La formazione alla pastorale vocazionale nei progetti educativi dei Seminari italiani
Un giorno un Vescovo andò a visitare un monastero e i monaci, che vivevano solo di pane e acqua, si diedero un gran da fare per preparargli un pranzo degno di lui. Al termine, gli chiesero trepidanti: “Abbà, come hai trovano la nostra carne?”. Il Vescovo rispose: “Per caso, sotto una foglia di insalata”.
Mi è venuta in mente questa facezia dei Padri del deserto nel rileggere nella prospettiva della formazione alla pastorale vocazionale alcuni progetti educativi di Seminari italiani. La domanda che mi ero posto in partenza era: “In che modo i progetti educativi prevedono la formazione alla pastorale vocazionale dei futuri presbiteri?”. La domanda è molto puntuale. Non si tratta di vedere come viene sviluppato in generale il tema della vocazione (ma anche su questo punto ci si aspetterebbe più di quanto in effetti si trova!); non si tratta neppure di approfondire semplicemente il tema della formazione dei seminaristi alla pastorale delle vocazioni (cfr. il contributo di L. Bonari) o di mettere a fuoco il taglio vocazionale della presenza dei seminaristi nelle attività pastorali (cfr. il contributo di L. Conti).
Si tratta di verificare quale attenzione i progetti educativi dei Seminari italiani riservino a questi ultimi due aspetti e, più globalmente, alla formazione alla pastorale vocazionale. Precisato lo scopo di questa breve nota, è necessario puntare lo sguardo sulla formazione pastorale, di cui quella vocazionale è una dimensione particolarmente rilevante, e chiarire qual’è la sua articolazione. Secondo la “Pastores dabo vobis”, la formazione pastorale consta di almeno tre aspetti: atteggiamento interiore, riflessione specifica, “tirocinio”. È con questa griglia che vorrei interrogare, nella prospettiva che ci interessa, i progetti educativi dei Seminari italiani.
La formazione all’atteggiamento interiore del pastore, animatore di vocazioni
Il primo interrogativo riguarda la formazione al modo di essere del pastore, al suo atteggiamento interiore. La formazione pastorale, infatti, prima di ogni altra cosa, deve mirare a “garantire la crescita di un modo di essere in comunione con i medesimi sentimenti e comportamenti di Cristo, Buon Pastore: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2,5)”[1].
In prospettiva vocazionale, ciò significa non solo far crescere nei seminaristi la coscienza di essere dei chiamati, ma anche provocarli ad essere testimoni della propria vocazione, aiutarli a diventare “animatori” di tutte le vocazioni e “guide” di comunità tutte ministeriali. È possibile rintracciare qualche preoccupazione al riguardo nei progetti educativi dei Seminari italiani?
Stando al campione da me esaminato (una ventina di progetti, tra quelli di Seminari diocesani del Nord e di Seminari regionali del Centro-Sud), l’aspetto di cui stiamo parlando è presente in modo solo implicito, mai tematizzato. Questa presenza implicita si può riscontrare, per esempio, nell’insistenza sulla formazione alla carità pastorale, come tratto tipico e caratterizzante il ministero presbiterale. “Questo è il mistero della Chiesa cui il ministero ordinato è dedicato – si legge nelle Linee educative del Seminario di Milano : essere e fare memoria di Gesù. La fede che opera nella carità pastorale vive in questo mistero e serve questo mistero aderendo al servizio di Gesù e facendone memoria nella comunità e per la comunità” (III, 15).
Questo atteggiamento interiore del pastore non viene però in genere ulteriormente esplicitato, e dunque non è facile trovare sviluppi neppure per l’ambito che ci riguarda. Al contrario, sarebbe utile che i progetti educativi sottolineassero di più l’importanza per i futuri presbiteri di crescere nella coscienza di essere animatori di tutte le vocazioni. Oltre che implicazioni spirituali, tale radicata coscienza avrebbe un grande rilievo dal punto di vista ecclesiale. Essa infatti orienterebbe ad un superamento più deciso di un’impostazione clericale della pastorale e stimolerebbe la promozione di tutte le vocazioni e un’attenzione più assidua alla maturazione di ciascuna.
La specifica riflessione pastorale vocazionale
In secondo luogo, la formazione pastorale è una questione di riflessione specifica. Il suo ambito proprio è la disciplina della teologia pastorale, cui dovrebbero essere aggiunti altri momenti interdisciplinari, per evidenziare le implicazioni pastorali dell’ecclesiologia, della sacramentaria, della morale, del diritto canonico. La prospettiva vocazionale dovrebbe, ovviamente, esser tenuta presente nella riflessione teologica pastorale, sia come argomento particolare, sia come dimensione globale.
È molto difficile dire in che modo questa esigenza venga considerata dai curricoli degli studi collegati ai vari progetti educativi. Bisognerebbe rivisitare i programmi dei corsi di Teologia pastorale e del sesto anno. Ma, anche limitandosi al “Regolamento degli studi teologici dei seminari maggiori d’Italia”, pubblicato dalla CEI nel 1984, emerge qualche elemento significativo. In questo “Regolamento”, infatti, si prevede che fra i contenuti particolari del corso di teologia pastorale, si rifletta, nel contesto della guida pastorale della comunità, sugli “stati di vita” e il compito di discernimento e di promozione delle differenti vocazioni. È già qualche cosa, anche se probabilmente il tema vocazionale potrebbe trovare una collocazione meno periferica e più centrale, non solo come uno dei tanti oggetti della concreta attività pastorale, ma come dimensione fondamentale dell’esistenza cristiana e dunque della cura pastorale. Basti pensare ai tanti ambiti in cui il tema della vocazione è decisivo, quali per esempio quelli della pastorale giovanile, della pastorale familiare, della catechetica, della direzione spirituale.
Il “tirocinio” pastorale vocazionale
La formazione pastorale si attua infine attraverso un “tirocinio” vero e proprio, che deve essere graduale, differenziato e continuamente verificato. Tale tirocinio può trovare un ambito privilegiato proprio nella pastorale vocazionale. Infatti, “nessuno è più adatto dei giovani per evangelizzare i giovani. I giovani studenti che si preparano al presbiterato, i giovani e le giovani in via di formazione religiosa e missionaria, a titolo personale e come comunità sono ‘i primi e immediati apostoli’ e testimoni della vocazione in mezzo agli altri giovani”. Perciò – continua lo stesso documento – i Seminari “possiedono per loro natura un ruolo specifico di evangelizzazione e animazione vocazionale. La loro forza di irradiazione deve manifestarsi sempre più efficacemente”[2].
Queste indicazioni, che riguardano il diretto coinvolgimento dei Seminari nella pastorale vocazionale, sono state recepite da molti progetti educativi di Seminari italiani. In quello di Catania, per esempio, dopo la citazione del “Documento conclusivo” e del “Piano pastorale per le vocazioni” della Chiesa italiana, si precisa che “i seminaristi collaboreranno alle iniziative di pastorale vocazionale che gli organismi diocesani promuoveranno, ed è auspicabile che loro stessi propongano delle iniziative (incontri, ritiri, campi estivi, etc.) per ragazzi, adolescenti e giovani” (p. 30). Sulla stessa linea, le “Linee educative del Seminario di Milano” raccomandano “i servizi di sostegno all’animazione vocazionale svolta direttamente dal Seminario” (III 204) e le “Direttive per il Seminario di Lodi” prevedono che “in collaborazione con gli altri organismi della diocesi, il Seminario programmi un suo intervento in questo ambito diretto a suscitare e a sostenere le vocazioni al presbiterato per il servizio della diocesi” (n. 6). La “Regola di vita” del Seminario di Novara dice a sua volta che la pastorale vocazionale, pur costituendo un ambito specifico di impegno da parte di un gruppo nella comunità del Seminario, tuttavia “richiede particolare attenzione anche da parte di tutti i seminaristi del corso teologico, sia perché essi sono presenti nella comunità cristiana come “segni” di una vocazione specifica e sia perché sono chiamati, in futuro, ad esercitare il discernimento vocazionale. Perciò, oltre a coltivare con amore questa sensibilità all’interno della propria esperienza pastorale, è importante che essi si lascino coinvolgere come comunità in alcuni momenti di incontro con la Chiesa locale e di animazione nelle comunità cristiane” (p. 66). Da segnalare ancora altri cenni sul tema presenti nell’Itinerario formativo per i candidati al sacerdozio” del Seminario di Venezia (n. 44), nel documento “Per un itinerario di vita e regolamento” del Seminario di Torino (p. 53) e in altri progetti educativi.
A conclusione di questa mia breve indagine, devo dire che un po’ di carne, sotto molta insalata, l’ho trovata. È auspicabile però che i progetti educativi, nel loro insieme, siano più attenti alla responsabilità nativa che il seminario ha nella formazione dei futuri sacerdoti alla pastorale vocazionale. Il tema andrebbe perciò sviluppato in modo più ampio e organico. Una grossa spinta in questa direzione potrebbe venire se la “Ratio” italiana, che da alcuni anni attende di essere aggiornata, si dimostrasse sensibile a questa istanza e offrisse ai Seminari italiani opportuni orientamenti.
Note
[1] Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, n. 57.
[2] Il Congresso Internazionale per le Vocazioni, Documento conclusivo, n. 41.