N.02
Marzo/Aprile 2001

La pastorale vocazionale per la vita consacrata oggi in Italia

Ho accolto con evidente ammirazione commossa il dono della Novo Millennio Ineunte. E vorrei iniziare questa mia riflessione con le parole pressoché conclusive del Papa per creare il contesto adatto e il clima giusto a questa nostro straordinario e preziosissimo incontro. E sono rimasto ancora più stupito ed edificato quando al n. 46 – che leggerò tra poco – ho trovato una sintesi mirabile della pastorale vocazionale del terzo millennio; tema questo che ci vede qui convenuti e assolutamente interessati. Ascoltiamo dunque il Papa. Sarà questo anche il nostro modo per dirgli quanto gli vogliamo bene e gli siamo grati.

Al n. 58: “Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo. Il Figlio di Dio, che si è incarnato duemila anni or sono per amore dell’uomo, compie anche oggi la sua opera: dobbiamo avere occhi penetranti per vederla, e soprattutto un cuore grande per diventarne noi stessi strumenti. Non è stato forse per riprendere contatto con questa fonte viva della nostra speranza, che abbiamo celebrato l’Anno giubilare? Ora il Cristo contemplato e amato ci invita ancora una volta a metterci in cammino: ‘Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’ (Mt 28,19). Il mandato missionario ci introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla speranza ‘che non delude’ (Rm 5,5). Il nostro passo, all’inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo. Le vie sulle quali ciascuno di noi, e ciascuna delle nostre Chiese, cammina, sono tante, ma non v’è distanza tra coloro che sono stretti insieme dall’unica comunione, la comunione che ogni giorno si alimenta alla mensa del Pane eucaristico e della Parola di vita. Ogni domenica il Cristo risorto ci ridà come un appuntamento nel Cenacolo, dove la sera del ‘primo giorno dopo il sabato’ (Gv 20,19) si presentò ai suoi per ‘alitare’ su di loro il dono vivificante dello Spirito e iniziarli alla grande avventura dell’evangelizzazione”.

Poco prima, al n. 46, nel contesto dei Testimoni dell’amore: “Questa prospettiva di comunione è strettamente legata alla capacità della comunità cristiana di fare spazio a tutti i doni dello Spirito. L’unità della Chiesa non è uniformità, ma integrazione organica delle legittime diversità. È la realtà di molte membra congiunte in un corpo solo, l’unico Corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12,12). È necessario perciò che la Chiesa del terzo millennio stimoli tutti i battezzati e cresimati a prendere coscienza della propria attiva responsabilità nella vita ecclesiale. Accanto al ministero ordinato, altri ministeri, istituiti o semplicemente riconosciuti, possono fiorire a vantaggio di tutta la comunità, sostenendola nei suoi molteplici bisogni: dalla catechesi all’animazione liturgica, dall’educazione dei giovani alle più varie espressioni della carità. Certamente un impegno generoso va posto – soprattutto con la preghiera insistente al padrone della messe (cfr. Mt 9,38) – per la promozione delle vocazioni al sacerdozio e di quelle di speciale consacrazione. È questo un problema di grande rilevanza per la vita della Chiesa in ogni parte del mondo. In certi Paesi di antica evangelizzazione, poi, esso si è fatto addirittura drammatico a motivo del mutato contesto sociale e dell’inaridimento religioso indotto dal consumismo e dal secolarismo. È necessario ed urgente impostare una vasta e capillare pastorale delle vocazioni, che raggiunga le parrocchie, i centri educativi, le famiglie, suscitando una più attenta riflessione sui valori essenziali della vita, che trovano la loro sintesi risolutiva nella risposta che ciascuno è invitato a dare alla chiamata di Dio, specialmente quando questa sollecita la donazione totale di sé e delle proprie energie alla causa del Regno”.

 

 

 

LE COSE DI SEMPRE…

 

La vita consacrata nel cuore di Dio

Sant’Agostino ha appena iniziato il suo trattato sulla Verginità che, quasi afferrato dall’entusiasmo, così affronta l’argomento che sta a lui tanto a cuore: “Ci aiuti Cristo, figlio della Vergine e sposo delle vergini, nato fisicamente da un grembo verginale, sposato misticamente con nozze verginali. Se tutta la Chiesa è una Vergine fidanzata ad un sol uomo, il Cristo (cfr. 2 Cor 11,2), quale non dovrà essere l’onore che meritano quelle persone che custodiscono anche nel corpo l’integrità che tutti i credenti conservano nella fede! (…) Di quale santità non dovrà dunque (la Chiesa) rifulgere, in quelle sue membra che conservano la verginità nel corpo e nell’anima?”[1].

Affermava un noto moralista nella prima metà del secolo che “in ultima analisi, per il valore dell’uomo e la sua perfezione non sono elementi decisivi né la verginità né il matrimonio, bensì la profondità, la forza e la sincerità dell’amore verso Dio praticato nell’uno e nell’altro stato e base dell’intensità della propria figliolanza divina. D’altra parte però non si può e non si deve tacere che quella illimitata dedizione a Dio che costituisce l’essenza della verginità cristiana è da considerarsi come la via migliore e più sicura che conduce a Lui (…). La verginità, che è per sé altissimo valore, non lo è in tutti i casi: chi sa di essere chiamato da Dio allo stato matrimoniale falserebbe tutto il senso della sua vita se scegliesse lo stato verginale; allo stesso che non sarebbe di fronte a Dio come deve essere chi si decidesse per il matrimonio avversando la vocazione alla verginità. L’elemento decisivo è dunque l’obbedienza alla divina chiamata e la disposizione ad abbracciare quei sacrifici che sono propri dello stato matrimoniale e di quello verginale”[2].

Mi sembra molto bello iniziare questa nostra riflessione con questo stile contemplativo di chi cerca di capire se stesso, il senso della sua vita e del suo lavoro, anche pastorale, a partire dal cuore e dalle attese di Dio. In una parola dal punto di vista di Dio. Poi vedremo più facilmente come la pastorale, collocata in questa prima parte, con decisione e sicurezza nella fedeltà a Dio – che è per suo statuto epistemologico la prima e fondamentale componente della sua stessa essenza – potrà cercare di comprendere, in un secondo momento, come ha saputo e come dovrà imparare ad essere fedele all’uomo, in questo tempo così diverso da quello che ha di fatto preceduto il Concilio Vaticano II evento scelto, in questa relazione introduttiva, come spartiacque per poter parlare dell’oggi della Chiesa e della sua azione pastorale a favore delle vocazioni di speciale consacrazione.

Dunque le cose di sempre.

 

La vocazione all’amore

Poiché l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio che è amore (1Gv 4,8), – afferma il Direttorio di Pastorale Familiare – nell’umanità dell’uomo e della donna è iscritta “la capacità e la responsabilità dell’amore e della comunione. L’amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano” (cfr. Familiaris consortio, n. 11; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1604). Ne deriva che l’essere umano ci appare come l’unica realtà creata che si realizza in pienezza nel dono sincero di sé (cfr. Gaudium et spes, n. 24) e che la sua vita ha senso solo nell’amore: “L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente” (Redemptor hominis, n. 10; cfr. Mulieris dignitatem, n. 7).

Questa nativa e fondamentale vocazione all’amore, propria di ogni uomo e di ogni donna, può realizzarsi pienamente nel matrimonio e nella verginità: “sia l’uno che l’altra, nella forma loro propria, sono una concretizzazione della verità più profonda dell’uomo, del suo ‘essere a immagine di Dio’ (Familiaris consortio, n. 11); essi sono “i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’alleanza di Dio con il popolo” (ivi n. 16). Il matrimonio e la verginità non sono in contrapposizione tra loro; sono piuttosto due doni diversi e complementari che convergono nell’esprimere l’identico mistero sponsale dell’unione feconda e salvifica di Cristo con la Chiesa.

Per parte sua la verginità, in quanto dice l’assoluto di Gesù Cristo e del suo Regno al quale ci si dona e ci si dedica in modo totale e con cuore indiviso, “tiene viva nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e da ogni impoverimento” (ivi). L’esistenza stessa di persone vergini per il Regno dice e ricorda continuamente a chi è sposato nel Signore che il suo matrimonio continua a rimanere grande e si qualifica come evento di salvezza perché e se rimane relativo al Regno e alla sequela di Cristo. D’altra parte, anche chi vive nella verginità per il Regno riceve dal confronto con la vocazione matrimoniale e dalla testimonianza che da essa deriva un aiuto e uno stimolo a fare della propria vita verginale un autentico luogo di donazione, di amore e di fedeltà. Si deve, perciò, concludere che “la stima della verginità per il Regno e il senso cristiano del Matrimonio sono inseparabili e si favoriscono reciprocamente” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1620)[3].

 

La rivelazione umana del cuore di Dio

L’episodio della Trasfigurazione – ci ricorda Giovanni Paolo II nella ben nota Esortazione Apostolica sulla Vita Consacrata – segna un momento decisivo nel ministero di Gesù. È evento di rivelazione che consolida la fede nel cuore dei discepoli, li prepara al dramma della Croce ed anticipa la gloria della risurrezione. Questo mistero è continuamente rivissuto dalla Chiesa, popolo in cammino verso l’incontro escatologico col suo Signore. Come i tre apostoli prescelti, la Chiesa contempla il volto trasfigurato di Cristo, per confermarsi nella fede e non rischiare lo smarrimento davanti al suo volto sfigurato sulla Croce. Nell’uno e nell’altro caso, essa è la Sposa davanti allo Sposo, partecipe del suo mistero, avvolta dalla sua luce.

Da questa luce sono raggiunti tutti i suoi figli, tutti ugualmente chiamati a seguire Cristo riponendo in Lui il senso ultimo della propria vita, fino a poter dire con l’Apostolo: “Per me il vivere è Cristo!” (Fil 1, 21). Ma un’esperienza singolare della luce che promana dal Verbo incarnato fanno certamente i chiamati alla vita consacrata. La professione dei consigli evangelici, infatti, li pone quale segno e profezia per la comunità dei fratelli e per il mondo. Non possono perciò non trovare in essi particolare risonanza le parole estatiche di Pietro: “Signore, è bello per noi stare qui!” (Mt 17, 4). Queste parole dicono la tensione cristocentrica di tutta la vita cristiana. Esse, tuttavia, esprimono con particolare eloquenza il carattere totalizzante che costituisce il dinamismo profondo della vocazione alla vita consacrata: “Come è bello restare con Te, dedicarci a Te, concentrare in modo esclusivo la nostra esistenza su di Te!”. In effetti, chi ha ricevuto la grazia di questa speciale comunione di amore con Cristo, si sente come rapito dal suo fulgore: Egli è il “più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 45 [44], 3), l’Incomparabile[4].

 

Mano tesa all’uomo per il suo ritorno a casa

“Là dov’è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,21): il tesoro unico del Regno suscita il desiderio, l’attesa, l’impegno e la testimonianza. Nella Chiesa primitiva – continua a ricordarci il Santo Padre – l’attesa della venuta del Signore era vissuta in modo particolarmente intenso. Questo atteggiamento di speranza la Chiesa non ha tuttavia cessato di coltivare col passare dei secoli; essa ha continuato ad invitare i fedeli a guardare verso la salvezza pronta ormai per essere rivelata, “perché passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7,31; cfr. 1 Pt 1,3-6). È in questo orizzonte che meglio si comprende il ruolo di segno escatologico proprio della vita consacrata. In effetti è costante la dottrina che la presenta come anticipazione del Regno futuro. Il Concilio Vaticano II ripropone questo insegnamento quando afferma che la consacrazione “meglio preannunzia la futura risurrezione e la gloria del regno celeste”. Questo fa innanzitutto la scelta verginale sempre intesa nella tradizione come un’anticipazione del mondo definitivo, che già fin da ora opera e trasforma l’uomo nella sua interezza[5].

 

La via cristiforme

Il fondamento evangelico della vita consacrata va cercato – è ancora il Papa che parla – nel rapporto speciale che Gesù, nella sua esistenza terrena, stabilì con alcuni dei suoi discepoli, invitandoli non solo ad accogliere il Regno di Dio nella propria vita, ma a porre la propria esistenza a servizio di questa causa, lasciando tutto e imitando da vicino la sua forma di vita. Una tale esistenza “cristiforme”, proposta a tanti battezzati lungo la storia, è possibile solo sulla base di una speciale vocazione e in forza di un peculiare dono dello Spirito. In essa, infatti, la consacrazione battesimale è portata ad una risposta radicale nella sequela di Cristo mediante l’assunzione dei consigli evangelici, primo ed essenziale tra essi il vincolo sacro della castità per il Regno dei Cieli. Questa speciale “sequela di Cristo”, alla cui origine sta sempre l’iniziativa del Padre, ha, dunque, una connotazione essenzialmente cristologica e pneumatologica, esprimendo così in modo particolarmente vivo il carattere trinitario della vita cristiana, della quale anticipa in qualche modo la realizzazione escatologica a cui tutta la Chiesa tende[6].

 

La vita consacrata valore per l’uomo

Una vita vissuta secondo il cuore di Dio è l’unica a potersi definire pienamente umana: è dunque valore per l’uomo rispondere sempre alle attese di Dio, tanto nella vita coniugale quanto nella vita verginale. Ci ricorda ancora sant’Agostino: “Voi avete raggiunto una tale perfezione che tutto nella vostra condotta corrisponde alla verginità che professate e custodite. Non avete nulla a che fare con gli omicidi, con i sacrifici idolatri e simili abominazioni diaboliche, con i furti, le rapine, le frodi, gli spergiuri, l’ubriachezza, la lussuria nelle sue varie forme, l’avarizia, la finzione, la gelosia, l’empietà, la durezza di cuore. Non solo, ma fra voi non è dato di vedere, né succedono di fatto, quelle colpe che sono effettivamente o, quanto meno, vengono reputate di poco rilievo: non viso procace, non occhi curiosi, non lingua ciarliera, non ridere sguaiato, non scherzi villani, non mode indecenti, non portamento esageratamente sostenuto o languido (…) Siete così e così dovete essere. E tutte queste virtù, unite alla verginità, offrono agli uomini un’immagine della vita angelica, riproducono sulla terra costumanze celesti”[7].

 

La vita consacrata tra chiamata e risposta

Questa vocazione alla vita di speciale consacrazione appare pertanto come personale, speciale, particolare, soprannaturale e finalizzata ad un compito ben preciso. Ma non abbiamo mai dimenticato che in realtà essa è una vocazione a vivere in maniera speciale quanto c’è di più ordinario e a noi familiare: la vocazione all’amore, al dono sincero di sé. Appare così evidente che tale chiamata particolare si colloca necessariamente all’interno di una chiamata comune e che solo una vita che si è fatta risposta, all’interno di un modo comune di vivere l’esperienza battesimale, crismale ed eucaristica – con i suoi elementi di spiritualità, ecclesialità e missionarietà che ne conseguono – è il contesto naturale, preferenziale, comunque necessario, per il manifestarsi di una chiamata alla vita consacrata.

Così abbiamo la certezza che la chiamata può giungere a destinazione e la risposta può essere autenticata solo a certe condizioni: quelle stesse che abbiamo visto nell’esperienza di Elia, di Samuele, di Maria santissima. “La nativa e fondamentale vocazione dell’uomo all’amore – ci ricorda ancora il Direttorio di Pastorale Familiare – coinvolge la persona nella sua interezza, secondo la sua realtà di spirito incarnato: ogni uomo e ogni donna è, quindi, chiamato a vivere l’amore come totalità unificata di spirito e di corpo, di cui la sessualità è parte integrante. Essa, che è una ricchezza di tutta la persona” (cfr. Familiaris consortio, n. 37), “oltre a determinare l’identità personale di ciascuno, rivela come ogni donna e ogni uomo, nella loro diversità e complementarietà, siano fatti per la comunione e la donazione. La sessualità, infatti, dice come la persona umana sia intrinsecamente caratterizzata dall’apertura all’altro e solo nel rapporto e nella comunione con l’altro trovi la verità di se stessa. Così, la sessualità – che pure è minacciata dall’egoismo e può essere falsificata e ridotta attraverso il ripiegamento di ciascuno su di sé – richiede, per sua stessa natura, di essere orientata, elevata, integrata e vissuta nel dinamismo di donazione disinteressata, tipico dell’amore” (Evangelizzazione e cultura della vita umana, n. 27).

 

Necessità educativa

“In questa prospettiva – ci suggerisce ancora il Direttorio – la risposta alla vocazione all’amore iscritta nel cuore di ogni uomo esige un costante impegno educativo. Tale impegno è finalizzato a promuovere la maturità globale della persona la quale, accettando il valore della sessualità e integrandolo nell’insieme di tutti i valori del suo essere, è condotta a sviluppare sempre più la sua potenzialità oblativa così da aprirsi all’amore per l’altro fino al dono totale di sé” (cfr. Orientamenti educativi sull’amore umano, nn. 34-36). Nell’ambito di una paziente ed autentica formazione al senso della vita e dell’amore, una lucida coscienza della dimensione storica della vicenda umana, accompagnata dalla serena consapevolezza della bellezza e insieme della fragilità e ambivalenza della sessualità propria e altrui e unita alla chiara percezione dei diversi diffusi tentativi di impoverire e svilire la sessualità umana, mette in luce senza ombra di dubbio il bisogno di ricuperare e di riproporre il valore della castità.

La virtù della castità, che ultimamente affonda le sua radici in motivazioni di ordine propriamente teologico e cristologico (cfr. Persona humana, n. 11, con il riferimento a diversi testi paolini come: Gal 5,19-23; 1Cor 6,9-11;1Ts 4,3-8; Col 3,5-7; 1Tm 1,10; Ef 5,3-8; 4,18-19; 1Cor 6,15.18-20), non comporta affatto né rifiuto né disistima della sessualità umana; significa piuttosto “energia spirituale, che sa difendere l’amore dai pericoli dell’egoismo e dell’aggressività e sa promuoverlo verso la sua piena realizzazione” (Familiaris consortio, n. 33). Come tale essa può e deve essere vista come la “virtù che promuove in pienezza la sessualità della persona e la difende da ogni impoverimento e falsificazione” (Evangelizzazione e cultura della vita umana, n. 29; cfr. anche n. 45; cfr. Matrimonio e famiglia oggi in Italia, n. 18)[8].

 

La Chiesa, grembo materno

“Alla luce di quanto abbiamo detto – mi piace farmi aiutare ancora dal Direttorio – si deve affermare che per un’autentica pastorale familiare è necessario, innanzitutto, mettere in atto una complessiva, articolata e capillare azione educativa per far crescere ogni persona come tale e, cioè, nella libertà che si apre all’amore e alla donazione di sé. Si tratta, pertanto, di aiutare ciascuno a maturare in quella libertà radicale, che consiste nel decidere di se stesso secondo il progetto che Dio iscrive nell’essere dell’uomo: un progetto che ha come centro e contenuto fondamentale l’amore, sull’esempio e nella misura di Gesù Cristo, alla cui immagine siamo predestinati ad essere conformi (cfr. Rm 8,28-30). In questa prospettiva ogni azione educativa possiede una sua intrinseca dimensione vocazionale: è aiuto offerto ad ognuno perché possa riconoscere e seguire la sua vocazione fondamentale all’amore nel matrimonio o nella verginità, compimento della consacrazione battesimale, e vivere così la sua missione nella Chiesa e nel mondo”.

Sono queste le prospettive secondo le quali deve realizzarsi la preparazione remota o generale al matrimonio e alla famiglia (cfr. Familiaris consortio, n. 66; Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, n. 62): essa “è frutto di un’educazione cristiana che si rivolge in modo costante a tutti i credenti, dalla infanzia alla adolescenza, all’età adulta”, nella convinzione che l’educazione all’autentico amore “deve diventare il contenuto permanente e il significato ultimo dell’opera educativa” (Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, n. 62)[9].

Con espressioni ancora più poetiche sant’Agostino sottolinea come: “Le sacre vergini non le genera se non quella vergine sacra che fu sposata a un sol uomo, Cristo, al quale ha da essere presentata pura. Da questa Chiesa, che nello spirito è tutt’intera vergine e nel corpo lo è solo limitatamente a certi individui, nascono le vergini sacre, che sono vergini nel corpo e nello spirito”[10].

Non posso non citare in questo contesto il bellissimo passaggio di Nuove Vocazioni per una Nuova Europa dove questo tema è presentato con grande precisione teologica e straordinario afflato spirituale ed umano. Ascoltiamolo: “La Chiesa è madre di vocazioni perché le fa nascere al suo interno, con la potenza dello Spirito, le protegge, le nutre e le sostiene. È madre, in particolare, perché esercita una preziosa funzione mediatrice e pedagogica. (…). Questa funzione mediatrice la Chiesa esercita quando aiuta e stimola ogni credente a prendere coscienza del dono ricevuto e della responsabilità che il dono porta con sé. La esercita, ancora, quando si fa interprete autorevole dell’appello esplicito vocazionale e chiama essa stessa, presentando le necessità legate alla missione e alle esigenze del popolo di Dio e invitando a rispondere generosamente. La esercita, ancora, quando chiede al Padre il dono dello Spirito che suscita l’assenso nel cuore dei chiamati, quando li accoglie e riconosce in loro la chiamata stessa, dando esplicitamente e affidando con fiducia e trepidazione assieme, una missione concreta e sempre difficile tra gli uomini. Potremmo infine aggiungere che la Chiesa manifesta la sua maternità quando, oltre a chiamare e riconoscere l’idoneità dei chiamati, provvede perché costoro abbiano una formazione adeguata, iniziale e permanente, e perché siano di fatto accompagnati lungo la via di una risposta sempre più fedele e radicale. La maternità ecclesiale non può certo esaurirsi nel tempo dell’appello iniziale. Né può dirsi madre quella comunità di credenti che semplicemente ‘attende’ demandando totalmente all’azione divina la responsabilità della chiamata, quasi timorosa di rivolgere appelli; o che dà per scontato che i ragazzi e i giovani, in particolare, sappiano recepire immediatamente l’appello vocazionale; o che non offre cammini mirati per la proposta e l’accoglienza della proposta. La crisi vocazionale dei chiamati è anche crisi, oggi, dei chiamanti, a volte latitanti e poco coraggiosi. Se non c’è nessuno che chiama, come potrebbe esserci chi risponde?”[11].

 

La pastorale vocazionale per la vita consacrata

Il servizio a Dio che chiama, alla persona del chiamato e alla Chiesa che accoglie, custodisce e valorizza tali vocazioni prende il nome di pastorale vocazionale. Diversa da animazione vocazionale perché finisce per coinvolgere tutta la Chiesa e da settoriale diviene prospettiva globale. Coinvolge necessariamente come soggetti primari il chiamato e l’educatore ma – a questo nuovo titolo – ogni educatore alla fede ed ogni operatore pastorale non può non sentirsi soggetto messo in gioco da questo che è diventato il mondo della vocazione.

Percorre necessariamente ogni via della pastorale ordinaria e realizza all’interno della vita della comunità cristiana vie specifiche che tutti sono chiamati a far proprie. Si pone come preoccupazione fondamentale la correttezza metodologica e pedagogica rispettando le età, le tappe, le modalità gioiose della rimozione degli ostacoli, l’accento sulle motivazioni, un prolungato e serio lavoro di discernimento.

 

 

 

…CHE SEMBRANO NUOVE: PERCHÉ?

 

Volendomi limitare al secolo scorso e facendo del periodo pre e post-conciliare lo spartiacque, tutti siamo testimoni di come le cose di sempre, sulle quali ci siamo soffermati adesso, siano state immerse in un contesto che non c’è più e che ci interroga profondamente.

Mi spiego: un edificio si costruisce attraverso un’impalcatura e quando scricchiola di nuovo viene puntellato da alcune impalcature finché non si può ricorrere a ripari più radicali e duraturi. Un edificio tuttavia si definisce solido quando, tolte le impalcature resta ben fermo e non ha più bisogno di sostegni. Una serie di impalcature ha permesso alla vocazione consacrata di crescere fiorente e spesso grandiosa. Tolte le impalcature che cosa permette a tale edificio di restare forte, solido, accogliente: la sua solidità strutturale, la sua forte presa e la sua forte tempra.

 

Elementi socio-culturali

Abbiamo vissuto un passato nel quale il valore straordinario della vocazione all’amore è stato sostenuto da elementi socio-culturali favorevoli: sia per quanto riguarda il matrimonio che la vita consacrata. Un pensare comune ancorato a valori largamente maggioritari e chiaramente sottostanti, dal punto di vista umano, anche agli elementi ritenuti caratteristici della vocazione consacrata: gratuità, definitività, oblatività, rinuncia, spirito di sacrificio, docilità.

 

Elementi etico-legali

Costumi, tradizioni, leggi fortemente ispirati al regime di cristianità delle nostre terre occidentali ed allo stesso tempo adatti a tutelare, sorreggere, incoraggiare una serie di fattori morali e giuridici ad un tempo che davano alla prospettiva della vita consacrata un diritto di cittadinanza di straordinaria accoglienza, apprezzamento, valorizzazione. Servivano al contempo a scoraggiare vie dell’amore che non fossero riconducibili alla difesa della verginità, alla tutela del matrimonio unico indissolubile e fedele, alla salvaguardia della intangibilità del valore della vita: la sacralità di alcuni fattori etico-giuridici era fuori discussione: Dio, patria e famiglia era in qualche modo il motto che accompagnava il formarsi delle leggi e della morale comune dei nostri popoli.

 

La chiamata amplificata

La Voce che chiamava al ministero ordinato o alla vita consacrata arrivava forte e chiara veicolata dall’amplificatore straordinario di una religiosità culturalmente così pervasiva e capillare – quella che chiamiamo oggi religiosità popolare ma che in realtà era l’unica conosciuta – da identificarsi alla fine con la nostra vita di ogni giorno e con ogni giorno della nostra vita. Non c’erano stagioni, feste, tappe della vita che non avessero un risvolto ed un connotato religioso: immersi in questa religiosità – che un po’ di nostalgia forse ce la procura ancora – vedevamo con grande naturalezza la prospettiva di diventare artefici e protagonisti con un ruolo, un abito, uno spazio preciso ed onorato. Dio non aveva bisogno di alzare la voce per farsi sentire: tutto era in qualche modo amplificante… era davvero sufficiente un sussurro di un vecchio parroco di paese.

 

La risposta incoraggiata

La risposta veniva largamente incoraggiata da una singolare abbondanza di risposte e dal consenso comune a questa prospettiva di vita che si aveva sia nella Chiesa che nella società. Schiere di ragazzini partivano dai nostri paesi e si chiudevano nei nostri seminari minori – diocesani o religiosi che fossero – dove la necessità di entrare dentro un vestito preconfezionato non veniva assolutamente vista come una forzatura o una violenza: era così per tutti, era così dappertutto. Qualche sacrificio: ma si poteva studiare, venire ben educati, si stava insieme, si giocava, si era al sicuro. Le famiglie più povere non chiedevano di meglio.

 

Un’autoeducazione solida

Una straordinaria forza endogena ed autoeducante, ben radicata in altrettanto spartani costumi familiari, non aveva paura di affrontare le rinunce e i sacrifici del cammino formativo perché veniva motivata e sostenuta costantemente dalla altrettanto straordinaria nitidezza dell’obiettivo che era stato decisamente assunto come definitivo e indiscutibile. D’altra parte l’itinerario formativo altro non era che l’enfatizzazione di ciò che per gli altri era per lo più normale. Si lavorava praticamente in termini di quantità perché non era particolarmente necessario lavorare in qualità e in profondità: la preghiera, il sacrificio, l’obbedienza, la povertà, la castità erano valori comuni: nel cammino iniziale finalizzato al discernimento vocazionale si aumentava decisamente la dose e chi reggeva dimostrava di meritare di andare avanti e col tempo si imparava a ritenerlo affidabile, altrimenti si tornava a casa ringraziando il buon Dio per la straordinaria opportunità di crescita che ci aveva comunque offerto ed il ricordo del seminario restava straordinariamente bello e forte. Addirittura nascevano e crescevano le associazioni di ex alunni per continuare a fare memoria…

 

Dio, Chiesa, patria e famiglia

La Chiesa contribuiva alla sua capacità germinativa e materna costruendoti una comunità umana che con i suoi stessi valori finiva per sostenere la scelta vocazionale ed in qualche modo finiva per generarti alla naturale capacità di risposta a Dio che ti chiamava nella sua Chiesa a questo ministero o carisma particolare. Leone XIII, scrivendo ai Vescovi italiani, a proposito del progetto di legge dello Stato italiano per cui si sarebbe dovuto far precedere il rito civile alla celebrazione del matrimonio in chiesa, si mostra come stupito oltre che scandalizzato di quello che sta accadendo. Tra le altre cose appare significativo il passaggio che segue: “Queste e simili giustissime considerazioni sfuggono ad uno Stato che, pretendendo di assorbire in sé tutti i diritti della famiglia e degli individui, non dubita di manometterli tutti, sotto pretesto di provvedere a se stesso: e vi provvederebbe, in verità, sconsigliatamente. Ad uno Stato poi che vuol prescindere da ogni legge divina e cristiana, importa nulla che si moltiplichino i peccati o cercando illecite unioni, o perseverando in esse; sebbene ragione, fede, storia, dimostrino ad evidenza che la corruttela dei costumi snerva, guasta, consuma la società (…). La Chiesa, checché sia per disporre un’autorità terrena, non verrà meno giammai alla sua divina missione, e mai non potrà rassegnarsi a lasciar perire le anime redente dal sangue di Gesù Cristo (…) né per vero dire lo Stato ha punto da temere, lasciandola agire con libertà che è propria del suo salutare ministero (…). Ecco pertanto in breve il giudizio che deve portarsi sul nuovo disegno di legge, di cui ci occupiamo. Esso usurpa i diritti della Chiesa, ne inceppa la salutare azione e ne stringe sempre di più le catene con grave danno delle anime. Lede la giusta libertà dei cittadini e dei fedeli, promuove e sanziona unioni illegittime; apre la via a nuovi scandali e disordini morali. Turba la pace delle coscienze e rende più acuto il dissidio al tutto, contrario all’ordine stabilito dal creatore, meritatamente biasimato e deplorato da tutti gli uomini onesti e del quale, per certo, non fu mai vera causa la Chiesa”[12].

 

Il reclutamento vocazionale

In questo contesto l’impegno per le vocazioni non ha bisogno d’altro che di essere semplice e concreta proposta “vuoi andare in seminario?”… “che ne diresti di…”. Sufficiente che sia una bravo figliolo che serve messa con zelo o che sia una mite e pia giovanetta di famiglia buona e magari numerosa, meglio se contadina per la garanzia di pietà e laboriosità che danno le famiglie di campagna, e i gioco è fatto. E lo diciamo con tenerezza ed un po’ di malcelata nostalgia. Lasciamo che si Pio XII a ricordarci il nostro passato recente: “Alcuni sostengono che tutti i cristiani e soprattutto i sacerdoti non devono essere segregati dal mondo come nei tempi passati, ma devono essere presenti al mondo e perciò è necessario metterli allo sbaraglio ed esporre al rischio la loro castità, affinché dimostrino se hanno o no la forza di resistere (…). Per questo permettono loro facilmente di guardare tutto ciò che capita senza alcuna regola di modestia (…). Ma è facile comprendere quanto sia errato e pericoloso questo sistema di educare il giovane clero per guidarlo alla santità dello stato (…). Quale giardiniere mai esporrebbe alle intemperie delle giovani piante esotiche col pretesto di sperimentarle? Ora, i seminaristi e i giovani religiosi sono pianticelle tenere e delicate da tenersi ben protette e da allenare progressivamente alla lotta”. E a proposito della diminuzione delle vocazioni nella stessa enciclica Sacra Virginitas il grande pontefice ci ricorda con un gemito di tristezza e con grande preveggenza l’importanza del ruolo degli educatori e della famiglia. In particolare rivolgendosi ai genitori Pio XII li esorta “ad offrire volentieri al servizio di Dio quei loro figli che si sentissero chiamati” ed ancora: “Ripensino quindi i genitori al grande onore di avere un figlio sacerdote o una figlia che ha consacrato allo Sposo Divino la sua verginità”[13]. Pagine struggenti e nient’affatto superate ma che noi sappiamo essere assolutamente insufficienti senza una riflessione più profonda e più presente alle sfide di questo nostro tempo.

 

 

 

UN PASSAGGIO ED UNA SFIDA EPOCALE

 

Preparato a lungo da grandi correnti di pensiero e da inquietudini culturali, etiche e sociali tutto il novecento è per molti aspetti segnato da un processo di secolarizzazione di cui bisogna prendere atto per incominciare seriamente a capirne le conseguenze. Industrializzazione, urbanizzazione, abbandono della campagna, due immani conflitti… Ci hanno consegnato una società nuova. Recentemente la multimedialità, la mondializzazione, internet… stanno accelerando gli elementi di trasformazione e questo nostro tempo interroga profondamente la Chiesa tutta fino a far parlare di “nuova evangelizzazione”. Per quanto concerne la tematica che ci interessa e la prospettiva dalla quale ci poniamo mi sembra utile qualche accenno sulle conseguenze che tale processo ha prodotto nel campo specifico della fioritura e maturazione delle vocazioni consacrate. Un capitolo che ovviamente può e deve essere approfondito. Qui ci limitiamo a scegliere quel metodo che ha inaugurato la Gaudium et Spes: prima di pensare al “da farsi” ci si chiede perché e a partire da che cosa per arrivare dove.

Lasciando perdere per il momento la questione “secolarizzazione” – “secolarismo” che non è questione da poco ma che al momento non ci interessa e percorriamo brevemente le conseguenze di tale fenomeno sia

nell’area del sacro che nell’area del profano che interessano il nostro tema[14].

 

Nell’area del sacro

Ci troviamo di fronte:

– alla caduta della pratica religiosa;

– ad una diminuzione dell’appartenenza religiosa conseguente dalla caduta dei supporti o condizionamenti che permettevano una appartenenza religiosa in base ad una appartenenza sociologica;

– ad una revisione profonda dell’adesione alle verità religiose con l’esplicazione di crescenti manifestazioni di irreligiosità, dubbio religioso, ateismo, come anche livellamento e confusione rispetto alle verità largamente messe in discussione da sociologi, psicologi, teologi stessi;

– una crescente difficoltà a comprendere il linguaggio religioso – soprattutto sul piano della liturgia e della riflessione teologica – da parte di aliquote sempre più vaste di credenti;

– alla caduta di molte condotte religiose e delle cosiddette devozioni popolari;

– ad un singolare e crescente fenomeno di autocritica all’interno dei gruppi religiosi e nella stessa coscienza dei credenti che ingloba quasi tutti gli aspetti della vita religiosa così com’era tradizionalmente intesa: critica rivolta con pari intensità tanto verso le strutture che verso la cultura religiosa vera e propria.

 

Nella sfera del profano

Il profano tende ad acquistare piena autonomia del tutto sconosciuta nella precedente situazione di larga influenza del sacro:

– le condotte di individui e gruppi si affrancano da condizionamenti di natura religiosa: scelte e opzioni fondamentali (professione, matrimonio ed anche vocazione) risentono sempre meno di motivazioni religiose o provenienti dalla istituzione religiosa;

– si diffonde un netto distacco dei giudizi morali dalle credenze religiose e le condotte individuali e sociali che rivestono un carattere di impegno e di responsabilità vengono progressivamente sganciate dai giudizi di valore emessi dall’autorità religiosa o comunque riferite ad una metafisica religiosa: nasce un’etica ispirata ad un umanesimo laico;

– le scienze che riguardano l’uomo si sganciano dal sapere religioso rifiutando il dato rivelato come punto di partenza di deduzioni logicamente concatenate: le moderne scienze si configurano come un sistema di sapere laico e autonomo;

– un segno singolare e vistoso della crescente perdita di influenza del sacro si ha nella progressiva scomparsa dei segni simbolici della presenza del sacro (crocifissi, luoghi, gesti, parole, feste…). Tale diminuzione o scomparsa dell’influenza del sacro sul profano è ravvisabile sia a livello strutturale che culturale.

Lasciando alla buona volontà di ciascuno di noi ogni altro approfondimento in proposito, mi si consenta di offrire – quasi come sintesi analitica delle conseguenze che, a lungo andare ciò finisce per portare nella vita delle nuove generazioni – le lucidissime osservazioni del congresso europeo in proposito: “Questo gioco di contrasti si riflette inevitabilmente sul piano della progettazione del futuro, che è visto – da parte dei giovani – in un’ottica conseguente, limitata alle proprie vedute, in funzione di interessi strettamente personali (l’autorealizzazione). È una logica che riduce il futuro alla scelta di una professione, alla sistemazione economica, o all’appagamento sentimentale-emotivo, entro orizzonti che di fatto riducono la voglia di libertà e le possibilità del soggetto a progetti limitati, con l’illusione d’esser liberi. Sono scelte senza alcuna apertura al mistero e al trascendente, e fors’anche con scarsa responsabilità nei confronti della vita, propria e altrui, della vita ricevuta in dono e da generare negli altri. È, in altre parole, una sensibilità e mentalità che rischia di delineare una sorta di cultura antivocazionale. Come dire che nell’Europa culturalmente complessa e priva di precisi punti di riferimento, simile ad un grande pantheon, il modello antropologico prevalente sembra essere quello dell’‘uomo senza vocazione’ (…). Fa un’immensa tristezza incontrare giovani, pur intelligenti e dotati, in cui sembra spenta la voglia di vivere, di credere in qualcosa, di tendere verso obiettivi grandi, di sperare in un mondo che può diventare migliore anche grazie ai loro sforzi. Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco e nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti di essa smarriti lungo sentieri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale. Senza vocazione ma anche senza un futuro, o con un futuro che, tutt’al più, sarà una fotocopia del presente”[15].

 

Come viene accolto e vissuto questo passaggio d’epoca dal Magistero della Chiesa?

Farei punto a 37 anni fa quando nel 1964, ancora in pieno Concilio Vaticano II, dal cuore di Paolo VI nasce la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Nel primo radiomessaggio che il Papa preparò per l’occasione si vede già la scelta di campo che viene fatta: ricondurre alla vita delle nostre comunità cristiane – alla loro preghiera e alla loro attenzione – la responsabilità di divenire il terreno fecondo da cui è possibile attendersi una nuova fioritura vocazionale.

Certamente il grande Pontefice ha lo sguardo sull’umanità intera e sulla straordinaria primavera che il Concilio avrebbe dovuto portare nella vita della Chiesa. Senza ministri ordinati e fiorenti comunità consacrate come sarà possibile realizzare questo sogno? Ma il Papa ha davanti a sé la drammatica realtà di vocazioni che crollano (tanti sacerdoti durante il pontificato di Paolo VI lasceranno il ministero) e comprende che non siamo solo di fronte ad un problema di quantità ma di un indispensabile nuovo radicamento delle vocazioni che fioriranno all’interno della santità della comunità ecclesiale.

Da questa scelta non si è più tornati indietro. Giovanni Paolo II ha raccolto con grande fermezza questa eredità. Così la Pastores dabo vobis: “Ogni vocazione cristiana viene da Dio ed è dono di Dio. Essa però non viene mai elargita fuori o indipendentemente dalla Chiesa, ma passa sempre nella Chiesa e mediante al Chiesa”[16]. Così in Vita Consecrata: “Il problema delle vocazioni è una vera sfida, che interpella direttamente gli Istituti, ma coinvolge tutta la Chiesa (…). Occorre che il compito di promuovere le vocazioni sia svolto in modo da apparire sempre più un impegno corale di tutta la Chiesa. Esso esige pertanto l’attiva collaborazione di pastori, religiosi, famiglie, educatori quale si conviene ad un servizio che è parte integrante della pastorale d’insieme di ogni Chiesa particolare”[17].

Ma è nel bellissimo messaggio che il Papa rivolge al Congresso europeo che io trovo una sintesi mirabile del nostro lavoro vocazionale alle soglie del terzo millennio. Ascoltiamo ancora il Papa: “La vita ha una struttura essenzialmente vocazionale. Il progetto che la riguarda, infatti, affonda le radici nel cuore del mistero di Dio: “’n Lui – in Cristo – Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità’ (Ef 1,4). Tutta l’esistenza umana, pertanto è risposta a Dio, che fa sentire il suo amore soprattutto in alcuni appuntamenti: la chiamata alla vita; l’ingresso nella comunione di grazia della sua Chiesa; l’invito a rendere nella Comunità ecclesiale la propria testimonianza a Cristo secondo un progetto del tutto personale e irrepetibile; la convocazione alla comunione definitiva con lui nell’ora della morte. Non v’è dubbio pertanto che l’impegno della Comunità ecclesiale nella pastorale vocazionale sia uno dei più gravi e urgenti. Ogni battezzato, infatti, deve essere aiutato a scoprire la chiamata che, nel progetto di Dio, gli è rivolta e a rendervisi disponibile. Sarà così più facile, a chi è destinatario di una vocazione particolare a servizio del Regno, riconoscerne il valore ed accettarla generosamente. Non si tratta infatti di educare le persone a fare qualcosa, bensì a dare un orientamento radicale alla propria esistenza ed a compiere scelte che decidono per sempre del proprio futuro”[18].

 

E in Italia?

Partendo dai fatti più recenti appare largamente significativo che un’Assemblea dell’episcopato sia stata consacrata a riflettere su questo tema. Dal 17 al 21 Maggio del 1999 i nostri Vescovi in occasione della 46a Assemblea generale hanno riflettuto su “Le vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata nella comunità cristiana”. Hanno potuto utilizzare la ricchezza di un cammino – in particolare il bel documento del 1985: “Vocazioni nella Chiesa italiana” ed hanno fatto alcune scelte che ci guideranno nei prossimi anni. Presento soltanto la premessa al documento: “Il Giubileo è memoria dei doni di Dio nella storia e invito a sentire la vita come un continuo ‘varcare la soglia della speranza’ per ricondurre tutto a Cristo, ‘Signore del tempo’. Vivere la vita come vocazione è il modo concreto di camminare nella speranza. È lasciarsi interpellare da Cristo, guardando alle necessità e al bene dei fratelli. È pensare la vita come dono, andando controcorrente rispetto alla massa. La speranza sostiene ogni passo del chiamato, rendendolo protagonista di una storia secondo il cuore di Dio”. Nella struttura stessa degli orientamenti si notano le scelte di fondo che sono di natura squisitamente antropocentrica e cristocentrica ad un tempo e poi di coinvolgimento globale e capillare della pastorale ordinaria delle nostre chiese.

 

 

 

CONCLUDENDO: TRA LUCI E OMBRE

 

Che cosa resta da dire? Forse aprire la riflessione di questo Forum significa non aver paura di guardare le ombre – come certamente accadrà – senza però dimenticare che proprio le ombre è possibile vederle solo in presenza di luce. E molte sono le luci! La chiarezza sui contenuti della pastorale vocazionale che da impegno sorretto dalla paura finalmente ha preso la strada di una grande storia di amore e di servizio all’uomo.

La chiarezza sui contenuti del vangelo della vocazione: una sola vocazione all’amore diversa per ciascuno con il diritto di ciascuno di essere messo nella condizione di scoprire e realizzare la propria. La chiarezza sui soggetti che altro non è che tutta la comunità ecclesiale nella quale risplende la presenza dei testimoni consacrati perché una vera storia d’amore si incomincia a viverla quando ci si innamora di qualcosa che si vede realizzato in qualcuno: che cosa potremmo fare per l’esplicitazione di una vocazione consacrata senza chi la racconta con la sua stessa vita ai giovani delle nostre comunità?

La chiarezza sui percorsi lungo i quali l’annuncio, la proposta e l’accompagnamento vocazionale possono camminare: la vita stessa delle nostre comunità e, in essa tutte le iniziative che dalla vita stessa di comunità si ritengono opportune e necessarie per raggiungere questo obiettivo. La chiarezza sulla centralità della pastorale vocazionale nella pastorale ordinaria della diocesi stessa[19].

La chiarezza ormai anche sulle questioni pedagogiche e metodologiche alla quale ha dato un contributo non indifferente anche il Convegno del CNV appena celebrato. Le ombre stanno nella fatica a maturare in tutti e dappertutto questo stile comunionale e questo conseguente atteggiamento operativo. Ma proprio questo Forum dice che – anche in questa prospettiva – ormai è l’alba di un nuovo giorno.

 

 

 

 

 

 

Note

[1] SANT’AGOSTINO, De Sancta Virginitate, P. L. 397- 428, n. 2. 

[2] F. TILLMANN, Il Maestro chiama, Morcelliana, Brescia 1940. 

[3] CEI, Direttorio di Pastorale Familiare, Roma 1993. 

[4] GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata, Roma 1996, n. 15. 

[5] Ivi n. 26.

[6] Ivi, n. 14.

[7] De Sancta Virginitate, o.c., n.53.

[8] CEI, Direttorio di Pastorale Familiare, o.c., nn. 26-27.

[9] Ivi, n. 28.

[10] SANT’AGOSTINO, De Sancta Virginitate, o.c. n. 12.

[11] Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove Vocazioni per una nuova Europa, Roma 1998, n. 19 d.

[12] LEONE XIII, Il divisamento, Lettera ai Vescovi italiani, 8 febbraio 1893. 

[13] PIO XII, Sacra Virginitas, 25 marzo 1954, nn. 53, 55, 66, 67. 

[14] Cfr. G. MILANESI, Sociologia religiosa, LDC, Torino 1970. 

[15] P.O.V.E., o.c., n. 11c.

[16] GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 34.

[17] GIOVANNI PAOLO II, Vita Consecrata, 25 marzo 1996, n. 64.

[18] GIOVANNI PAOLO II, Messaggio al Congresso Europeo, 29 Aprile 1997, n. 2.

[19] Bellissimo in questo contesto quanto enucleato nella parte terza di Nuove Vocazioni per una nuova Europa cui rimando volentieri per un approfondimento.