N.01
Gennaio/Febbraio 2001

La vocazione all’amore: per un’antropologia dell’amore verginale

La vocazione all’amore verginale rappresenta un carisma essenziale per la vita della Chiesa e la sua missione nel mondo e costituisce il cuore della pastorale vocazionale. Come lasciano intravedere le risposte date al questionario, la cultura odierna tende ad ignorare questa vocazione, guardandola con sospetto e perfino con ironia. Vi è confusione sullo stesso termine di “amore verginale”. Da molti, la verginità consacrata è considerata come “una perdita di essere” o è comunque ritenuta come una scelta di vita marginale e perfino residuale. Non mancano giovani che, influenzati dall’ambiente, si rifiutano di parlare di castità giovanile e si vantano delle esperienze più spregiudicate. In una situazione di questo genere si richiede, oggi più che mai, il coraggio di annunciare il carisma dell’amore verginale come un valore positivo, realizzante, in grado di aprire alle dimensioni più alte della persona e della stessa corporeità sessuata e di fare di un battezzato una profezia vivente del “già” e “non ancora” del Regno inaugurato dal Risorto.

L’esigenza di questo annuncio emerge all’interno stesso della comunità cristiana, dove non mancano voci contrastanti e perfino contrarie a questa forma di vita. Appoggiandosi ad argomentazioni pseudo-scientifiche, c’è chi arriva addirittura a sostenere la tesi secondo cui l’amore verginale non permetterebbe un sano, equilibrato e completo sviluppo della persona, conducendo a forme di immaturità psicologica e/o affettiva[1]. È bene dire subito che un simile modo di pensare non ha alcun valore scientifico; esso tuttavia non va neppure liquidato con una battuta o un’alzata di spalle. L’obiezione può rivestire il carattere di una sfida. Se non è assolutamente accettabile l’idea che la consacrazione verginale possa nuocere alla persona umana o alla sua unità psico-somatica, è tuttavia vero che essa può indurre a comportamenti negativi quando – e solo quando – non sia adeguatamente motivata sul piano umano e teologico e non sia quindi vissuta nel suo più autentico significato come vocazione all’amore nella sequela di Cristo.

La questione, di conseguenza, non è quella di negare il valore della verginità per il Regno, ma piuttosto di verificare come essa sia recepita. La scelta dell’amore verginale può diventare “fonte di una più ricca fecondità in un cuore indiviso”, come recita il Codice (can. 599), oppure – quando non sia compresa in modo adeguato – origine di varie forme di disadattamento e perfino di nevrosi; può costituire una straordinaria sorgente di ricchezza interiore e di maturità ed una splendida vocazione a dare e ricevere amore, oppure – se mal integrata – causa di isolamento, di rigidità, di aggressività e ricerca di compensazioni di ogni genere.

Tutto dipende dal modo con cui la verginità consacrata viene accolta e vissuta. La domanda che, a livello di pastorale vocazionale, si impone è dunque chiara: come annunciare oggi questo dono? Come raccontarlo, specialmente ai giovani, perché lo riscoprano nel suo più autentico significato, liberandosi da concezioni riduttive e insufficienti, e si lascino affascinare dalla chiamata del Signore Gesù? Molto opportunamente il Convegno non vuole essere una riedizione di quello del ‘96 già dedicato alla verginità per il Regno, ma piuttosto una verifica attenta e puntuale sulle modalità dell’annuncio della vocazione all’amore verginale oggi. Una modalità di annuncio che suppone chiaramente la teologia della vocazione all’amore verginale, assumendone i contenuti, ma per rileggerli in una prospettiva di ordine pedagogico, “capace di tradursi in cammini educativi e pastorali” e in prassi di formazione vocazionale.

Il problema che si impone, in questo ambito, è quello di ricondurre la vocazione all’amore verginale all’interno stesso della vocazione di ogni essere umano all’amore, in modo da porre in evidenza come la verginità consacrata non soppianti né tanto meno annulli questa vocazione, ma al contrario la valorizzi e la faccia vivere nel suo più alto grado, rendendo i vergini consacrati segni viventi dell’Amore di Dio nel mondo. Lo scopo della presente relazione è indirizzato ad una verifica di questo genere. Svolgerò la mia proposta di riflessione in tre momenti essenziali: antropologia della vocazione all’amore; fondamento cristologico-trinitario della vocazione all’amore; dalla vocazione all’amore al carisma dell’amore verginale.

È chiaro che il mio intervento si limita ai presupposti di ordine antropologico-teologico, lasciando ad altri il compito di delineare i contenuti sia biblico-teologici che teologico-pedagogici; presupposti di ordine antropologico-teologico introduttivi, ma decisivi, se non si vuole correre il rischio di costruire una casa senza le sue fondamenta, incapace di reggere all’urto delle piogge e delle tempeste, come ci insegna il Vangelo.

 

 

ANTROPOLOGIA DELLA VOCAZIONE ALL’AMORE

La vocazione all’amore rappresenta il terreno, l’humus, su cui affonda le sue radici ogni vocazione alla vita consacrata, come del resto ogni vocazione alla vita matrimoniale. Lo spiega Giovanni Paolo II in uno splendido testo della “Familiaris consortio” che vorrei porre a base della mia relazione, riprendendone le singole scansioni: “Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza: chiamandolo all’esistenza per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore. Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale di amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è pertanto la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano. In quanto spirito incarnato, cioè anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale, l’uomo è chiamato all’amore in questa totalità unificata. L’amore abbraccia anche il corpo umano e il corpo è reso partecipe dell’amore spirituale. La rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza, all’amore: il matrimonio e la verginità. Sia l’una che l’altra, nella loro forma propria, sono una concretizzazione della verità più profonda dell’essere umano, del suo essere creato ad immagine di Dio” (FC 11). Il testo contiene in nuce i contenuti essenziali per un annuncio dell’amore verginale antropologicamente adeguato e teologicamente fondato.

 

La vita come vocazione

Il primo aspetto da considerare è la vita come vocazione, espressione in atto di una chiamata del Creatore che sgorga solo dall’amore. “Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, chiamandolo all’esistenza per amore…”.

La vita è vocazione, perché è un dono ineffabile dell’amore di Dio. Vivere è rispondere a questo dono, a questa chiamata. Risiede qui il fondamento di ogni vocazione e la ragione più alta della dignità della persona umana, come spiega la Gaudium et Spes (GS 19), a cui ha fatto eco Paolo VI nel celebre proclama della Populorum progressio: “Ogni vita è vocazione” (PP 15). Dire “sì” alla vita è dire “sì” a Dio che ci dona di continuo a noi stessi, non solo per un impulso iniziale, ma in ogni istante. È in questa vocazionalità originaria lo specifico che distingue l’antropologia cristiana da tutte quelle filosofie che considerano l’uomo come “privo di vocazione”, siano esse di stampo marxista o esistenzialista, freudiano, strutturalista o laicista[2]. L’“esserci” storico è già il segno visibile di una chiamata, di un’elezione di amore. Esistere è dire grazie con la vita, sapendo di essere amati e amando.

La vocazione non è fuori di noi: è inscritta nelle radici stesse della nostra realtà creaturale e porta in sé l’essere orientati a realizzarsi in alto, verso un di più, verso quel Dio che ci dona costantemente a noi stessi. Questo anelito teocentrico antropologicamente significa che ognuno di noi realizza se stesso – ed è felice – nella misura in cui supera il suo io-individuale e si apre ad orizzonti di infinito; vocazionalmente rimanda alla nostalgia di trascendenza inscritta in noi e quindi alla trascendenza della vocazione all’amore a cui siamo chiamati. Non la chiusura egocentrica su di sé o il ripiegamento sul proprio io, ma l’alzare lo sguardo in su, in alto, verso il totalmente-Altro corrisponde all’identità esistenziale profonda della persona umana.

A questa aspirazione teocentrica si contrappone l’esperienza storica della nostra finitudine, dei limiti e della fragilità con cui ognuno di noi si trova di fatto a confrontarsi; esperienza che rende difficile il cammino di realizzazione di noi stessi e della stessa chiamata all’amore, e lascia intravedere il bisogno di una grazia che dall’alto venga in nostro soccorso e ci salvi. È in questa ambivalenza strutturale, comprensiva delle ferite del peccato di origine, che si colloca il conflitto descritto in Rm 7, con l’invocazione sofferta con cui si conclude: Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? (Rm 7,24). È a questa attesa che risponde, come si dirà più avanti, l’amore di Dio-Padre nell’invio del suo Unigenito e nel dono del suo Spirito. Prima tuttavia occorre completare i contenuti della vocazione alla vita. Solo in tal modo infatti sarà possibile cogliere il senso della chiamata all’amore e, al suo interno, il dono della chiamata specifica all’amore verginale.

 

La vocazione alla vita come vocazione all’amore

La vocazione alla vita è essenzialmente vocazione all’amore: amore donato, amore accolto, amore condiviso. Lo ha spiegato con forza Giovanni Paolo II, fin dalla sua prima enciclica: “L’uomo non può vivere senza Amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’Amore, se non si incontra con l’Amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente” (RH 10). La parola “Amore” va messa qui con la “A” maiuscola, ad evitare che essa sia fraintesa o ridotta a tutt’altro.

La motivazione teologica di questa antropologia è offerta dallo stesso Santo Padre nel testo della FC sopra citato: “Chiamando l’essere umano all’esistenza per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore. Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale di amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è pertanto la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano” (FC 11).

Il testo è un capolavoro di antropologia teologica. Già la sua struttura è indicativa: si muove da Dio-creatore che, suscitando l’uomo e la donna per un atto di amore, li chiama con questo atto all’amore, ad una vocazione di amore; e si spiega che se Dio è in se stesso un eterno mistero di amore e di comunione interpersonale, l’essere umano creato a sua immagine e somiglianza non può che riprodurne i tratti, come in uno specchio.

La vocazione all’amore, sotto questo profilo, non rappresenta un privilegio particolare dato a qualcuno, ma una chiamata inscritta – secondo le stesse parole di Giovanni Paolo II – “nell’umanità dell’uomo e della donna”, come un modo di essere che determina in profondità la loro identità e la loro stessa realizzazione: una vocazione fondamentale e nativa, come la qualifica lo stesso Pontefice. La creatura umana non esiste che per rispondere ad una chiamata di amare; solo per questa via realizza la sua natura originaria, il suo essere immagine e somiglianza di Dio. Una tale vocazione “fondamentale e nativa” porta con sé la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione: è una vocazione possibile perché Dio stesso ha impresso nell’essere umano questa potenzialità come un dono, una “capacità” appunto, che riflette il suo Essere-Amore; ma una potenzialità-dono che richiede una risposta libera e consapevole, come un talento da far fruttificare e da moltiplicare con coraggio e intraprendenza.

Risiede in questo dato un contenuto assolutamente indispensabile per un’adeguata pedagogia all’amore verginale. La vocazione all’amore è come un codice, un DNA inscritto in ognuno di noi, ma esige di diventare una scelta di vita e un orientamento da assumere e su cui esercitarsi in un lungo tirocinio, aprendosi all’Assoluto dell’Amore. Giustamente il documento della Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche Nuove vocazioni per una nuova Europa del ‘98, rileva la necessità di far prendere coscienza ai giovani che “la vita è una consegna alla libertà dell’uomo, chiamato a dare a Dio una risposta personalissima e originale, responsabile e colma di gratitudine” (n.16 a); e aggiunge: “la vita di ciascuno, in ogni caso e prima di qualsiasi scelta, è amore ricevuto… che tende per natura sua a divenire bene donato” e “progetto vocazionale” (n. 16 b). Nasce da questa identità – conclude il documento – “la struggente nostalgia di Dio, presente nel cuore di ogni uomo: conoscere le proprie radici, conoscere Dio. L’uomo non è infinito, è immerso nella finitezza, ma il suo desiderio gravita attorno all’infinito” (n. 17).

 

Valore “sponsale” della corporeità

La vocazione alla vita come vocazione all’amore suppone la piena valorizzazione del significato del corpo e della sua sponsalità, sia nel matrimonio che nella vita consacrata. In entrambe le vocazioni, sia pure in forme diverse, la corporeità è indirizzata a diventare “sacramento” di una chiamata divina all’amore, suo simbolo rappresentativo e realizzativo. Lo rileva lo stesso Santo Padre nel testo di FC 11, superando gli opposti e pericolosi scogli del materialismo da una parte, e dello spiritualismo dall’altra: “In quanto spirito incarnato, cioè anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale, l’uomo è chiamato all’amore in questa totalità unificata. L’amore abbraccia anche il corpo umano e il corpo è reso partecipe dell’amore spirituale”.

Solo per questa via, la vocazione all’amore e alla comunione attinge alla sua piena verità e si può compiutamente realizzare. Il corpo riveste, in questo senso, un incancellabile valore sponsale, come ha ripetuto più volte Giovanni Paolo II nelle sue catechesi. “Fin dal principio” il corpo è sponsale: racchiude in sé la capacità di accogliere, donare e condividere l’amore. Il termine “sponsale”, in corrispondenza ai “riti sponsali” (o riti di fidanzamento) da cui deriva, significa rispondere, promettersi, offrirsi, ed evoca l’immagine di qualcuno a cui si risponde, ci si promette, ci si offre. Il corpo, come valore sponsale, dice risposta di amore, dono, accoglienza, condivisione con qualcuno e per qualcuno. Le condizioni di base per un’effettiva sponsalità del corpo sono la libertà e la gratuità; entrambe rendono possibile la sponsalità del corpo e la qualificano[3]. La vocazione all’amore appartiene a questa fondamentale dinamica ed è la via della sua piena realizzazione. Una buona pedagogia all’amore verginale non può prescindere da una formazione fondamentale alla sponsalità del corpo per imparare ad assumerlo come luogo di dono, di accoglienza e di condivisione, modo di essere, di amare e di adorare. Fino a che punto nei nostri progetti di formazione vocazionale è reperibile un’educazione di questo genere? Che cosa si fa per insegnare a percepire la corporeità come “un-dono-da-ridonare”?

Il problema non riguarda ovviamente solo i seminari o i noviziati; concerne la nostra stessa cultura: passiamo dieci-quindici anni sui banchi di scuola dove veniamo educati a livello intellettuale, ma nessuno ci insegna a sentire e a vivere la nostra esistenza corporea come una realtà di ordine sponsale. La verginità consacrata richiede, in ogni caso, come presupposto antropologico di base che si sia formati ad accogliere la nostra realtà corporea in una prospettiva di sponsalità, come una promessa, una risposta e un’offerta di sé all’Unigenito incarnato che chiama a seguirlo e che, per primo, ha dato l’esempio di una sponsalità totale. È ben noto come l’esistenza di Gesù sia, dall’inizio alla fine, una “pro-esistenza”, un’“esistenza per”. In lui, come in nessun altro, la corporeità è vissuta come il segno vivente di una sponsalità totale (il corpo dato, il sangue versato), dove la croce manifesta il gesto di un’oblazione incondizionata, la cui unica ragione è l’Amore[4].

L’amore verginale non è negazione o inibizione del valore del corpo, ma ne è piuttosto la sua piena assunzione, in una prospettiva di vissuta sponsalità, sul modello dell’icona esemplare di Cristo. Come annunciare questo valore ai giovani di oggi?

L’educazione alla vocazione all’amore richiede l’educazione alla sponsalità del corpo. Un’educazione che non può essere data per presupposta; anzi, come è sotto gli occhi di tutti, l’orientamento dominante della cultura odierna è più indirizzato all’appropriazione del corpo in senso narcisistico e egoistico che ad una sua reale comprensione come-dono-da-ridonare. Non è questo uno dei contenuti più significativi della profezia cristiana della verginità consacrata?

 

Il “maschile” e il “femminile” nella vocazione all’amore

L’antropologia della vocazione all’amore non sarebbe completa se ci si dimenticasse che la sponsalità del corpo è ineludibilmente una corporeità sessuata, “maschile” e “femminile”, e se non si assumesse – di conseguenza – la specificità delle due forme di esistenza come un valore specifico e incancellabile, da inserire pienamente nell’educazione all’amore verginale. Esiste “un modo maschile” e “un modo femminile” di vivere la verginità consacrata, così come esiste una differenza di genere derivante dal gesto creativo di Dio che non può essere cancellata, appartenendo al progetto originario del Signore sul mondo.

Giovanni Paolo II lascia intravedere questo aspetto quando, nel testo di FC 11, fa riferimento ad una vocazione inscritta nell’umanità dell’uomo e della donna; un’allusione che non va sottovalutata in nome di concettualizzazioni univoche o asettiche della vocazione all’amore. Richiamarsi all’“umanità dell’uomo e della donna” significa far riferimento alla realtà più profonda dell’io-personale, e non ad una sua caratteristica accessoria o esteriore, accettando che la persona creata da Dio a sua immagine e somiglianza sussista nella bipolarità del maschile e del femminile. Una bipolarità che qualifica la personauomo e la persona-donna come totalità simmetriche e asimmetriche ad un tempo: simmetriche, nella misura in cui si rapportano l’una all’altra come un “io-tu”, portatrici di significati specifici e valori paritari, corrispondenti e reciproci; asimmetriche, nella misura in cui si presentano come due identità di genere (maschile e femminile appunto) non definibili se non nel rispettivo situarsi l’una di fronte all’altra: che cosa voglia dire essere “uomo” lo si può capire solo in relazione a cosa significhi essere “donna”, e viceversa.

L’idea di una “città androgina” – come auspicava Elisabeth Badinter[5] – nella quale uomo e donna si rassomiglino a tal punto da non distinguersi più, non sarebbe certamente un arricchimento, ma un innaturale impoverimento della comunità umana. La differenza sessuata rappresenta un dato irrinunciabile ed una ricchezza, ed è necessaria non solo per riprodursi, ma per rigenerarsi e costruire una cultura pienamente umana, arricchita dai talenti di ognuno dei due generi. È suggestiva, in questo senso, la spiegazione offerta da Giovanni Vannucci del “nome di Dio”: esso risulterebbe dalla combinazione semantica del maschile e del femminile: l’uomo e la donna come l’io e il tu del “noi-di-Dio”, al punto che solo quando l’uomo e la donna si incontrano e s’integrano in una comunione di amore rispettosa della differenza si rivelerebbe il senso compiuto del nome di Dio[6].

È lecito chiedersi: fino a che punto la differenza di genere è assunta nei nostri progetti vocazionali come un contenuto valoriale per un’adeguata educazione all’amore verginale? Non si rischia anche noi talvolta – sia pure involontariamente – di cadere in un modello “androgino” di vita consacrata, dimenticando la peculiarità del maschile e del femminile e dando vita a percorsi di formazione all’amore verginale anonimi e asessuati? Antropologicamente la vocazione alla verginità consacrata non implica negare, ma piuttosto ridare un nuovo e pieno significato alla nostra umanità di uomini e di donne. Ci si può chiedere se non sia anche questo un contenuto – tra l’altro attualissimo – della testimonianza specifica del vero concetto di corporeità sessuata e di relazione uomo-donna che i consacrati e le consacrate sono chiamati a offrire in un’epoca in cui sembra diventato normale e viene perfino riconosciuto dagli Stati il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Come inserire dunque nei nostri progetti educativi, anche alla luce della testimonianza che siamo chiamati a dare, la ricchezza del maschile e del femminile e lo specifico della differenza di genere in ordine ad una piena attuazione della vocazione all’amore verginale?

 

Due vie di realizzazione della vocazione all’amore

Giovanni Paolo II conclude il paragrafo FC 11, spiegando come la vocazione all’amore si realizzi nei due stati di vita fondamentali del matrimonio e della verginità consacrata: “Sia l’una che l’altra, nella forma loro propria, sono una concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del suo essere ad immagine di Dio”.

L’affermazione fa riferimento, come è chiaro, alle due polarità decisive dell’esistenza umana, ma senza escluderne altre, precedenti, seguenti o intermedie, ed è indirizzata a mostrare come la radice antropologica delle due vocazioni sia la stessa. Cambia, come è evidente, la modalità della loro attuazione. In entrambe, tuttavia, è incancellabile la vocazione fondamentale e nativa all’amore. Ciò è vero per la vita di coppia e per il compito che i genitori sono chiamati a svolgere nei confronti dei loro figli; ed è vero per i chiamati alla vita consacrata. In entrambe le scelte si realizza la chiamata all’esistenza – e si è felici – solo se si ama.

Non è lo stato di vita in sé, ma l’amore a realizzare le persone. Naturalmente il concetto di amore a cui ci si riferisce qui non è quello banale o di tipo solo erotico dominante nella cultura contemporanea; è l’Amore in senso pieno che nasce da Dio e conduce a Dio e coinvolge la persona nella totalità del suo essere, implicando il “tutto” e il “per sempre”; un Amore anzitutto spirituale, ma che – come si esprime il Santo Padre – “abbraccia anche il corpo umano”. L’essere umano infatti è chiamato all’amore nella “totalità unificata” del suo essere. (cfr. FC 11).

Deriva da questa comune radice la testimonianza reciproca che consacrati e coniugi sono chiamati a darsi gli uni gli altri, per divenire insieme segni viventi dell’Amore infinito di Dio nella storia. L’educazione all’amore verginale non può dimenticare questa reciprocità di testimonianza. Il consacrato non rinuncia all’amore umano (verso una singola persona o una propria famiglia) perché non lo apprezza; sarebbe come dire che, rinunziandovi, offre a Dio degli scarti; al contrario, proprio perché ritiene l’amore umano un grande dono, vi rinuncia offrendolo a Dio come una primizia e offrendosi a Lui con tutto se stesso, per testimoniare – insieme agli sposi – il mistero nuziale di Dio nella storia. Il suo non è un sacrificio di secondo grado, ma di primissimo grado: è un olocausto, come si esprime san Tommaso, dove non si brucia solo una parte, ma tutta la vittima, offerta in sacrificio totale a Dio. La persona consacrata, sotto questo aspetto, è in se stessa un’adorazione vivente di Dio. Il suo amore entra a far parte dell’Amore di Dio-Trinità e ne diviene un segno vivente.

 

 

FONDAMENTO CRISTOLOGICO-TRINITARIO DELLA VOCAZIONE ALL’AMORE

L’iniziazione all’amore verginale suppone, sotto questo profilo, un passaggio senza cui la vocazione all’amore rimane nell’impossibilità di realizzarsi compiutamente: il passaggio dell’amore umano all’amore teologale nell’accoglienza del dono della grazia che viene da Dio e nella disponibilità a lasciarsi trasfigurare dall’amore trinitario rivelato in Cristo e nel dono del suo Spirito. È entro questo passaggio che l’antropologia della vocazione all’amore rimanda alla cristologia dell’amore e la cristologia dell’amore alla teologia trinitaria dell’amore. Cristo è la rivelazione piena e definitiva della vocazione nativa e fondamentale della persona umana, uomo e donna, all’amore. Egli non solo rivela Dio all’uomo, ma rivela l’uomo all’uomo e fa nota la sua altissima vocazione (cfr. GS 9). Per questo, come spiega Giovanni Paolo II fin dalla sua prima enciclica, “l’uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo deve, con tutta la sua inquietudine e incertezza, avvicinarsi a Cristo: entrare in Lui con tutto se stesso, assimilare tutta la realtà dell’incarnazione e della redenzione, per ritrovare se stesso” (RH 10). Il sentimento umano dell’amore entra a far parte dell’azione divinizzante (theopoiesis/deificatio) che caratterizza in radice l’essere del battezzato e ne diviene un suo frutto splendido, nella prospettiva dell’éthos del cuore nuovo proclamato dal Vangelo e della chiamata alla sequela totale di Cristo.

 

Cristo rivelazione piena e definitiva della vocazione all’amore

Il bisogno di autotrascendersi, di tendere in alto, costitutivo della vocazione alla vita come vocazione all’amore si incontra in Gesù di Nazareth con l’irruzione dell’Unigenito di Dio nel tempo e con il suo ritorno ascendente nello Spirito al Padre, secondo la sintetica, ma fondamentale descrizione di Ef 4,9-10: “Che significa la parola ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli per riempire tutte le cose”.

La glorificazione del Risorto, se è un sottrarsi al mondo visibile, è in pari tempo un cominciare ad essere operante nel mondo come principio di ricapitolazione di tutto verso il Padre nello Spirito. L’antropogenesi diviene “cristogenesi”, per usare il linguaggio di P. Theillard de Chardin. Il Signore Gesù è Colui che rivela il senso ultimo della storia, l’Alfa e l’Omega, verso cui tutto è escatologicamente convergente, come viene plasticamente proclamato dalla figura del Panthocrator, tipica delle absidi romaniche e gotiche o dei grandi mosaici bizantini: il Kyrios ascendente al cielo, circondato dalla Chiesa, con la schiera dei santi e dei martiri, e dall’universo, raffigurato dalla flora e dalla fauna. Tutto ormai trasfigurato dalla sua glorificazione

La vocazione all’amore verginale appartiene a questa assoluta novità della storia: è una chiamata specifica, rivolta ad alcuni, perché si facciano segni viventi di questa novità. La vocazione alla vita e all’amore diventa vocazione alla grazia e vocazione ad un amore incondizionato a Cristo Gesù per la piena attuazione dell’eschaton inaugurato da Lui nella storia. Solo quando ci si sente parte di questo grande progetto come “persone teologiche” di un “Teodramma” di inaudita grandezza, per utilizzare le categorie di H.U. Von Balthasar, si è in grado di vivere la verginità consacrata come uno straordinario progetto d’amore e di rinunciare liberamente e gioiosamente ad un amore umano particolare, pur legittimo, per fare di tutta la propria esistenza una profezia del “già” e “non ancora” del Regno.

L’educazione all’antropologia dell’amore si fa, a questo punto, educazione alla cristologia dell’amore, assumendo in sé la vocazione stessa vissuta da Cristo e rivivendola in prima persona: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). L’icona di Cristo che passa, vede, fissa il suo sguardo su alcuni e li chiama alla sua sequela, rimane la rappresentazione centrale della vocazione all’amore verginale, come ricorda la Pastores dabo vobis: “La Chiesa, quale comunità dei discepoli di Gesù, è chiamata a fissare il suo sguardo su quella scena che si rinnova continuamente nella storia… La Chiesa coglie in quel ‘Vangelo della vocazione’ il paradigma, la forza e l’impulso della sua pastorale vocazionale” (PDV 34). Fissare lo sguardo su Gesù vuol dire guardare alla croce come alla rivelazione ultima della vocazione dell’amore: essa è l’albero della vita, piantato al centro del cosmo e della storia, nel quale si manifesta all’uomo il senso più alto della sua chiamata originaria all’amore.

 

La vocazione all’amore nella luce della croce

L’annuncio dell’amore verginale non potrà che fondarsi sulla centralità dell’evento pasquale di Cristo. È Lui che rende possibile una vocazione tanto paradossale, ed è solo alla luce della “sapienza della croce” che può essere compresa e proclamata. L’universalità concreta dell’amore del Crocifisso dice in atto l’universalità dell’amore verginale. Non è un caso, come notava già san Giustino[7], che la forma della croce richiami la forma del corpo umano e dell’uomo, rivelandone il significato sponsale, così come le braccia della croce richiamano un amore che raccoglie in sé l’intero universo[8]. Sant’Agostino, commentando il testo paolino di Ef 3,17-19, sull’altezza, la larghezza, la lunghezza e la profondità dell’amore di Cristo, ne sviluppa le dimensioni secondo le quattro direzioni raffigurate dalla croce: la larghezza è data dal legno trasversale sul quale le braccia del Signore sono stese, in un gesto di offerta al Padre e all’umanità; la lunghezza è espressa dal legno verticale che scende verso il basso e sul quale pende il corpo di Gesù, raffigurante l’amore generoso e gratuito del Figlio di Dio; l’altezza è simboleggiata dal segmento di legno verticale proteso in alto e su cui poggia il capo di Cristo, segno del volgersi in alto dell’amore; la profondità è significata dal legno piantato per terra e che sostiene la croce ad indicare come solo il donarsi renda possibile la salvezza dell’uomo e la sua risalita verso il Padre[9].

La vocazione all’amore verginale nasce ai piedi della croce e si modella secondo le sue dimensioni. In essa si rivela l’indissolubile sposalizio tra l’orizzontale e il verticale, l’altezza e la profondità e si dice in atto come non possa esservi amore verso l’altro se non nell’amore per l’Assolutamente altro, e viceversa. La croce non ammette dualismi, né accetta indifferenze o superficialità; essa esige che l’incontro con l’altro si verifichi ad un livello di massima profondità e di massima altezza. Il volto, ogni volto, non è soltanto un individuo anonimo; è immagine di Dio e per il quale Dio stesso si è fatto Uomo ed è entrato nel mistero abissale della morte. La vocazione all’amore verginale si colloca entro questo crocevia, questo sposalizio tra cielo e terra, come “sacramento” di un Amore che vuole riempire di sé il mondo per ri-orientarlo per mezzo di Cristo verso il Padre nello Spirito.

 

La Trinità: sorgente e esemplarità della vocazione all’amore

Il fondamento cristologico dell’amore verginale rimanda, di conseguenza, al mistero ineffabile dell’amore trinitario. La croce rivela il cuore della Trinità: il “per noi” del Crocifisso manifesta l’“in sé” di Dio-di-Amore. In Gesù crocifisso, infatti, Dio non si manifesta come un Io-Solo, ripiegato su se stesso o intento alla contemplazione di sé, ma come un Dio-Padre che si offre nel Figlio e come un Dio-Figlio che si offre al Padre per noi, come un Dio-Padre e un Dio-Figlio che si offrono Spirito e lo donano alla Chiesa e al mondo. È questa la ragione per la quale non è possibile comprendere il senso totale e ultimo della vocazione all’amore se non in relazione al mistero della pericoresi trinitaria dell’amore.

Giustamente Giovanni Paolo II, nel testo della FC che abbiamo posto a base della nostra riflessione, spiega la vocazione all’amore inscritta nell’umanità dell’uomo e della donna alla luce di Dio-Trinità-di-Amore: “Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione personale di amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell’essere, Dio iscrive nell’umanità dell’uomo e della donna la vocazione e quindi la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione”.

Non si dà amore in un soggetto solitario, chiuso su di sé. L’amore suppone una relazione interpersonale, fatta di dono, di accoglienza, di condivisione. È quanto esprime sant’Agostino riferendo l’amore alla Trinità come alla sua sorgente: “Se vedi la Trinità, vedi l’amore”[10]. E spiega come l’Essere-di-Dio consista in uno scambio ineffabile tra il Padre, l’Eterno Amante, il Figlio, l’Eterno Amato, e lo Spirito Santo, l’Eterno Amore: “Sono infatti Tre: l’Amante, l’Amato, l’Amore”[11]. “E non più di Tre: uno che ama colui che viene da lui, uno che ama colui da cui viene, e l’amore stesso”[12].

Dire, secondo l’affermazione giovannea, che “Dio è amore” significa affermare che la chiamata alla vita ci colloca, in termini ontologici, nella traiettoria stessa che dall’Amore-Amante del Padre si dispiega nell’AmoreAmato del Figlio e si attua nell’Amore-personale nello Spirito. E tale è la metafisica trinitaria della vocazione all’amore. “Quell’amore paterno che genera il Figlio fin dall’eternità  – come osserva J. Moltmann – chiama in vita le creature che sono create secondo l’immagine del Figlio e rispondono all’amore del Padre in comunione con il Figlio. La creazione deriva dall’amore che il Padre ha per il Figlio eterno. E così essa è chiamata a rendere beato Dio sintonizzandosi con l’obbedienza del Figlio e con la sua risposta di amore al Padre”[13].

La vocazione all’amore verginale – assumendo la vocazione nativa e fondamentale all’amore e chiamando a viverla nella sequela del Cristo crocifisso – si colloca nel prolungamento di questa ontologia dell’amore trinitario che, fin dal battesimo ha trasfigurato il nostro io spirituale-corporeo-relazionale, e diviene realtà-segno della novità introdotta nella storia dal Redentore. Sotto questo aspetto, non si può comprenderla se non alla luce dell’eterno amore di Dio-Trinità. E dal momento che questo amore è eterno dono, eterna accoglienza, eterna condivisione, la vocazione all’amore verginale non può che costituirsi come vocazione al dono, all’accoglienza, alla condivisione, in grado di assumere la totalità della persona e di chiamarla a fare un’unità tra l’essere e l’amore, proprio come nel mistero di Dio. Su questa fondazione metafisico-trinitaria della vocazione all’amore verginale la ricerca teologica è appena agli inizi. È da apprezzare che il documento Nuove vocazioni per una nuova Europa, come altri testi precedenti, si sforzi di elaborare la teologia della vocazione specifica nel quadro del Padre che chiama alla vita, del Figlio che chiama alla sequela, dello Spirito che chiama alla testimonianza[14]. È un primo passo verso ulteriori verifiche che pongano in luce, in modo sempre più convincente, come l’amore verginale trovi la sua origine e la sua esemplarità decisiva nell’amore stesso di Dio, costituendosi come suo prolungamento e sua espressione vivente nella storia. L’antropologia teologica della vocazione verginale si situa, ad ogni modo, a questo livello di altezza e di profondità trinitaria.

 

 

DALLA VOCAZIONE ALL’AMORE ALL’AMORE VERGINALE

La verifica svolta finora ha permesso di porre in evidenza, sia pure solo sommariamente, i contenuti fondamentali dell’antropologia teologica della vocazione all’amore e il suo fondamento cristologico-trinitario. Ci resta ora da analizzare, in termini più diretti, come si ponga il rapporto tra la vocazione nativa e fondamentale all’amore e il carisma della verginità consacrata. Tre nuclei nodali sono sicuramente essenziali in questa analisi: il rapporto natura-grazia, l’amore verginale come “positivo investimento del cuore”, le motivazioni specifiche della verginità consacrata.

 

Natura e grazia: un binomio indissociabile

La vocazione all’amore verginale, come si è avuto modo di notare, non annulla i dinamismi strutturali della persona umana, uomo e donna, e della sua vocazione all’amore; non emargina il significato della corporeità sessuata e il suo valore sponsale, il maschile e il femminile, la sensibilità e l’affettività inscritta in ciascuno di noi; al contrario, assume questi dinamismi, li trasforma in forza della grazia e alla luce della sequela di Cristo, conducendoli alla realizzazione del loro più alto significato. Essere afferrati da Cristo, con la chiamata alla verginità consacrata, non significa divenire meno uomo o meno donne, ma esprimere le dimensioni più ricche del nostro essere per divenire un segno vivente del progetto di amore a cui Dio chiama tutti, compresi gli sposi. Una vocazione che manifesta il genuino umano, il genuino senso dell’amore, il genuino maschile e femminile, il genuino significato della sessualità, oltre la sola genitalità. L’amore verginale non è un meno-amore, ma un-più-amore. La grazia non distrugge la natura, ma la purifica, l’assume, la trasfigura e la eleva, come afferma un antico adagio teologico. Questo significa che se la vocazione all’amore verginale è anzitutto “un insigne e prezioso dono della grazia fatto ad alcuni” (LG 12; PC 12a), la natura umana rappresenta il terreno su cui questo dono di grazia opera: più la persona crea buone disposizioni più l’azione di Dio attinge ai suoi frutti. È chiaro che non sono le strutture psicologiche ad essere causa del carisma della chiamata, ma esse predispongono a riceverlo, a maturarlo e a viverlo in pienezza. Se la presenza della grazia della vocazione non dipende dalle disposizioni delle persone, il tipo di risposta alla grazia è tuttavia in stretta relazione con la maturità umana del chiamato e con la sua disponibilità ad interiorizzare il dono ricevuto.

Non vanno in questa linea le raccomandazioni del Concilio sulla necessità che la vocazione all’amore verginale si fondi su “una scelta operata con matura deliberazione e magnanimità” (OT 10) e “un’adeguata maturità psicologica e affettiva” (PC 12c)? Non c’è dubbio che è questo un nodo fondamentale circa il “come” annunciare l’amore verginale nella pastorale vocazionale. La maturità umana, affettivo-oblativa, dispone alla maturità verginale, allo stesso modo in cui la maturità verginale conduce a pienezza la vocazione costitutiva all’amore. Il discorso di un’adeguata educazione all’amore e alla sponsalità del corpo è dunque realmente essenziale in ogni itinerario di formazione alla vita consacrata, e non può essere dato per scontato. Un tale discorso si colloca sul registro del miglioramento della risposta alla chiamata di Dio, non della sua origine, ma resta decisivo. In questo tipo di educazione la regola d’oro è integrare, non dissociare: “integrare”, superando ogni dicotomia tra la nostra umanità e la vita consacrata, quasi che l’amore verginale inibisca il nostro essere persone, anziché valorizzarlo nel suo più alto grado.

Il consiglio evangelico della verginità consacrata è in grado di trasformare la vocazione umana all’amore in una straordinaria fonte di fecondità spirituale, ma richiede che sia vissuto in unità armonica con la vocazione nativa e fondamentale all’amore e con la nostra identità corporea sessuata, maschile e femminile, non al di sopra, nella indifferenza di essa o addirittura annullandola. Altro è orientare e offrire, altro è annientare o distruggere.

 

La verginità consacrata come “positivo investimento del cuore”

Ed ecco allora un secondo punto nodale: l’amore verginale non come negazione di sé, ma come un positivo investimento del cuore. È noto come la verginità consacrata sia stata generalmente considerata (e spesso lo sia tutt’oggi, almeno nella mentalità di molti giovani) in termini prevalentemente negativi, come un taglio di relazioni umane, una perdita di comunicazione e talvolta perfino di umanità. Purtroppo questa idea ha trovato (e trova) una conferma nel modo in cui molti consacrati si pongono in rapporto agli altri: freddi, rigidi, quasi al di fuori della condizione comune, incapaci di vera condivisione, di autentica partecipazione e fraternità, come se la scelta della verginità fosse una scelta di non-amore piuttosto che di pienezza-di-amore. È urgente ridefinire la verginità consacrata in termini positivi, liberanti e realizzativi.

Il carisma dell’amore verginale non implica in alcun modo una mutilazione della vocazione di amore e comunione inscritta nelle profondità del nostro essere; al contrario, chiama alla sua piena realizzazione, non legata ad una sola persona o ad una propria famiglia, ma aperta alle dimensioni del mondo nella prospettiva del disegno originario di Dio rivelato nella croce dell’Unigenito. L’amore verginale apre il cuore ad un nuovo modo di amare, in senso verticale e in senso orizzontale; un modo nuovo che libera il cuore da ogni attaccamento esclusivo (PC 12b), per renderlo capace di dono, di accoglienza e di condivisione in una dimensione di gratuità e di oblatività, secondo l’icona della croce, per divenire un segno vivente dell’amore di Dio per l’umanità e di Cristo per la Chiesa (LG 42c). Di qui l’urgenza di far percepire la vocazione verginale come “un bene” più grande (PC 12c), e non come una negazione della propria realtà umana. Ciò non significa ridurre la verginità consacrata ad una ricerca di realizzazione di se stessi. Lo scopo primario della verginità consacrata infatti non è quello di realizzare se stessi, ma il progetto di Dio sul mondo e su di sé. Il fine è trascendente, non immanente al soggetto. La realizzazione di sé avviene come un effetto indiretto, non come un effetto diretto o da ricercare per se stesso. È  in questo ambito che si pone il problema nodale delle motivazioni della vocazione verginale.

 

“Per il Signore”: motivazioni teologiche dell’amore verginale

Quali sono queste motivazioni? Quali ragioni consentono di fondare e di sostenere in modo autentico un’esistenza di amore verginale e di viverla in pienezza?

Non sono sufficienti le motivazioni psicologiche. Sono quelle che derivano dalla complessità della nostra psicologia e dalla nostra storia di vita. È noto come in noi rivestano un ruolo rilevante le situazioni vissute nel passato, talvolta in modo traumatico, le esperienze più o meno negative che possono esserci state, le difficoltà ad accettare la propria corporeità sessuata o la corporeità sessuata dell’altro da sé, carenze di affetto, sensi di colpa, complessi, frustrazioni o sensi di solitudine, e così via. Queste diverse situazioni possono spingere una persona, in modo generalmente inconscio, alla consacrazione verginale, come ad una scelta di vita che dà l’illusione di non aver risolto le situazioni psicologiche vissute o la sensazione di riempire il vuoto della propria esistenza. Queste motivazioni possono costituire il punto di partenza di cui Dio si serve per attirare qualcuno a sé, ma – come è evidente – non possono essere le motivazioni di un’autentica esistenza verginale; possono essere valide nelle mani di Dio come inizio, ma non sono in grado di sostenere una vita di verginità pienamente realizzata. La consacrazione verginale non può essere una compensazione ai vissuti di disagio o un riempitivo di vuoti, né è possibile con una scelta di vita che ha molte esigenze: inizialmente, la consacrazione verginale può dare l’impressione di una “liberazione da” o di una “liberazione per”, ma – a lungo andare – avendo molte esigenze, condurrà a far riemergere i problemi, sottolineando i vuoti invece che riempirli.

Non sono neppure sufficienti le motivazioni sociologiche o sociali, fondate su forme di dipendenza, di emulazione o di amicizia, sul bisogno di essere accettati, su esigenze di prestigio o di ruoli, sull’esperienza di un gruppo o sul bisogno di inserirsi in una comunità che offra sicurezza, motivazioni che nascono dal desiderio – pur buono – di fare qualcosa di “interessante” per gli altri. Indubbiamente, come si è notato prima, Dio si può servire di simili motivazioni, e in genere lo fa, ma – ancora una volta – esse non possono essere adeguate a sostenere la scelta della verginità consacrata. E, se anche formalmente lo fossero, non condurrebbero molto più in là di una vita mediocre, specie nei momenti di difficoltà o di prova. Lo stesso discorso del “far apostolato” va impostato bene: se uno motivasse la propria scelta verginale solo in rapporto ad esso rischierebbe di lasciar cadere tutto quando – e spesso succede – vi fossero degli insuccessi o delle delusioni. Il discorso deve dunque andare più a fondo. Il “fare”, anche in senso ecclesiale, deve nascere da un “essere”.

Le uniche motivazioni valide sono le motivazioni teologiche: motivazioni trascendenti, legate non tanto al nostro io personale, ma al mistero di Dio, al Regno inaugurato da Cristo Gesù, e alla sua chiamata e alla sua parola esigente e assoluta (cfr. Mt 19,10-12; Lc 9,57-62; 14,26; 18,29). Per il Regno: è la motivazione del testo matteano sugli eunuchi, resa in termini direttamente cristologici da Paolo in 1 Cor 7,32-35: Per il Signore. Chi è chiamato alla verginità consacrata, da qualunque parte abbia mosso i primi passi, deve poter arrivare a dire: La mia scelta si fonda unicamente su Dio e sulla sua rivelazione in Gesù, il Signore, sulla sua persona e il suo Regno: è una risposta d’amore, fatta nella grazia dello Spirito, all’Amore che un giorno per puro dono mi si è fatto incontro e mi ha voluto alla sua sequela. È questa la motivazione fondante e strutturante, da interiorizzare, nella certezza che essa non verrà meno, perché non si fonda su noi stessi o sulle sole nostre forze, ma unicamente su Dio e sulla sua grazia. E tutto ciò corrisponde in pieno alla vocazione umana all’amore inscritta nella nostra umanità come vocazione all’autotrascendenza, in su, verso l’Infinito dell’Amore.

Il problema, dal punto di vista dei progetti di formazione vocazionale, è dunque di fortificare le dinamiche umane della persone con motivazioni teologiche adeguate, trascendenti, corrispondenti al bisogno umano di trascendenza, non accontentandosi di motivi di ordine solo psicologico o sociale. Solo l’Amore di Dio-Trinità può legare a sé una persona, permettendogli di rinunciare

liberamente e serenamente all’amore umano, alla realizzazione d’amore di una vita a due, come è proprio del matrimonio, e consentendogli di ritrovare una nuova fecondità, in una dimensione “altra” di amore e di relazione. Solo questo Amore può permettere di far fronte a qualsiasi situazione di difficoltà o di crisi con assoluta fiducia, non solo nei momenti di calma spirituale, ma anche nei momenti di tempesta, non solo nei momenti di facile fedeltà, ma anche nei momenti più delicati o di tentazione di lasciarsi andare. Solo questo Amore consente di superare queste situazioni di prova con maturità e fedeltà, e rimanere gioiosi nel succedersi delle diverse stagioni della vita. Una persona sposata è fedele al proprio coniuge solo se lo ama veramente e se rinnova continuamente in questo amore. La persona consacrata è fedele alla propria scelta verginale se è profondamente “innamorata” di Dio e se vive un autentico rapporto sponsale con Lui, come il Signore della propria vita. In assenza di questa motivazione, la persona consacrata spenderà le sue migliori energie nel tentativo di alleviare le sue tensioni conflittuali o le sue insoddisfazioni, e non sarà mai felice. Questo contenuto è nodale ed è alla base della maggior parte delle “patologie vocazionali”, intese come situazioni di solitudine, di perdita di senso, se non di fallimento vero e proprio.  

 

La tenerezza: inizio e compimento della vocazione all’amore verginale.

Mi sia consentito di terminare con il tema della tenerezza: la tenerezza inscritta nel nostro essere come vocazione incancellabile, e la tenerezza di DioTrinità che, mediante la grazia, trasforma la nostra tenerezza naturale in una realtà di ordine teologale[15]. Il cuore della vocazione all’amore è la tenerezza. Ciò è vero per la vocazione all’amore nel matrimonio e per la vocazione all’amore nella verginità consacrata. Anzi, nessuno è tanto chiamato a vivere nella tenerezza quanto il consacrato, se vuole diventare un segno vivente della tenerezza infinita di Dio per l’umanità ad immagine del Figlio incarnato.

Il termine “tenerezza” non va ovviamente inteso come una qualche forma di sentimentalismo vuoto o sdolcinato, ma come pienezza di sensibilità umana, capacità di vivere la vocazione all’amore con amorevolezza, umanità, empatia e simpatia, cordialità, rispetto e convivialità; la tenerezza come “forza dell’umile amore”, secondo l’espressione di F. Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, dove si chiede che diventi decisione e stile di vita: “Alcuni pensieri, specialmente alla vista del peccato umano, ti rendono perplesso e ti domandi: Devo ricorrere alla forza o all’umile amore?. Decidi sempre: ricorrerò all’umile amore. Se prenderai una volta per tutte questa decisione, potrai soggiogare il mondo intero. L’amore umile è una forza formidabile, la più grande di tutte, come non ce n’è un’altra”.

 

 

 

 

Note

[1] Un’eco di queste posizioni era già stato rilevato al tempo del Concilio in Presbiterorum Ordinis 12b.

[2] Cfr. a riguardo di questa filosofia la puntuale e dettagliata analisi condotta da M. GERMINARIO,  L’uomo senza vocazione, Roma 1985.

[3] Cfr. in proposito le riflessioni offerte dalle catechesi di GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Roma 1995.

[4] Per una verifica sistematica dell’argomento, mi permetto di rimandare al mio: C. ROCCHETTA, Per una teologia della corporeità, Torino 1993 (2a. ed).

[5] E. BADINTER, L’uno è l’altra, Milano 1987.

[6] G. VANNUCCI, La parola creatrice, Milano 1993, specie pp. 68-79 e 133-143. 7)

[7GIUSTINO, Apol., 1, 55.

[8] Dio ha disteso sulla croce le sue braccia per circondare i confini dell’universo (CIRILLO di Gerusalemme, Cat. 13, 28; PG 33, 805B). Dio ha disteso nella sua sofferenza le mani ed ha abbracciato l’universo per preannunciare che dall’Oriente all’Occidente un popolo sarebbe venuto a radunarsi sotto le sue ali (LATTANZIO, Div. Instr. IV, 26, 36; CSEL 19, 383).

[9] Cfr. AGOSTINO, Epist. 147, 14, 33 (CSEL 44, 307). J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio. Questioni di ecclesiologia, Brescia 1971, pp. 52-53.

[10] AGOSTINO, De Trin., VIII, 8, 12 ; PL 42, 958.

[11] Ib., VIII, 10, 14; PL 42, 960.

[12] Ib., VIII, 5, 7 ; PL 42, 928.

[13] J. MOLTMANN, Trinità e Regno di Dio, Brescia 1979, p. 181.

[14] Cfr. nn.15-19

[15] Per un approfondimento ampio e sistematico del tema, mi permetto di rimandare al mio: C. ROCCHETTA, Teologia della tenerezza. Un “Vangelo” da riscoprire. Bologna 2000.