latte e lana, nutrimento e ospitalità, divengono metafore di ricompense dovute, sì, all’inviato del Signore, ma che necessitano anche di quella umiltà nella quale il Pastor si rivela autenticamente evangelico: «Non sono io che debbo essere ben provvisto, ma siete voi che non dovete rimanere infecondi» (46,4). Infatti altrove l’Ipponate non rinuncia a dire che «un buon servo di Cristo è colui che serve a coloro ai quali Cristo ha servito» (Io.Ep., 10,8).
Alla luce di questo sguardo cristologico ecco definita la dignità di tutto il gregge, Pastores et oves, per cui Agostino entra in quelle questioni più minuziose che rivelano la separazione tra ciò che si è diventati, per Grazia, e gli errori nei quali si incorre nell’esercizio di un così alto impegno ministeriale. Eccolo stemperare la vita del Pastor nel suo ministero sacerdotale ricevuto come dono, vissuto, e a volte sperperato: il vescovo della Chiesa africana vuole giudicare alcune scelte e alcuni atteggiamenti non alla luce di un moralismo o di un comportamentismo, ma in quanto occasione di separazione della personale relazione con Cristo ponendosi, a volte, anche fuori dalla Chiesa.
Dapprima l’ascolto. Porsi di fronte a una pecora malata proclamando solamente che «la misericordia di Dio è senza limiti e tutto lascerà correre» (46,8) significa trascurarla facendola cadere in una rovina più grande: «La pecora è debole quando ha debole il cuore» (46,10) e, per la sua salvezza, è necessario l’imperativo: «Toglilo da sopra la sabbia e ponilo sulla roccia» (46,11). La debolezza infatti fa crollare sotto la prova più che la malattia nell’infermità: questa può essere guarita, ma la prima ha bisogno di essere sostenuta non con promesse e felicità temporali «che Dio in nessun modo ha promesso» (46,11), da chi vuole solamente «essere lusingato con infondate speranze» (46,12). Questo significa pascere se stessi e lasciare che le pecore, nella loro inquietudine, vivano come stordite e si disperdano. Gesù invece è colui che «si è incamminato per cercare la pecora smarrita: l’umanità; l’immagine di Colui che ci segue fin nei nostri deserti e nelle nostre confusioni […] che ha preso sulle sue spalle e la porta a casa. È divenuta l’immagine del vero Pastore Gesù Cristo»[3].
Conseguenza grave, infatti, derivante da questa trascuratezza è proprio la dispersione del gregge e, «sperdute, sono diventate preda di tutte le bestie feroci» (Ez 34,5). E così non solo le pecore deboli non vengono sostenute, ma anche quelle forti cadono in balia di «pastori che non sono pastori» (46,16) e, ascoltando la loro voce, si incammineranno verso monti e colli che porteranno a burroni e morte. Ma verso quale morte esse si dirigono? Abbandonato il gregge, esse «abbandonano l’unità» (46,17) e, frastornate dalle molte voci, non sentono più il riverbero dell’autentica voce che le aveva chiamate a stare nel gregge poiché non odono più la voce del vero ed unico Pastore, di Colui, cioè, che dice: «Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). Chi può riedificare l’unità se non colui che l’ha voluta e generata? Il Pastor che non esorta a stare saldi nel Signore è uno a cui non importa delle pecore: «È mercenario, rapisce, disperde e fugge» (Gv 10,12); e l’interesse del mercenario non è quello di portare a sé le pecore, ma di disperderle: e qui Agostino ha ben chiara la posizione della Chiesa donatista e si schiera con autorevolezza contro di essa e contro coloro che lasciano la Chiesa cattolica pensando di trovare altrove una salvezza. Emerge qui il pensiero ecclesiologico dell’Ipponate, per cui ciò che è di Cristo nelle sette, è della Chiesa, cioè del Corpo di Cristo vivificato dallo Spirito; afferma infatti: «Raccogli pure l’uva che pende in mezzo alle spine ma nasce dalla vite» (46,22).
1.2 Pastor non deserit eas. Inquirit eas. La ricerca, verità del pastore buono
La ricerca è ciò che caratterizza il Pastor bonus: «Pioggia e nebbia sono gli errori del mondo presente, grande è la foschia che si leva dalle passioni umane» (46,23), ma «io ricercherò le mie pecore e le ricondurrò all’ovile da ogni luogo» (Ez 34,12); profezia che trova pieno compimento in Cristo, poiché «ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare» (Gv 10,16). A questo punto Agostino recupera una certa essenzialità: egli descrive in diversi modi e con minuzia come riconoscere un falso Pastor, ma si serve di poche battute per riportare alla centralità di Cristo, quale fondamento identitario del vero ed autentico Pastor: l’Ipponate fatica a dare voce ad una verità personale se non in quanto gratia cooperans, una libertà abitata dalla Grazia. Proprio per questo il vero pastore «non dice di suo ma da parte di Dio» (46,22) e gli sarà chiesto di declinare la sua vita alla luce della Parola di Dio affinché le pecore si raccolgano «attorno ai monti che sono le Sacre Scritture […] pascoli inesauribili […]. Lì avranno modo di riposare, lì diranno: ora stiamo bene» (46,24).
L’immagine del monte rivela il significato del cammino e della fatica, soprattutto di quella fedeltà alla Scrittura da cui il pastore non può prendere distanze: egli deve «conoscere Cristo in modo sempre più personale, ascoltandolo, vivendo insieme con lui, trattenendoci presso di lui […] e, così, portare Cristo agli uomini»[4].
Al Pastor è chiesta questa fedeltà amorevole verso la Parola, cosciente di quella sensazione che «riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca sarà dolce come miele» (Ap 10,10), fedeltà a cui fa seguito, a volte, l’esemplare comportamento, come risposta al dono ricevuto in testimonianza alla fedeltà stessa. Anche se il Pastor buono dovesse inciampare e cadere, sarà la sua fedeltà a Cristo che farà dire al gregge: «Noi stiamo tranquilli perché seguiamo i nostri pastori» (46,21), quei Pastores che impersonano Cristo.
Ed ecco Agostino fare un salto pindarico: «Io ricercherò, io richiamerò, io fascerò, io rinvigorirò, io custodirò le pecore perdute, quelle in fin di vita, quelle grasse, quelle robuste» (Ez 34,16). L’autentico Pastor Bonus è Cristo: egli è «l’unico a pascere perché pasce con giudizio e solo Dio pascola con giudizio, distribuendo a ciascuno quel che gli compete» (46,26).
Se la dispersione del gregge è la colpa più grave che si possa infliggere ai Pastores, ecco che l’edificazione dell’unità diventa motivo e ragione del pascolo: proprio nell’unità dell’identità, personale e soprattutto comunitaria, il gregge «si rallegra quando ode la voce dello sposo» (46,29) e questo è possibile solo quando «i buoni pastori sono tutti nell’unità, sono una cosa sola. In essi che pascolano, è Cristo che pascola» (46,29).
Cercare Cristo, nella sua Parola e nella relazione con lui, è fondamento della ricerca di ogni pecora smarrita e l’impegno nella sua conoscenza: cercare e conoscere Cristo diviene fondamento di quell’atteggiamento per cui «conoscere le pecore deve essere sempre un conoscere il cuore»[5]. Ecco ricomposto tutto il gregge, costituito da Pastores et oves insieme, sotto l’unico Pastor Bonus, Cristo.
- Pastore e gregge: la testimonianza tra verità e coerenza
«Tuttavia, comportandoci in questa maniera, vi annunzieremo non le parole di Dio o di Cristo, ma le nostre parole; e saremo pastori che pascono se stessi, non le pecore» (46,8): questo diventa motivo perché Agostino possa dire alle pecore del gregge di Cristo: «Sottraetevi al loro pascolo, facendo le opere che essi insegnano, vi lascerete pascere da me, poiché mie sono le cose che essi, pur senza praticarle, vi dicono» (46,22).
Senza scadere in un certo moralismo che ossessiona da sempre il rapporto tra fede e vita e che, nel tempo, ha declinato giudizi e proferito accuse, con Agostino ci poniamo più su un versante di verità cristologica per comprendere la coerenza: solo alla luce della verità di Cristo è possibile dare il nome alla menzogna dell’uomo, quale squilibrio tra ciò che crede e come lo rende visibile. Cristo è la Roccia e, quindi, fondamento su cui «chiunque ascolta ha costruito la sua casa» (Mt 7,24), una casa a cui comunque non è risparmiata alcuna intemperie, poiché «cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa» (Mt 7,25), ma a cui è data la certezza di non cadere, poiché «essa non cadde perché era fondata sulla roccia» (Mt 7,25). Questo siamo noi, gregge tutto: Pastores et oves.
Non è forse vero che l’eccessiva sicurezza del proprio ruolo e della propria autorità, di cui resta investito colui che ha ricevuto il ministero sacerdotale, ha autorizzato molti Pastores a buttare fuori dalla personale esistenza la possibilità della fragilità, quale intemperie improvvisa? Magari insegnandolo anche a numerosi oves. Così tutti, resi forti da un certo rubricismo e legalismo, declinano la coerenza semplicemente nella propria esteriorità invece di assumerla ed elaborarla all’interno di una identità di appartenenza: «Fissando Cristo, vivete una vita modesta, solidale con i fedeli cui siete mandati»[6]; un fissare che illumina anche una personale umanità fragile e alimenta la comprensione di quella altrui poiché «siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in lui, la misura del vero umanesimo»[7].
Volgere lo sguardo a Cristo e metterlo a fondamento di tutta la personale esistenza non significa eludere la propria umanità, tradendo così il mistero dell’Incarnazione: lo sguardo a Cristo chiede invece di rifocalizzare un’illusoria miopia che porta più a “evadere” piuttosto che a “inverare” la propria esistenza! È Cristo che invera ogni personale esistenza, ancor più quella di colui che è chiamato ad essere Pastor. Di questo Agostino è convinto al punto da ricordare il monito: «Praticate ciò che vi dicono» (Mt 23,3): dove è presente la Parola di Dio, anche la fragilità dell’uomo è compresa in altro modo perché «l’uva pende dal cespuglio di spini ma non nasce dalla radice dello spino» (46,22).
Ecco che la coerenza non può essere ridotta semplicemente ad una sintesi equilibrata tra fede e vita, tra dire e fare, tra essere e agire: il tempo in cui viviamo interpella su altro, oggi come allora. L’equilibrio impone di vivere come sospesi frammezzo, tenendo in sospeso anche altri, incapaci di decisione, quasi per non offendere una certa linea di demarcazione magari anche autocostruita, quando non imposta. Un equilibrio cosiffatto è una vera e propria sospensione della responsabilità: né qui, né là. Troppo semplice e, nello stesso tempo, troppo rischioso, considerato che ogni estremismo rigorista da una parte, e lassista dall’altra, hanno sempre generato nella storia degli schiavi.
Tutto il gregge di Cristo è invece chiamato a rendere vitale e armonica una libertà vissuta nel segno di una personale e reciproca responsabilità in riferimento a Cristo, poiché «a chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 32,48). Nessuno può pretendere di vivere pienamente il dono ricevuto da Cristo senza impegnarne il talento: Gesù condanna la mancanza di responsabilità di quel servo che osa porsi di fronte al suo padrone giustificandosi e dando ragione al suo non-operato affermando: «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,25) e rivelandosi come il primo Adamo che, chiamato da Dio, rispose: «Ho avuto paura e mi sono nascosto» (Gen 3,10).
Pastore e gregge testimoniano il loro essere uniti a Cristo quando «in loro c’è la sua voce e la sua carità […]. In simili pastori pasce l’unico pastore» (46,30) uscendo, così, da un certo rigido individualismo e vivendo una reale e vivificante relazione d’amore con Cristo, spesa nell’impegno dell’edificazione del Regno: «Mi ami tu? Pasci le mie pecore» (Gv 21,15-17).
- Intelligenza e cuore: il Pastore in quanto figlio, discepolo, custode
«Mai dunque succeda che veniamo a dirvi: Vivete come vi pare! State tranquilli. Dio non condannerà nessuno: basta che conserviate la fede cristiana […]. Se vi facessimo di questi discorsi, forse raduneremmo attorno a noi folle più numerose» (46,8).
Accanto all’armonia tra fede e vita costruita sul fondamento della propria appartenenza a Cristo, Agostino richiama in profondità ciò che spesso succede quando il cuore, dimora dello Spirito, e la mente, sede della ragione, non si sostengono nella sinergia di una fede ragionevole e di una ragione fiduciosa.
Non è forse vero che l’intelligenza, con la sua proprietà di ragionevolezza, è in grado di elaborare situazioni, percorsi e intuizioni molto più velocemente del cuore che, con la sua peculiarità di essere anche luogo dei sentimenti, si trova ad elaborare le stesse situazioni, percorsi e intuizioni più lentamente?
Intelligenza e cuore hanno bisogno di fare un percorso che, pur nella loro singolarità, non li separi ulteriormente. Il Pastor deve consapevolmente assumersi la responsabilità di portare gli altri a Cristo e non a se stesso, per cui non darà il cuore senza intelligenza, tanto meno si barricherà dietro un’imposizione ragionata, ma non visitata dall’amore.
Non accondiscenderà ad ogni richiesta così da «non premunire i fedeli contro le tentazioni» (46,11), ma si mostrerà docile nel segno della misericordia perché «tutti vivano pienamente in Cristo» (46,11). Non giustificherà chi si presenta col suo errore o il suo peccato «attirando a sé folle più numerose» (46,8), ma rivelerà un’amorevole giustizia di contro al mondo che «è pieno di giudizi avventati» (46,27). Non sarà uomo che guarda a se stesso divenendo uomo di divisione, infatti solo «l’orgoglio produce disgregazione e la superbia è sua madre» (46,18), ma indicherà a ciascuno, e a tutti, il vero «Amore che conduce all’unità» (46,18).
In questa sinergia di intenti e operazione ecco sviluppata da Agostino l’identità del Pastor: proprio perché ha origine in Cristo, come il tralcio è unito alla vite (Gv 15,4), egli è anzitutto figlio di una Chiesa «madre, che in ogni luogo ricerca gli smarriti» (46,18), ed essendo sotto lo sguardo e la Parola di Cristo, è suo discepolo e «non è ostacolato dall’opacità delle nubi» (46,23), così da divenire, poi, autenticamente «pastore che la regge» (46,18) nel segno di colui che «rafforza i deboli, cura i malati, fascia gli spezzati» (46,18). Unito a Cristo, il Pastor resta legato alla Chiesa: infatti «l’obbedienza a Cristo, che corregge la disobbedienza di Adamo, si concretizza nell’obbedienza ecclesiale»[8].
A questo punto assume una maggiore portata il ruolo che viene affidato e disvelato nel tempo ai Pastores: infatti «la grandezza del sacerdozio di Cristo può incutere timore […] perché facciamo fatica a credere che Cristo abbia chiamato proprio noi. Gesù ha fissato con amore ciascuno di noi, e in questo suo sguardo dobbiamo confidare»[9]. È lo sguardo di Cristo che non chiama più servi ma amici (Gv 15,15) a rivelare la nuova dignità quale «significato profondo dell’essere sacerdote. Per questa amicizia dobbiamo impegnarci ogni giorno di nuovo. Amicizia significa comunanza nel pensiero e nel volere»[10].
Agostino consegna alla sua Chiesa una riflessione sui Pastores che resta attuale anche per la Chiesa e i cristiani di oggi. Pur consapevoli di essere indegni del dono ricevuto, tuttavia la quotidiana fedeltà a Cristo e la vita spesa nella Chiesa al servizio dei fratelli restano a fondamento di una vita cristiana a cui tutti i battezzati hanno il dovere di volgere lo sguardo vivificandola nella personale e comune esistenza. Ma ai Pastores, diaconi, presbiteri o vescovi che siano, è chiesta una maggiore responsabilità poiché «a chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà chiesto molto di più» (Lc 12,48).
E, ai Pastores, Cristo ha affidato la sua Chiesa perché ne siano custodi amorevoli, riconoscendosi discepoli e vivendo come figli, affinché la servano con intelligenza e cuore.
Note
[1] Benedetto XVI, Ordinazione Presbiterale, 7 maggio 2006.
[2] Id., Giovedì Santo, 13 aprile 2006.
[3] Id., Ordinazione Presbiterale, 7 maggio 2006.
[4] Id., Giovedì Santo, 13 aprile 2006.
[5] Id., Ordinazione Presbiterale, 7 maggio 2006.
[6] Id., Al Clero di Varsavia, 25 maggio 2006.
[7] Id., Al Clero di Roma, 13 maggio 2005.
[8] Id., Al Clero di Roma, 13 maggio 2005.
[9] Id., Al Clero di Varsavia, 25 maggio 2006.
[10] Id., Giovedì Santo, 13 aprile 2006.