N.01
Gennaio/Febbraio 2001

Le attenzioni pedagogiche e metodologiche nell’annuncio della vocazione all’amore verginale

Quando nel gennaio ‘96, sempre nel contesto dei convegni del CNV, riflettemmo sulla proposta vocazionale della verginità, ricordo che feci riferimento ai piani vocazionali di più di 30 diocesi italiane, per cogliervi riferimenti a tale proposta e partire eventualmente proprio da questi riferimenti per elaborare una proposta unitaria. Ma la ricerca diede risultati deprimenti, dato che in nessuno di questi piani si faceva menzione di verginità e dintorni1. Questa volta le premesse sono molto diverse, grazie all’intelligente intraprendenza della presidenza del CNV e dei suoi collaboratori più diretti: il questionario e le risposte a esso date dai membri dei vari CDV ci offrono un quadro molto significativo della situazione al riguardo. Situazione che è stata già presentata, e che assumo come punto di partenza della nostra conversazione.

Più in particolare ci sono dei dati inoppugnabili ed evidenti che emergono dal questionario circa la proposta vocazionale dell’amore verginale.

1) Permane ancora molta incertezza al riguardo (“c’è molta confusione sul termine”, “si ha paura di non esser compresi o di non essere al passo dei tempi”, “è un tema imbarazzante e non attraente”, “per i giovani è una tematica difficile da accogliere e vivere”, “nella nostra cultura è un tema non apprezzato”, “resta marginale o dimenticato”…), insomma l’ideale forse non è assente in assoluto come un tempo, ma non è ancora considerato un tema vocazionale trainante o attraente su cui investire da parte dell’animatore vocazionale.

2) Di conseguenza, mancano le indicazioni pedagogiche, i percorsi ideali e concreti attraverso i quali fare una proposta esplicita e mirata dell’amore verginale. Che dunque rischia di rimanere nell’ombra, di restare inevasa. Come gravasse una cappa di silenzio sulla proposta verginale…

3) Al punto da suggerire un’interpretazione dell’attuale crisi vocazionale, quasi un’ipotesi di partenza, un po’ provocatoria, del nostro discorso. La contrazione delle vocazioni, specie al ministero ordinato, è legata, si disse un tempo con certa insistenza, alla prospettiva ritenuta scoraggiante del celibato sacerdotale. E se fosse vero il qualche modo il contrario, ovvero, e se la crisi fosse dovuta al silenzio assordante sulla verginità? Silenzio non tanto sul valore in sé, forse, quanto sulla indicazione d’un cammino che porti alla scoperta della verginità come dono, e dunque d’una pedagogia della verginità.

È da tempo ormai, per altro, che si invoca più pedagogia non solo nell’animazione vocazionale, ma in genere nella pastorale, non nel senso d’una rivendicazione nei confronti, magari, della teologia: al contrario, c’è la ferma convinzione che un’autentica teologia deve per forza divenire anche pedagogia, altrimenti non merita questo nome, così come l’indicazione di norme pedagogico-educative deve necessariamente ispirarsi a una prospettiva teologica di fondo. Il documento del Congresso europeo sulle vocazioni lo dice in modo esemplare, anzi, è costruito proprio su questa logica, e parla in modo esplicito di “teologia della vocazione” da cui deriva una “pedagogia della vocazione” 2. Ma forse non è Gesù stesso e tutto il Vangelo che propone questa struttura?

È già un principio teorico-pratico visibile sullo sfondo del presente convegno e cui ci atterremo anche noi in questa conversazione, nel tentativo di delineare almeno alcune indicazioni operative per il nostro ministero di educatori vocazionali, soprattutto in riferimento alla proposta della vocazione all’amore verginale.

 

 

L’AMORE VERGINALE: PRIVILEGIO DI POCHI O VOCAZIONE DI TUTTI?

Partiamo da un chiarimento tanto indispensabile quanto per niente scontato, anzi, probabilmente non così evidente; un chiarimento che in fondo è parte della teologia dell’amore verginale. Si riferisce, infatti, alla natura dell’opzione verginale e alla sua destinazione: per tutti o solo per qualcuno? Vocazione straordinaria che solo ad alcuni è dato intendere o dato che esprime un particolare aspetto della natura umana, del cuore dell’uomo?

Noi veniamo da una concezione vocazionale piuttosto precisa e rigida nella sua schematizzazione di fondo: da una parte i consacrati, presbiteri o religiosi/e, dall’altra i laici, i primi chiamati a esser vergini o celibi per il regno, i secondi felicemente coniugati (si fa per dire). La verginità, in questa concezione, sarebbe appannaggio di pochi, semplicemente una sorta di “eccezione sociologica”, una scelta molto strana e diversa da quel che fa la grande maggioranza, forse addirittura una cosa contro natura tanta è la rinuncia che chiede, per alcuni persino poco credibile e di fatto poco creduta, mistero che solo pochi possono capire, carisma o dono dall’alto, quasi un privilegio o (nel peggiore dei casi) legge più o meno subita. Difficile davvero rendere attraente una realtà con queste caratteristiche. Ma è possibile anche un’altra prospettiva.

 

Il carattere verginale-sponsale dell’essere umano

Quella secondo la quale la verginità dice in qualche modo la natura dell’essere umano, il suo carattere verginale, perché egli viene da Dio ed è orientato verso di lui, e vergine, nella sua essenza, significa proprio questo riferimento diretto, immediato (senza mediazioni), inevitabile, inscritto profondamente nella natura della creatura col Creatore: la verginità è l’espressione dell’origine dell’uomo, creato da Dio, e dunque anche della sua destinazione finale, che è Dio stesso. La prima e ultima sponsalità dell’uomo è con Dio. Ogni uomo, allora, è vergine ed è chiamato a esserlo, secondo la specificità della sua vocazione, e la verginità, in ogni caso, non può essere ridotta a pura caratteristica d’uno stato vocazionale, poiché dice invece un aspetto fondamentale della persona umana; tanto meno a una legge disciplinare più o meno imposta ad alcuni, perché sarebbe in tal caso qualcosa che s’aggiunge dall’esterno oltre a risultare psicologicamente invisa e molto poco praticabile, o imbarazzante da annunciare. Come abbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentare.

Dire invece che ogni uomo è vergine ed è chiamato a esser tale significa dire che nel cuore dell’uomo c’è uno spazio che solo l’amore di Dio può riempire, o c’è una solitudine insopprimibile che nessuna creatura potrà violare e pretendere riempire; vuol dire indicare la dignità e nobiltà d’ogni uomo e ogni donna, perché il suo cuore è fatto “da” Dio e dunque “per” Dio, possiede una grandezza che gli viene direttamente da Colui che l’ha fatto. Verginità è nostalgia delle origini, come ferita che non si rimargina, memoria degl’inizi e profezia del futuro, richiamo che sale dalle profondità radicali della specie (quasi archetipo junghiano), è l’identità umana, attuale e ideale, che dunque non può non proiettare ogni essere umano a cercare la realizzazione piena della sua affettività in Dio. E a non caricare la relazione umana d’un peso impossibile e d’una responsabilità eccessiva, d’aspettative irrealistiche e pretese reciproche di possesso l’uno dell’altro, con quelle gelosie, dipendenze, infantilismi, appartenenze corte, fedeltà deboli e quant’altro va a incrinare l’umana relazione.

Che non vuol dire immediatamente ed esclusivamente una scelta esplicita di vita, ma ancor prima capire che Dio è all’origine e alla fine d’ogni amore, che ogniqualvolta un essere ama lì Dio è presente, perché l’amore è sempre amore di Dio (così come ogni desiderio è alla radice desiderio di Dio), perché è Dio che ha inventato l’amore, anzi Dio è amore, è lui all’inizio e al termine d’esso. E dunque ogni affetto terreno che voglia rimanere per sempre ed essere intenso ha tutto l’interesse di far posto in qualche modo a Dio e all’amore divino, di lasciare a lui il centro.

Il che equivale a dire che amore divino e umano non sono in conflitto tra loro, al punto che uno escluda l’altro, non c’è tra essi invidia o gelosia, ma al contrario Dio salva l’amore dell’uomo, al punto che l’amore umano, anche quello più felice, coniugale o paterno-materno o amicale, è tanto più amore quanto più è “verginale”, ovvero è tanto più affetto umano quanto più impara a rispettare quello spazio, quel riferimento diretto al Creatore, non violenta quella solitudine ove ogni essere umano è in rapporto diretto con l’Eterno infinitamente amante, non pretende saziare definitivamente la sete d’amore dell’altro né esserne saziato, perché solo Dio può rispondere in pienezza alla sete d’amore umana, e se davvero l’uomo vuole amare molto e per sempre il suo simile deve accogliere l’amore di Dio in sé, per lasciarsi amare da lui e amarlo. E così riscoprire il senso autentico del rapporto liberante con l’altro.

 

La verginità, obiettivo formativo universale

C’è già un’indicazione pedagogica notevole che viene da questo chiarimento. Occorre recuperare la verità di questo termine, occorre sfrondarlo da tutte quelle errate interpretazioni che ne hanno dato un’idea parziale e artificiale, facendone una cosa esclusiva per alcune categorie vocazionali nella Chiesa di Dio e strana per tutte le altre. Ecco il peccato: abbiamo sequestrato l’idea di verginità, rendendola cosa strana e improbabile; ce ne siamo appropriati, rendendola indecifrabile; ce ne siamo vantati, forse, rendendola antipatica e supponente; l’abbiamo vissuta per la nostra perfezione privata, rendendoci poco credibili; l’abbiamo spesso sopportata con poca gioia e scarso amore, rendendola poco appetibile, quasi fosse una sventura; abbiamo ritenuto di doverla difendere dal mondo tentatore, nascondendola sotterra (cfr. Mt 25,25) o in un fazzoletto (cfr. Lc 19,20), più che condividerla. Più in particolare, l’abbiamo spiritualizzata, togliendole la concretezza d’un cammino pedagogico da proporre anche agli altri, cui appartiene per natura, e autodispensandoci dalla fatica di cercare quel cammino abbiamo rischiato noi stessi di capire ben poco d’essa, del suo fascino e del suo mistero.

È necessario restituire al vocabolario della lingua corrente, almeno nell’ambito credente, questo termine e la sua ricchezza e profondità di senso. È inquietante leggere nelle risposte al questionario che noi abbiamo paura di parlarne, che ci sentiamo imbarazzati a pronunciare questo termine, che c’è grande confusione in noi a riguardo del suo significato, che non sappiamo come presentarlo, che temiamo di suscitare ilarità nei giovani, che tutto sommato è meglio lasciar perdere, o lasciare che ne parli il Vescovo, come ha pure rilevato qualcuno, come se Sua Eccellenza fosse l’unico testimonial, il solo superstite d’un valore smarrito…

Più in particolare ci vengono due grandi indicazioni da questa interpretazione coraggiosa e radicale della verginità.

 

Dalla teologia alla pedagogia dell’amore verginale

Se la verginità dice le radici dell’essere umano, se c’è una verginità nell’orizzonte di tutti allora dobbiamo ritrovare la parresìa di dirla, dobbiamo fare la fatica di cercare i termini adatti e i simboli più evocativi, se questa è la teologia dell’amore verginale dobbiamo assolutamente cercare una pedagogia corrispondente, adatta a trasmetterla e a educare a questo tipo di interpretazione, a creare questa sensibilità. Se la teologia non diventa pedagogia non serve a niente, ricordavamo prima; se la teologia dell’amore verginale non detta le linee d’una pedagogia dell’amore verginale è teologia che smarrisce se stessa e a un certo punto diventa insignificante.

D’altro canto, è proprio una prospettiva teologica come quella indicata che impone per natura sua, che costringe non solo l’animatore vocazionale, ma qualsiasi adulto nella fede, nella Chiesa di Dio, a cercare modi e percorsi concreti lungo i quali questa verità possa esser detta, decifrata, spezzettata, masticata, metabolizzata, gustata profondamente… Altrimenti corriamo il rischio di continuare nel peccato di cui dicevamo prima: quello dell’appropriazione indebita, della privatizzazione di qualcosa che invece abbiamo ricevuto per gli altri, che appartiene a tutti. Finendo per non comprenderla neppure noi.

Vogliamo dire con questo che è giusto aspettarsi che il convegno o chi per esso fornisca linguaggi, formule, strumenti e itinerari per la proposta dell’amore verginale, ma a nulla servirebbe tutto questo se in noi per primi non vi fossero delle convinzioni forti (teologiche) al riguardo, o se permanessero in noi dubbi o scetticismi, o se continuassimo a ritenere la verginità come un’esclusiva del prete o del frate. L’autentica pedagogia dell’amore verginale la potrà escogitare e inventare solo quel vergine che vive la vocazione comune all’amore verginale.

 

Dai valori fondamentali alle scelte personali

Ma l’indicazione più suggestiva per noi, in ambito vocazionale, è questa. Proponendo questo tipo o questa interpretazione della verginità noi rispettiamo quel principio fondamentale sancito in modo preciso dal documento del congresso europeo, secondo il quale l’animazione vocazionale inizia con una catechesi sui valori elementari della vita umana, è appello rivolto a tutti perché ricorda a tutti verità e valori che tutti devono vivere3 , ognuno poi secondo scelte che si diversificheranno, ma in ogni caso tutte ispirantisi a quei principi e criteri che dicono la dignità umana e il senso della vita e della morte, dell’amore e della sofferenza. In tal senso, dice per la precisione il documento, è necessario “partire dai valori fondamentali e universali (il bene straordinario della vita) e dalle verità che sono tali per tutti (la vita è un bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato), per passare poi a una specificazione progressiva, sempre più personale e concreta, credente e rivelata, della chiamata”4 . La verginità è una di questi valori fondamentali e verità elementari; è l’espressione e il segno che l’unico vero desiderio dell’uomo è Dio, è vedere il volto del Padre, come dice Filippo, entro la logica agostiniana del “cor nostrum inquietum donec requiescat in te”.

Su un piano pedagogico e comunicativo stiamo dicendo che se l’amore verginale è presentato così, come richiamo alla verità dell’uomo e della donna di sempre, allora si creano le premesse per qualsiasi tipo di ulteriore provocazione e poi di scelta; allora, in altre parole, è più facile che la verginità stessa sia scelta come verità della propria vita, secondo i diversi orientamenti vocazionali. Lungo un cammino vocazionale aperto a tutte le vocazioni, e in cui la verginità rappresenta come una sorta di denominatore comune, di punto di partenza e pure d’arrivo. Senz’alcuna contrapposizione tra pastorale vocazionale generica e specifica (come qualcuno ancora lascia insinuare nelle risposte), e al di fuori d’ogni paura d’allargare eccessivamente il senso del termine “vocazione” e renderlo insignificante, o dell’altra paura che la proposta della verginità diventi scoraggiante e allontani dalla possibilità d’una scelta di speciale consacrazione. Anzi, si verificherebbe allora esattamente il contrario: la proposta corretta dell’amore verginale per tutti potrebbe divenire elemento che potrebbe anche promuovere e incoraggiare la scelta di speciale consacrazione, indirizzandola nella direzione giusta.

 

La verginità all’inizio del percorso vocazionale (il “giorno prima”)

Ma è importante, per questo, ribadire che la verginità non si trova alla fine di questo percorso decisionale, ma esattamente al suo inizio, proprio perché sta a dire la natura umana, o un aspetto importante d’essa, e dunque è addirittura una condizione per fare poi un discernimento corretto.

Di conseguenza il valore e il senso della verginità non possono restare praticamente fuori dei contenuti elementari o dei percorsi abituali della pastorale, non si può continuare a ritenere la verginità come un esito eventuale, a parlarne in gruppi chiusi o solo a qualcuno o con imbarazzo e rossore… Ma, al contrario, il termine va reso familiare, va ripulito e purificato soprattutto da quell’aria di sospetto e diffidenza che la rende invisa ai più, da quei pregiudizi ed errate interpretazioni che la trasformano in qualcosa di vecchio e anacronistico, da quei falsi spiritualismi che la deformano e rendono più virtuale che virtuosa, e da quelle parziali accezioni che la riferiscono – chissà perché? – solo alle donne. La verginità concorre a dire il mistero dell’essere umano, la sua origine e il suo destino, lungo una possibilità di scelte diverse. Va associata senza paure sciocche con l’amore e la capacità d’amare e d’esser amato dell’uomo, e indicato laddove il ragazzo, il giovane, l’adulto… sono attesi a scelte significative, nella catechesi normale come nella direzione spirituale, e non solo nell’animazione vocazionale, ma anche nei corsi di preparazione al matrimonio, se è vero quanto abbiamo ricordato più sopra circa il suo significato. Chiaro che allora il problema riguarderebbe ogni operatore pastorale, non solo l’animatore vocazionale.

Chi l’ha detto che non si possa parlare di castità e purezza ai giovani e in modo giovanile, ovvero di invito a rispettare il mistero della sessualità, per intuire e non bruciare le possibilità del cuore umano? Se impareremo nuovamente a “bene-dire” la sessualità, ci verrà senz’altro più facile parlare di verginità. E perché non proporre la verginità a fidanzati e sposi, e non, badiamo bene, in senso alternativo al matrimonio (come rinuncia virtuosa al rapporto, per intenderci), ma come dimensione essenziale d’esso, come verginità “nel” rapporto, come garanzia di amore umano, tenero e fedele, libero e liberante e assieme come purificazione da ogni aspettativa irrealistica nei confronti dell’altro, come se il partner dovesse soddisfare tutta la sete d’affetto5? Chi può pensare che il senso che abbiamo ora dato alla verginità non possa e non debba esser detto e proposto con vigore fin da subito e sempre nel cammino cristiano? Chi l’ha detto che nel cammino di educazione dell’affettività e della sessualità la Chiesa non possa ritrovare e recuperare il suo proprio ruolo educativo con una proposta integrale che suoni non solo concorrente, ma alternativa alla degradazione dei messaggi culturali odierni in materia di sesso e dintorni? E allora torna l’ipotesi posta all’inizio del nostro discorrere: chi potrebbe escludere che la crisi vocazionale non dipenda anche dal silenzio, non solo assordante a questo punto, ma anche “impuro”, sulla verginità?

Se oggi ci siamo ridotti a ragionare sul “giorno dopo”, per aggiustare una situazione resa precedentemente problematica dal qualunquismo relazionale e dall’irresponsabilità sessuale, ciò non è forse avvenuto perché sono venuti in qualche modo a mancare il “giorno prima” da parte nostra una certa attenzione educativa e pastorale, o il coraggio di scendere nella mischia, nella persuasione che nella pluralità di proposte non vince chi si adegua, ma chi propone qualcosa di straordinario e diverso, molto diverso? C’è una certa sensazione piuttosto inquietante che emerge dal nostro mondo ecclesiale, e di cui un tenue segnale viene fuori anche dalle risposte al nostro questionario: è la sensazione di tanti operatori pastorali ed educatori (o ex l’uno e l’altro) che per quanto riguarda la sessualità si tratti ormai d’una battaglia persa, o impari, quasi fossimo di fronte a un avversario fin troppo agguerrito, a un Grande Fratello, possente quanto ebete, che ormai detta legge e costumi, a tutti imponendo l’imbecillità relazionale e l’anarchismo sessuale, come rimedio al vuoto cerebrale e alla noia che ne segue.

È grave che chi dovrebbe educare alla verginità e all’amore parli, come risulta dal questionario, di “paura di non esser compreso o di non esser al passo coi tempi”, o che senta l’argomento “imbarazzante e non attraente”, decidendo di parlarne “in sordina” o affidando ad altri l’incarico, e “nascondendo in un fazzoletto”, o “sotterra”, come il servo infingardo e malvagio della parabola evangelica, il talento ricevuto. È grave, in sintesi conclusiva, perché allora il problema non è pedagogico, o dovuto al fatto che ci mancano le indicazioni metodologiche, ma ciò segnala che il problema è prima di tutto dentro di noi, dentro l’educatore, nel suo modo d’esser vergine, e di concepire e poi vivere la sua verginità (nella sua teologia dell’amore verginale), come espressione e manifestazione piena del carattere radicalmente verginale dell’essere umano, o come rinuncia forzosa a un istinto naturale e invadente; nel primo caso c’è la convinzione di portare a pieno compimento la propria natura, c’è una sensazione di libertà e beatitudine, pur con tutta la fatica che ciò comporta, nel secondo sarà prevalente l’impressione negativa, di qualcosa di artificioso e dal prezzo altissimo, da nascondere, quasi, più che da diffondere; ma in ogni caso il problema è destinato a divenire anche pedagogico, perché nel primo caso (la verginità come espressione dell’anelito fondamentale del cuore umano) chi ha scoperto e ricevuto in dono questa chiamata si darà da fare per condividere un valore che riconosce come universale, cercherà le modalità pedagogiche attraverso cui trasmettere un dono che è di tutti e proprio perché è di tutti cercherà di renderlo comprensibile e godibile, perché tutti se ne rendano conto e lo vivano e ne siano felici; nel secondo caso, invece (la verginità come scelta speciale per la propria perfezione o come legge disciplinare o come privilegio straordinario) l’animatore vocazionale celibe non si sentirà così provocato a trovare i modi per trasmettere qualcosa che in fondo è solo suo e di cui probabilmente non conosce il fascino. Insomma la pedagogia o i modi per comunicare e condividere li cerca solo chi è spinto e provocato da un valore grande che sa di non poter tenere per sé e di dover partecipare. E allora, se questo è vero, non è buon segno che la pedagogia sia stata sempre la cenerentola, la parente povera, l’ancilla philosophiae che a sua volta era l’ancilla theologiae!

 

 

LA PROPOSTA

Passiamo ora a parlare dell’amore verginale in quanto scelta esplicita di vita, come vocazione della persona, che porta all’estreme conseguenze quel che tutti sono chiamati a essere e vivere.

 

Scelta forte, verità debole

La scelta del vergine, chiariamo decisamente, vuol esser memoria della vocazione di tutti, del dono che tutti hanno ricevuto, delle possibilità insospettate, dunque, del cuore umano, possibilità spesso ignorate e di fatto non credute e inibite, quasi abortite. La cosiddetta rivoluzione sessuale della fine anni ‘60 è stata un’autentica finzione, la più finta di tutte le rivoluzioni perché non ha liberato un bel niente, tanto meno ciò che voleva liberare (il sesso), forse l’ha reso indipendente dall’amore, svuotandolo di verità e di gusto e finendo per renderlo finto come i fiori di plastica o il vino artefatto. Senza dubbio ha dato il via a quel processo di indebolimento o estenuazione generale dei valori, a quel nihilismo debolista che poi sarebbe esploso e con cui ci troviamo oggi a combattere. Anche in materia di sesso e amore, mai così distanti tra loro come oggi.

La verginità come valore universale, quale noi l’abbiamo delineata, è oggi una verità debole, senza voce né “potere contrattuale” (non offre nulla in cambio, come forse una volta), non possiede altra forza al di fuori della testimonianza di chi l’ha scelta.

Ma non è per niente detto che questa debolezza nuoccia alla proposta stessa o indebolisca la possibilità d’una testimonianza di tale scelta; semplicemente ci ricorda che il contesto nel quale oggi viviamo non è culturalmente in sintonia col significato che abbiamo indicato e individuato in questa opzione di vita. È importante tenerne conto. E se l’unica possibilità è quella della freschezza della testimonianza di chi l’ha scelta, è necessario che il messaggio sia nitido e senza alcuna sbavatura, chiaro e senz’alcun compromesso, subito leggibile e subito percepibile come qualcosa di bello e appagante, di pienamente umano e in funzione dell’umana realizzazione, altrimenti, se il messaggio parte già poco chiaro e poco limpido, col virus di qualche equivoco contaminante, allora non può certo arrivare a destinazione e trasmettere una verità che è già debole nella cultura attuale. Proprio la debolezza culturale della verginità come valore universale chiede con insistenza la nitidezza della scelta e della testimonianza da parte di chi l’ha scelta.

Nessun moralismo in tutto ciò, anzi questa indicazione pedagogica consente proprio di superare una prospettiva puramente moralistica. È la pedagogia della trasparenza, o dello stile verginale come testimone immediato d’un valore universale.

 

I contenuti della proposta

Se ogni pedagogia nasce per natura sua dal contenuto o dal valore educativo che vuole trasmettere (per noi, come abbiamo visto, dalla teologia della vocazione e dell’amore verginale), vediamo di chiarire con la maggior precisione possibile il contenuto della proposta dell’amore verginale. Che cosa vuol dire, insomma, verginità per il regno dei cieli, perché si dice nel questionario che essa è il cuore della pastorale vocazionale, siamo sicuri d’aver le idee chiare al riguardo? Un buon educatore deve saper bene, con estrema esattezza, l’obiettivo della sua azione educativa. E un animatore vocazionale è anzitutto un educatore, come sappiamo.

Esser vergini per il regno dei cieli vuol dire amare Dio al di sopra di tutte le creature (= con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze), per amare con il cuore e la libertà di Dio ogni creatura, senza legarsi a nessuna né escluderne alcuna (= senza procedere con i criteri elettivi-selettivi dell’amore umano), anzi, amando in particolare chi è più tentato di non sentirsi amabile6 .

Proviamo a scomporre gli elementi più significativi della proposta, come emergono da questo tentativo di definizione: la sostanza della verginità: la scelta verginale consiste essenzialmente nell’amore, inizia e si compie nell’amare, nel voler bene, non primariamente nel rinunciare all’amore o a qualche istinto; l’oggetto dell’amore verginale: Dio anzitutto, ma non solo Dio, anche le creature, ogni creatura, e in particolare chi è più tentato di non sentirsi amabile e non è di fatto amato; non c’è rivalità tra questi amori, semmai c’è progressione a partire dall’amore di Dio, come un movimento concentrico; la modalità o stile dell’amore verginale (condizioni in positivo): è la totalità, indicata dalle caratteristiche dei due amori: Dio è amato con tutto il cuore, mente e volontà; la creatura col cuore e la libertà di Dio, dunque è un amore totalmente umano e totalmente divino; inoltre abbiamo già detto che l’oggetto dell’amore è ancora totale, sia quello divino che quello umano; le rinunce dell’amore verginale (= condizioni in negativo): il vergine deve rinunciare a legami definitivi ed esclusivi, per tutta la vita (sarebbe il matrimonio), ma anche a esclusioni di sorta, di qualcuno, in sostanza deve rinunciare a procedere coi criteri della benevolenza o simpatia solo umana che sceglie ed esclude in base al semplice istinto o all’interesse personale più che a quello altrui.

Credo che questa definizione descrittiva offra già all’educatore intelligente e appassionato suggestioni precise e spunti notevoli per la proposta della scelta verginale e per una formazione alla stessa scelta. Anzi, di fronte alla chiarezza e ricchezza di questi elementi ci appaiono ancor più strane e immotivate alcune risposte del questionario, ove si parla di paura e imbarazzo nel proporre la scelta verginale, di timore d’apparire non al passo coi tempi, di tematica difficile da accogliere… Ma vediamo ora di dedurre da queste indicazioni alcune specifiche e più centrali attenzioni pedagogiche.

 

L’itinerario della scelta

Se la scelta verginale è questione d’amore e non di rinuncia anzitutto, solo un cammino di formazione all’amore può condurre a questa opzione. Nulla di nuovo, sembrerebbe; chissà da quanto tempo ripetiamo che Dio è amore e il cristianesimo pure. Ma la scelta dell’opzione verginale implica qualcosa di più: implica che tutto il contesto dell’annuncio della buona novella, o che tutto il processo di educazione alla fede sia rigorosamente coordinato attorno a questa verità centrale. Al riguardo mi sembra preziosa l’indicazione che ci viene dal nostro documento, quando parla degli “itinerari pastorali vocazionali”, la liturgia, la koinonia, la diakonia, la martiria7 , raccomandando di veicolare la proposta vocazionale in ognuno d’essi, perché il giovane credente si senta circondato da ogni parte, quasi assediato, dalla stessa realtà luminosa, nel nostro caso, dell’amore di Dio: la possa celebrare nella liturgia e nel rapporto personale con Dio, vivere nella comunione ecclesiale e nell’esperienza di fraternità con gli altri credenti, sperimentarla come servizio che rende agli altri, specie ai più bisognosi, riceverla come annuncio nella catechesi e ritrasmetterla a sua volta come buona novella di cui anch’egli è annunciatore responsabile.

È il principio psicologico della ridondanza (o della diversa risonanza), per cui lo stesso messaggio giunge da contesti diversi e con modalità distinte, a dire e ripetere che è possibile vivere con Dio l’avventura più bella e appagante, che davvero il cuore dell’uomo è fatto per lui, che tale amore può anche bastare per tutta la vita, che in forza di quest’amore si può anche dire di no all’amore desideratissimo d’una donna ecc. Tale principio psicologico è in fondo la traduzione psicologica del principio biblico del “con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze”, e del principio pastorale della globalità degl’itinerari per la crescita della fede. È solo dall’applicazione coerente di questi principi che può derivare una scelta difficile, oggi in particolare controcorrente, e pure appassionata come quella verginale.

E invece spesso abbiamo parrocchie o gruppi o contesti ecclesiali che dovrebbero essere di maturazione nell’opzione credente che sono come squilibrati o sbilanciati su uno solo di quegli itinerari, o danno troppa importanza all’uno o all’altro, e così ne vengono fuori proposte deboli, inefficaci, confuse…, o esperienze di Dio frammentarie e illusorie…, o giovani rapiti in improbabili rapimenti mistici o misteriosamente attratti dal fascino d’un equivoco neoritualismo; o giovani sbracati un po’ rivoluzionari, impegnati o superimpegnati solo nel sociale; o individui timorosi della solitudine e alla ricerca d’un posto confortevole nel gruppo chiuso o nel branco; o mezzi intellettualoidi che hanno ridotto la fede a un sillogismo. Da questi sentieri interrotti non potrà mai venir fuori un’opzione di scelta verginale, o verranno fuori solo aborti vocazionali, perché il cuore per amare ha bisogno delle mani e dei piedi, di tutto…, e se mai venisse fuori un’opzione poi sono cavoli nostri in seminario (ne so qualcosa anch’io…), cioè avremo oggi cammini vocazionali perennemente incerti e un domani celibati solo tecnici, privi di passione, risultati d’una fusione fredda.

 

Oggetto e stile

Un certo modo d’intendere il celibato un tempo insisteva sul “cuore indiviso” del celibe, totalmente ed esclusivamente votato ad amare l’Eterno e un po’ sufficiente nei riguardi degli altri e della relazione, come se lui facesse da solo… Credo che questa impostazione oltre a non esser corretta sul piano valoriale non offra indicazioni utili sul piano pedagogico, ovvero rischi di risultare poco attraente per una personalità normale.

Allora diciamo subito che esser vergini vuol dire amare Dio, certo, ma non semplicemente ed esclusivamente come oggetto d’amore che escluda o metta in secondo ordine gli altri. Dio, vogliamo dire e precisare, non è solo l’oggetto dell’amore verginale, mane rappresenta anche il modo, lo stile. O, se preferiamo, Dio è così tanto l’oggetto amato dal vergine da divenire anche il suo modo d’amare. Ma è possibile anche invertire la frase e dire: nella misura in cui un giovane impara a voler bene con criteri non solo umani, il suo cuore si apre all’amore dell’Eterno.

Questo è molto importante perché indica un preciso percorso pedagogico che rispetta l’esigenza d’unità a livello intrapsichico, unità tra oggetto e stile dell’amore. Percorso che cerca, in concreto, di trasmettere l’idea che amare Dio non è semplice sentimento o pura velleità, né solo azione o solo contemplazione, ma è fondamentalmente voler bene con il suo stesso cuore, con la libertà di quel Dio che fa scendere la pioggia e risplendere il sole su giusti e ingiusti e invita chi crede in lui ad amare non solo chi ricambia il gesto amoroso, ma anche chi non lo ricambia. Anzi, questo fa nascere e crescere l’amore intenso per Dio, dà al giovane una ragione credibile e convincente per decidere di legarsi a lui in un patto d’amore sponsale che può esser anche esclusivo, ma esclusivo non più nel senso che faccia a meno degli altri, ma – al contrario – nel senso che abilita ad amare tutti con la potenza o la delicatezza d’amore di Dio. E proprio amando così la scelta diviene sempre più possibile e accessibile, anzi, godibile e beatificante.

In concreto si tratterà di accompagnare il giovane (ovvio che in tutto questo che stiamo dicendo è centrale la figura della guida che educa e accompagna) lungo questo cammino non facile ma esaltante e praticabile, che lo provochi ed educhi a voler bene oltre l’impulso naturale e la simpatia istintiva, oltre la cerchia di chi gli viene facile amare o di chi gli garantisce una risposta gratificante, oltre i criteri dell’attrazione emotiva, fisica o psicologica…

Ma anche con un certo stile che potremmo forse chiamare stile relazionale verginale: stile di chi impara a non mettersi al centro dei rapporti, dell’attenzione e dell’interesse altrui, ma sta in disparte, perché il centro appartiene a Dio; stile di chi apprende a non invadere l’altro, a passargli accanto sfiorandolo, senza fare del corpo il motivo e il luogo dell’incontro; ancora, stile di chi impara a usare con creatività e fantasia il linguaggio simbolico dell’amore e le sue mille sfumature, che non s’esprimono solo col linguaggio genitale o fisico-gestuale; stile di chi riesce a coniugare l’affetto con il rispetto, la discrezione intelligente col coraggio di riconoscere i propri sentimenti, il voler bene con il voler il bene dell’altro, la libertà d’amare con la libertà di lasciarsi benvolere8.

Chi compie questo percorso è destinato fatalmente a un certo punto a incontrare Dio, a incontrarlo come la pienezza dell’amore, come colui che ti trasmette la sua stessa libertà di voler bene, donandoti a sua volta una libertà incredibile. Ma questa libertà ha un costo…

 

Rinuncia e libertà

È il costo della rinuncia all’esercizio d’un istinto profondamente radicato nella natura umana come l’istinto sessuale, e non è dunque la rinuncia alla sessualità (sarebbe impossibile!) e a ciò ch’essa significa, ovvero alla fecondità e alla relazione, anzi, diciamo esplicitamente che l’educazione alla scelta verginale è educazione alla relazione e alla fecondità; ma chiede in ogni caso una rinuncia comunque dolorosa perché l’istinto ha in sé la forza della natura, e ogni essere umano si porta in cuore il desiderio di legarsi per sempre a una creatura con cui condividere profondamente la vita e l’amore.

La rinuncia del vergine è rinuncia a una cosa bella, occorre dirlo, per far soprattutto capire che è possibile solo per un’altra cosa ancor più bella. E comunque la via della rinuncia è una via importante per far nascere l’opzione verginale. Questo è un punto strategico nella pedagogia della scelta verginale, ove forse molti percorsi ben lanciati si sono inceppati senza più progredire.

È fondamentale anzitutto aver il coraggio di proporre la rinuncia, non far i finti educatori moderni che hanno paura o si vergognano d’apparire antiquati o d’essere rifiutati, e non sanno chiedere alcun sacrificio. Occorre proporre un senso liberante e intelligente della rinuncia, che vedo ben espresso in quell’episodio della vita di Francesco d’Assisi quando bacia un lebbroso. Quando Francesco compie questo gesto non fa semplicemente un atto eroico, magari reprimendo una naturale ritrosia o chiudendo gli occhi per non vedere, ma in un certo modo si sente attratto da quel viso deforme, come l’amante verso le labbra dell’amata; così al giovane deve essere proposta la rinuncia implicita nella verginità: come un dire di no a qualcosa di bello (umanamente parlando) per esser liberi di provare attrazione per qualcosa che umanamente non è attraente; come si rinunciasse al viso più bello per essere liberi d’abbracciare il viso più brutto. È una libertà costosa, ma in realtà tale libertà non ha prezzo, e il giovane è moltissimo sensibile a questa libertà.

Dunque la rinuncia deve essere mirata e ben finalizzata, e l’educatore non deve aver paura di proporla, come condizione per giungere ad avere una maggiore libertà, che è poi la libertà di Dio, come già detto, del Dio che ama tutti, specie il debole e il povero. Diciamo, su un piano pedagogico, che nessun educatore può proporre una rinuncia se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia apre al soggetto. La rinuncia all’esercizio dell’istinto sessuale tende proprio a questa libertà, alla libertà d’amare tutti, chiedendo il sacrificio d’allontanarsi da qualcuno (= il viso più bello) per avvicinarsi più intensamente a qualche altro, a tutti, fino a voler bene e provare addirittura attrazione per chi umanamente sembra meno amabile o addirittura repellente (= il viso più brutto), o è più tentato dalla disperazione di scoprirsi poco amato9. Davvero la pedagogia della rinuncia all’esercizio dell’istinto sessuale e della scelta dell’amore verginale è pedagogia della libertà.

Perché qui c’è tutto il senso della verginità per il regno. Qui la rinuncia diventa possibile, e la verginità diventa espressione d’una nuova libertà, d’un cuore capace di nuove attrazioni, d’un cuore umano che batte dei battiti dell’Eterno. Quale giovane può non provare interesse e attrazione per questa proposta?

 

Le due certezze

Infine una indicazione pedagogica importante è quella che concerne le condizioni psicologiche che abilitano a questo tipo di scelta. Un tempo la scelta verginale si portava dietro un alone di eroismo e straordinarietà. Oggi, mentre viviamo tempi non proprio eroici, non credo ci convenga insistere su questo registro. La scelta verginale non è scelta eroica e neppure strana, è scelta resa possibile da un cuore che ha scoperto d’essere stato abbondantemente amato, da sempre e per sempre, e che ha sperimentato – a sua volta – d’esser capace di voler bene anche lui, per sempre. Sono le due certezze che, sul piano psicologico, dicono la libertà affettiva della persona.

La pedagogia della scelta verginale passa attraverso queste due certezze, o cerca di accompagnare la persona ad acquisirle, perché senza di esse non sarebbe possibile né credibile alcuna scelta in tal senso. Si consacra autenticamente nella verginità solo chi scopre che “non ne potrebbe fare a meno”, e chi al tempo stesso si convince che il dono di sé a Dio e agli altri è il minimo che possa fare, a fronte del tanto amore ricevuto. Come dire: è una scelta obbligata e pure libera, umile e discreta come pure generosa e totale, piena di gratitudine prim’ancora che di gratuità.

Sono profondamente convinto che se fossimo capaci, come educatori, di suscitare queste due certezze nel cuore di tanti giovani, se fossimo capaci di aiutarli a recuperare la verità della loro vita (perché tutti di fatto sono stati amati e sono in grado di amare), certamente vi potrebbero essere anche molte più opzioni di scelta verginale. Un tempo c’era la psicologia dell’eroe, abbiamo prima ricordato, oggi va in onda la lagna e la psicologia della lagna, per cui, in questa società del benessere in cui tutto è dovuto, e che ha tolto la libertà di godere del bene ricevuto e di meravigliarsene e di esserne grati, tutti in questa cultura della lagna credono d’aver il diritto di lamentarsi di qualcuno o di qualcosa che non ha funzionato per il verso giusto nella loro vita passata.

La scelta della verginità è scelta contenta, non lagnosa. Scelta di chi essendo certo d’essere già stato amato, si dispone a lasciarsi amare ancora da Dio e dal prossimo. Chi si lagna non è libero di lasciarsi benvolere, perché non gli basterà mai, e avrà sempre ancora da lamentarsi. Chi si lagna non potrà mai esser vergine, dunque. Perché la verginità non è solo amore oblativo e sacrificale, ma è anche il massimo della libertà di lasciarsi benvolere e di godere del minimo segno d’affetto. Anche questo va ricordato al giovane. Perché la sua gioia sia piena…

 

Cuore del mondo

Al Padre è piaciuto fare abitare in Cristo ogni pienezza, ricapitolando e riconciliando in lui e nel sangue della sua croce tutte le cose (cfr. Col 1,20; Ef 1,10). La croce come simbolo e icona dell’amore verginale, perché la croce è la pienezza massima dell’amore, umano e divino, per Dio e per ogni uomo, che abbraccia tutti e non esclude nessuno, è la sintesi al massimo grado di amore ricevuto e donato, di amore crocifisso e già risorto o illuminato dai chiarori dell’alba della resurrezione. La croce è il cuore del mondo, così è stato nella storia della salvezza, e questo cuore deve disporsi ad avere il giovane che sceglie l’amore verginale.

Per questo la pedagogia vocazionale che conduce a questa scelta deve essere in qualche modo una pedagogia della croce, come una croce-via. L’amore verginale è fondamentalmente amore pasquale, crocifisso-risorto, dunque deve percorrere quell’itinerario preciso, perché il giovane impari ad avere gli stessi sentimenti del Figlio che dà la vita mentre la riceve dal Padre, e scelga la verginità come un modo di ricevere e offrire la sua stessa vita.

Sul piano pedagogico sarà allora importante non temere di proporre l’icona della croce, senza paura e mostrando d’aver capito la lezione di Tor Vergata, ove la croce è stata la grande protagonista non solo della veglia finale, ma di tutta la GMG in tutte le sue fasi, dalla preparazione alla celebrazione finale. È stato commovente constatare il fascino di questo segno elevato da terra, proprio come aveva profetizzato Gesù: “Guarderanno a colui che hanno trafitto”. Perché questo fascino?

 

Quel misterioso legame…

Perché c’è un misterioso legame tra il mistero della sessualità e il mistero della pasqua. Potrà sembrare singolare e strano, ma pedagogicamente è quanto mai efficace.

Perché nulla come la croce di Gesù, cuore del mondo, può “ricapitolare” tutte le cose, dare senso pieno a tutto, proprio a tutto, anche alla sessualità prorompente giovanile e a quell’esigenza di relazione e di fecondità nascosta in essa, anche quando si traveste di voglia di giocare con l’altro, perfino usandolo; anche a quel viscerale bisogno d’amore che il giovane si porta dentro come una donna incinta, anche quando non s’accorge di pretenderlo tutto e solo per sé proprio come un bambino mai cresciuto. La sessualità è mistero. La croce aiuta a svelarlo, a coglierne natura e ricchezza, a dare un ordine a quella energia perché non vada perduta, e non uccida se stessa. Essa svela, infatti, che: qualsiasi gesto d’amore, dal più piccolo al più grande, è sempre preceduto dall’amore ricevuto (Gesù non sarebbe mai salito in croce se non fosse stato certo dell’amore del Padre); ma in ogni caso l’amore non può scegliere le mezze misure, è per natura sua radicale e totale, e la croce è il segno più grande dell’amore più grande; e dunque un certo esito estremo e doloroso, di passione, di dono anche sofferto di sé è parte naturale dell’amore: chi ama, insomma, deve per forza “morire”, c’è un dramma inevitabile nella vita di chi prende sul serio la relazione con l’altro, con il diverso da sé, e vuole a tutti i costi il suo bene, qualsiasi sia la sua scelta vocazionale; e proprio questa morte rende fecondo l’amore, lo fa entrare nella dimensione pasquale della resurrezione, è mistero pasquale, è morte che si trasforma in nuova vita, è salvezza com’è stata salvezza la morte di Gesù. L’amore crocifisso e risorto diventa così la massima realizzazione della relazionalità e della fecondità, le due caratteristiche essenziali della sessualità. Ma è amore che continua sempre ad avere le stigmate! La sessualità, in sintesi, incontra necessariamente nel suo cammino la realtà della croce; la croce dà un ordine e consente una piena espressione della propria sessualità; la verginità è una manifestazione singolare della capacità di relazione e fecondità della sessualità, in qualche modo è una sessualità che è passata attraverso la croce e la resurrezione, è sessualità pasquale.

 

Amore pasquale e amore verginale

Tutto ciò può forse sembra ancora teorico e bisognoso di ulteriori mediazioni pedagogiche per favorire la scelta dell’amore verginale. In realtà ne costituisce una premessa indispensabile, come la tappa d’un percorso che può portare a imprimere un certo orientamento alla vita.

La scelta verginale, come sempre e oggi più di sempre, non può essere decisione estemporanea e improvvisa, né può esser affidata all’ondeggiare imprevedibile e sovente burrascoso di sentimenti e sensazioni nel cuore spesso confuso del giovane, tanto meno si può far conto oggi su favorevoli condizionamenti culturali o ambientali, né si può più pensare che basti una certa atmosfera credente per suscitarla o il solito esempio del solito “don” tutto dedito… Ma può esser solo preparata con pazienza e infinita cura, stando accanto come fratello maggiore che conosce mura e sotterranei del cuore umano, che sa soprattutto toccare i registri giusti. Ecco, io credo che l’aggancio tematico e sistematico al mistero della croce e dell’amore pasquale sia uno di questi registri. Che forse noi sfruttiamo poco, spaventati dall’idea di spaventare. Così come forse siamo ancora spaventati, nonostante l’apparenza e un certo vano esibizionismo, dalla sessualità e dalla sua esuberanza o dalla sua potenziale forza dirompente. E di conseguenza non sappiamo ancora cogliere quel nesso fecondo e misterioso che lega assieme croce e sessualità, e di cui la verginità è altrettanto feconda e misteriosa conseguenza. Verginità che appartiene alla dimensione pasquale del mistero cristiano, perché la verginità è espressione d’amore e l’amore o vive in modo pasquale o non è.

Se la nostra catechesi e la pastorale vocazionale, se il nostro dire su Dio e sull’uomo, se il nostro correre e affannarci non trasmettono l’idea che l’amore vive in modo pasquale, noi abbiamo corso invano, e nessuna scelta d’amore verginale potrà nascere da questo vano affaticarci.

Tor Vergata, da questo punto di vista, ci ha detto una cosa molto consolante. Il successo delle giornate romane ha avuto un segreto, riconosciuto dai più attenti. Non è stato un botto improvviso o l’effetto del fascino della personalità del Papa, ma il frutto del lavoro tenace di preparazione di tanti tenaci educatori, presbiteri e religiosi/e e laici. Il pellegrinaggio della croce del Giubileo in tutte le diocesi italiane è stato un grande esempio “della forza di preparazione comunitaria, di alto profilo, fatta di esperienze formative di grande impatto e di essenziale valore cristiano”10.

Se la croce continuerà a essere per noi “il cuore del mondo”, stella polare e pellegrina nella nostra vita, e noi sapremo mantenere o ritrovare il gusto dell’essere educatori, senza nascondere in un fazzoletto il dono della verginità, vi sarà ancora chi nella Chiesa subirà il fascino della scelta dell’amore verginale. E allora anche per questo potremo dire che, se da un lato la cristianità sembra crollare da un punto di vista sociale, “il cristianesimo sta appena iniziando” oggi all’inizio del III millennio, come disse quel grande profeta che è stato p. Alexander Men11

 

 

QUASI UN DECALOGO…

Al termine della nostra riflessione può forse essere utile e pratico riprendere in maniera sintetica le indicazioni pedagogiche via via emerse.

1) Occorre usare con intelligenza il termine verginità, ridargli il significato autentico che ribadisce il carattere nativamente verginale dell’essere umano e la verginità come vocazione universale, punto di partenza e d’arrivo d’ogni creatura, chiamata a un’intimità immediata col Creatore. Dio solo può soddisfare la sete d’amore da lui posta nel cuore umano.

2) La verginità così intesa deve tornare a essere termine familiare nella comunità cristiana ed esser proposta in tutti i cammini pastorali (dalla formazione giovanile alla preparazione al matrimonio) a tutte le categorie di credenti; ogni credente può e deve esser vergine secondo il suo stato di vita e la sua vocazione. Per esser libero d’amare l’altro e d’esserne amato, senza pretese irrealistiche e dipendenze infantili.

3) Solo l’educatore convinto della vocazione universale alla verginità potrà trovare e proporre correttamente i percorsi pedagogici per condividere e proporre tale dono. Più forte è la convinzione più efficace e ricca di fantasia sarà la proposta pedagogica. E priva di paure inutili e complessi vari: solo chi “benedice” la sessualità può apprezzare e far apprezzare la verginità.

4) In ogni caso la verginità non è un bene privato, ma carisma, e non può dunque esser nascosta sotterra o custodita in un fazzoletto. Solo se condivisa dà frutto e fa crescere, manifesta il suo naturale senso relazionale e la sua fecondità, diventa possibile viverla ed esserne beati, soprattutto diviene contagiosa e provocante.

5) La coerenza trasparente e lieta con cui il vergine vive la sua verginità è la prima norma pedagogica, sul versante dell’educatore, per realizzare la condivisione, o segnale chiaro d’un messaggio che riesce a giungere a destinazione nella babele culturale attuale.

6) È indispensabile coinvolgere contemporaneamente il giovane nei classici, ma non scontati, itinerari pastorali (liturgia, koinonìa, diakonìa, martirìa): la chiamata all’amore verginale può esser solo la risultante di un’esperienza globale e convergente, e non di cammini parziali e incompleti.

7) L’esperienza è tanto più (con)vincente quanto più è unitaria, ovvero quanto più il giovane impara a unire l’oggetto dell’amore con il modo d’amare, e scopre che amare Dio conduce ad amare alla maniera di Dio, e che amare alla maniera di Dio porta ad amare Dio. Qui il metodo si salda con il fine.

8) Esiste uno stile relazionale verginale: è lo stile di chi impara a “stare in disparte” e a non mettersi al centro del rapporto e dell’attenzione altrui, perché il centro appartiene a Dio; stile di chi apprende a non invadere e possedere l’altro, ma a sfiorarlo con delicatezza e rispetto, senza fare del corpo il motivo e il luogo dell’incontro; ancora, stile di chi impara a usare con creatività e fantasia il linguaggio simbolico dell’amore e le sue mille sfumature; stile di chi riesce a coniugare l’affetto con il rispetto, il voler bene con il voler il bene dell’altro…

9) A questo punto si può e si deve proporre la rinuncia, come condizione per accedere allo stile divino. L’educatore deve però ricordare che non può proporre alcuna rinuncia se non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia apre al cuore. In tal caso al giovane va proposto di rinunciare al “viso più bello” per provare attrazione per il “viso più brutto”, cioè per esser libero d’amare chi non è attraente né si sente amato. In effetti con la scelta verginale egli impara a rinunciare non solo o non tanto all’esercizio dell’istinto sessuale, quanto a un criterio d’attrazione solo umano per voler bene col cuore e la libertà di Dio.

10) Condizione imprescindibile per la scelta dell’amore verginale è la libertà affettiva, come libertà che nasce da due certezze: la certezza d’essere già stato amato, da sempre e per sempre, e la certezza conseguente di poter e saper amare, per sempre. Al di fuori di queste due certezze non c’è libertà né dunque scelta autentica della verginità.

11) Sessualità, mistero pasquale, verginità: c’è un legame misterioso e fecondo anche sul piano pedagogico tra queste realtà. La sessualità incontra necessariamente nel suo cammino la realtà della croce; la croce dà un ordine e consente una piena espressione della propria sessualità; la verginità è una manifestazione singolare della capacità di relazione e fecondità della sessualità, in qualche modo è una sessualità che è passata attraverso la croce e la resurrezione, è sessualità pasquale.

 

 

 

 

Note

[1] Cfr. A. CENCINI, Il fascino sempre nuovo della verginità. Dal silenzio “impuro” al coraggio giovane, Milano 1997. Per gli Atti di quel convegno cfr. CNV, Verginità per il Regno: vocazione all’amore, Roma 1996.

[2] Cfr. PONTIFICIA OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa, Roma 1997, 31-32. 

[3] Cfr. ibidem, 26 b) e c).

[4] Ibidem, 26 c).

[5] Si sa per certo che la maggior causa delle crisi matrimoniali è proprio l’attesa irrealistica nei confronti dell’altro, quasi una sua mitizzazione, ovvero la pretesa, spesso inconscia, che il partner debba rispondere in pieno al proprio bisogno d’esser amato. Da qui anche il nomadismo o randagismo sessuale, come se la moltiplicazione dell’esperienze, la loro quantità, potesse riempire e soddisfare il bisogno d’affetto.

[6] Mi rifaccio, per questa interpretazione, al mio volume Per amore. Libertà e maturità affettiva nel celibato consacrato, Bologna 1994.

[7] NVNE, 28.

[8] Cfr. A. CENCINI, I sentimenti del Figlio. Il cammino formativo nella vita consacrata, Bologna 1999, pp. 208-213.

[9] Cfr. CENCINI, I sentimenti, 213.

[10] D. SIGALINI, Dopo la GMG. Linee di impegno per la pastorale giovanile, in “Il Gabbiano”, 16 (2000), 2.

[11] A. MEN, citato da O. CLÉMENT, Cratere spento? No, è appena l’aurora, in “Avvenire”, 24 XII 2000, p. 16.