N.02
Marzo/Aprile 1997

Uno specchio in cui riflettermi, una compagnia verso il profondo

 

 

Uno specchio in cui riflettermi

Sono cresciuta in una parrocchia della diocesi ambrosiana. Uno dei sacerdoti coadiutori aveva il compito di dedicarsi principalmente alla pastorale giovanile, dai primi passi dell’iniziazione cristiana (la preparazione ai sacramenti) fino a accompagnare i ragazzi nelle loro scelte di vita. Il suo esempio, la capacità di dono e accoglienza, la scelta coerente di annunciare e vivere Cristo, mi hanno portato all’età di sedici anni a offrire la mia disponibilità per un servizio all’interno della parrocchia come catechista dei bambini, inizialmente come aiuto, poi come responsabile. Prima degli incontri con i bambini partecipavamo a una riunione settimanale con il sacerdote per svolgere insieme la traccia programmata all’inizio dell’anno; e così avevamo non solo la possibilità di proporre eventuali modifiche o iniziative nuove adattandole ai fanciulli stessi, ma ci sentivamo corresponsabili nell’annuncio e nella catechesi.

In più, lo stesso sacerdote animava incontri di catechesi e di scambio e momenti di preghiera per tutti i giovani, qualunque fosse il loro ambito di servizio, suddivisi a seconda dell’età, del cammino spirituale e umano e invitava noi giovani a partecipare alle iniziative della diocesi. Queste attività vissute e interiorizzate hanno favorito in me la comprensione dell’importanza di porsi con attenzione verso ogni persona, di accoglierla per quello che è, unica e irrepetibile, e soprattutto mi ha permesso di percepire la grandezza di Dio che, nella sua onnipotenza, si fa dono per tutti indistintamente.

La disponibilità del sacerdote non era solo rivolta ai giovani della parrocchia, ma anche agli ultimi, i disoccupati, i poveri, i tossicodipendenti, gli extra-comunitari, sulle orme e nello spirito di Francesco e Chiara: tutti potevano rivolgersi a lui, bussare alla porta del suo cuore e trovare accoglienza.

Un esempio concreto fu quello di accogliere un ragazzo sieropositivo quando, non essendo ancora scientificamente chiaro come si trasmettesse l’AIDS, molta paura e diffidenza circondava queste persone. Lo vestì e lo nutrì, trascorrendo con lui i pomeriggi in oratorio e offrendogli ospitalità in casa sua, che non gli negò neppure dopo il furto delle offerte. Riuscì a farlo sentire uno di famiglia fino al punto che anche i ragazzini si avvicinavano a salutarlo.

La testimonianza di questo sacerdote è stata per me uno specchio in cui ho potuto riflettere le mie scelte di vita e mi ha aiutato a non chiudermi in me stessa, nel mio perbenismo, ma ad allargare gli orizzonti per essere presente nella società in modo diverso: cercando di lasciarmi illuminare dal vangelo, dal comandamento dell’amore e soprattutto cercando di cogliere in ogni persona ammalata, sola, impaurita – e in particolare nei bambini che accompagnavo con la catechesi – lo sguardo di Cristo. Questa esperienza mi ha fatto anche toccare con mano i miei limiti, le mie fragilità, e comunque mi ha indotto a sentire tutta la povertà e l’umana impossibilità di raggiungere tutti.

In questo contesto, nella lotta tra l’efficientismo e la consapevolezza che la grazia di Dio sostiene il nostro operare, tra il voler raggiungere tutti con il fare e la certezza che ciò è realmente possibile con la preghiera nella comunione con Dio, la scelta di una vita donata e consacrata al Signore nella contemplazione ha preso consistenza, e l’ho scoperta come il luogo in cui poter essere presente e “attiva”. Dalla grata del monastero di clausura, posso quindi sinceramente esprimere la mia gratitudine a questo sacerdote che mi ha aiutato nel cammino formativo di crescita umana e spirituale.

Sr. Chiara Letizia

 

 

 

Una compagnia verso il profondo

Sono entrata in monastero dopo diversi anni di esperienza parrocchiale, ci Torino, la mia città. Inizialmente frequentavo il catechismo (e rischiai di essere mandata via per la mia troppa vivacità!), poi i gruppi delle scuole medie e quelli delle scuole superiori, incominciando nello stesso tempo il servizio di catechista e animatrice dei ragazzi più piccoli; infine, mi impegnai nel laicato giovanile, che era, ed è tuttora, il gruppo che raccoglie i giovani dopo i 18 anni, assumendo via via maggiori impegni nella catechesi e nell’animazione liturgica e oratoriana.

Premetto che provengo da una parrocchia affidata ai Frati Minori. Ritengo si tratti di un’esperienza per certi aspetti diversa da quella di una parrocchia guidata dai preti diocesani: in primo luogo per la presenza costante di una comunità religiosa, che già in se stessa vive tutte le dinamiche proprie della comunità cristiana nel suo insieme; in secondo luogo per l’impronta carismatica specifica dell’Ordine francescano che, in qualche modo, si riflette anche nelle attività specificamente parrocchiali. Questi aspetti hanno inciso in modo particolare sulla mia scelta di consacrazione (e non solo sulla mia, tenendo presente che dalla mia parrocchia in questi ultimi 15 anni sono maturate 4 vocazioni clariane e 2 francescane).

Sono convinta che un giovane più che di parole, pur necessarie, abbia bisogno di confrontarsi con esperienze concrete autentiche. La vocazione non si improvvisa, ma si manifesta nella crescita di fede sostenuta e stimolata dalla comunità entro la quale la persona, maturando, vede delinearsi progressivamente la propria identità umana e di credente, e le conseguenti prospettive di vita a cui mirare per realizzarla. La crescita nella fede, nella mia esperienza, è stata accompagnata e mediata dalla famiglia, dalla comunità parrocchiale, ma soprattutto dai frati chiamati a servizio della parrocchia.

Ripercorrendo la mia storia, ricordo in modo particolare il viceparroco, responsabile della pastorale giovanile e oratoriana negli anni della mia adolescenza. Sotto la sua guida si fecero scelte ben precise di apertura verso il sociale, avendo così modo di confrontarci con esperienze diverse da quelle dell’oratorio. Mi viene in mente un “meeting sulla pace”, organizzato insieme ai giovani che lavoravano nel quartiere, per lo più della FGCI. A uno degli incontri partecipò anche don Ciotti, responsabile del gruppo Abele.

L’oratorio venne aperto a tutti, in particolare a quei ragazzini che, diversamente, avrebbero trascorso le loro giornate in mezzo alla strada. Per sostenere questa attività, piuttosto impegnativa, negli anni successivi alcuni giovani, stimolati e sostenuti dal parroco, scelsero di fare il servizio civile in parrocchia, inserendosi tra gli obiettori della Caritas.

In ambito più strettamente religioso, il viceparroco fu l’animatore di un’attività ecumenica, in seguito alla quale alcuni altri giovani entrarono a far parte del SAE. Vennero organizzati incontri di preghiera interconfessionali e tavole rotonde, tra cui una, interessantissima, sul tema “Celibato e matrimonio”, a cui insieme al nostro parroco partecipò un pastore valdese e un prete ortodosso.

Tutto questo senza trascurare gli impegni direttamente inerenti alla vita parrocchiale: si introdussero corsi di formazione biblica, teologica, di storia della Chiesa; si costituirono gruppi di catechesi e animazione per le diverse fasce di età; si organizzarono campi-scuola, giornate di ritiro, gite e piccoli recitals. Alcuni giovani entrarono a far parte del consiglio pastorale, altri della San Vincenzo parrocchiale.

Oltre alla Celebrazione eucaristica domenicale e agli incontri mensili di preghiera, venne introdotta una Celebrazione eucaristica infrasettimanale animata da noi ragazzi, durante la quale il viceparroco e in seguito il parroco svolgevano una catechesi liturgica mettendo in evidenza ogni volta un momento della celebrazione stessa. Si instaurarono rapporti con le parrocchie confinanti, riuscendo a collaborare in alcune attività. Ciò diede a noi giovani la possibilità di crescere nella consapevolezza di appartenere a una Chiesa locale.

In quegli anni entrammo in contatto con una comunità di clarisse. Si ebbero alcuni momenti d’incontro nella foresteria del monastero, sia come gruppo che individualmente. Io avevo 16-17 anni, e per la prima volta intuii che avrei potuto intraprendere un cammino di consacrazione al Signore in monastero. Questa prospettiva mi fece nascere dentro una grande gioia, tant’è che incominciai a celebrare parte della Liturgia delle ore per sentirmi più vicina alla preghiera delle sorelle. Ma tra questa prima intuizione e la scelta definitiva si interpose l’amicizia e il fidanzamento con un ragazzo. Il viceparroco, che mi ha accompagnato nelle tappe più importanti della mia crescita, accolse la mia volontà di seguire questo nuovo cammino, ma senza particolare entusiasmo. Pur rispettando la mia scelta, mi sembrava un po’ perplesso, benché di giovani coppie ne avesse incoraggiate e guidate molte.

Ricordo un altro momento importante: quando, terminato il liceo artistico, decisi di frequentare l’anno integrativo per iscrivermi alla facoltà di matematica. Fu ancora il viceparroco ad esortarmi a non sciupare ciò che il Signore mi aveva donato in modo tanto evidente e mi sollecitò a far fruttare questi doni continuando gli studi artistici. Non molto convinta, accettai di sostenere l’esame di ammissione in Accademia, quasi per scommessa. I risultati furono molto buoni, e così decisi di frequentare i corsi, che poi portai a compimento in modo brillante per la gioia dei miei genitori.

Nel frattempo, il viceparroco fu chiamato dal Provinciale a un altro incarico, e lasciò la parrocchia, senza poter essere sostituito. Per due anni circa, pur facendo riferimento al parroco e alla comunità dei frati, non potemmo essere seguiti a tempo pieno nelle nostre attività. Fu per tutti noi giovani un periodo di grande impegno e di presa di coscienza dell’importanza del laicato all’”interno della Chiesa, ma col rischio di cadere nell’attivismo a scapito della preghiera e della vita sacramentale. Il parroco, intuendo questo rischio e consapevole di quanto fosse importante anche per noi giovani la vita liturgica, ci invitò a impegnarci in prima persona costituendo all’interno del “Laicato giovanile” un piccolo gruppo liturgico. Sempre da lui sollecitati, io insieme ad altri ci impegnammo a frequentare i corsi diocesani di animazione liturgica.

Quando giunse il nuovo viceparroco, ordinato da poco, avevo già maturato la scelta; pur sofferta, di interrompere il fidanzamento, per quanto fosse stata per me un’esperienza forte e arricchente, e di riprendere il cammino verso la consacrazione. Egli mi accompagnò negli ultimi mesi prima che entrassi in monastero, aiutandomi a recuperare e interiorizzare nella fede quegli aspetti della vita cristiana che avevo un po’ trascurati, quali il sacramento della riconciliazione e la direzione spirituale. Mi stimolò, inoltre, a partecipare all’Eucaristia quotidianamente (cosa che fino ad allora mi pareva esclusiva di “baciapanche” o persone anziane!) aiutandomi a comprenderne il valore profondo.

Ora che sono in monastero da poco meno di dieci anni, non posso che ringraziare il Signore per il cammino fatto in questa comunità parrocchiale, per la fraternità dei frati minori che con letizia e semplicità l’hanno servita e la servono tuttora, per il parroco e i viceparroci che si sono avvicendati negli anni della mia crescita. E particolarmente per gli ultimi due viceparroci, che mi hanno seguita più da vicino comprendendo e sostenendo la mia vocazione: il primo intuendola e facendomi incontrare le clarisse, il secondo credendoci e accompagnando la mia decisione. E, sembra paradossale, le più stupite furono le sorelle che poi mi accolsero, le quali si meravigliarono molto che, del piccolo gruppo che aveva continuato a frequentarle, fossi proprio io, apparentemente tanto svogliata e poco devota (mi avevano soprannominato “il maschiotto”: certamente non ero il ritratto dell’aspirante suorina piena di fervore divino!) a chiedere di entrare in monastero.

Sr. Chiara Francesca