N.05
Settembre/Ottobre 2001

Celebrare il morire e la morte per riscoprire la “chiamata” alla vita

Di fronte all’angoscia del proprio annullamento ci difendiamo, inconsciamente, eliminando non solo la morte ma anche i segni che la possano richiamare: finiamo per negare (e occultare) anche il morente. Ma il discorso vale anche per come vengono celebrati i funerali: molte “liturgie” funebri al giorno d’oggi non hanno la funzione di “celebrare la morte” ma piuttosto di negarla, ponendola frettolosamente tra parentesi nel fluire della vita e degli impegni quotidiani. Siamo, inconsciamente, convinti della nostra immortalità (terrena) e fabbrichiamo continuamente simboli che ci mantengano in questa illusione: il potere, la tecnologia, la ricchezza, le ideologie, la guerra… la religione-magia, “simboli di immortalità” e “idoli” che possiamo manipolare e telecomandare. Ma mentre banalizziamo la morte, ci allontaniamo dal “caso serio” della nostra libertà e delle scelte della vita.

Il rifiuto della morte (quella definitiva) viene vissuto e trasferito anche nel rifiuto delle “piccole morti”, del morire implicito nel confronto con le crisi e con la sofferenza del crescere: dimentichiamo così che solo attraversando integralmente la vita (con il dolore che essa comporta) si matura. “Se il chicco di grano non muore non porta frutto” è una chiave di lettura del crescere: il portare frutto nella vita è risultato di un agire che accetta la “chiamata” ad andare oltre i luoghi conosciuti, a separarsi, come parte integrante del vivere, il risorgere come dinamica che presuppone il morire. 

La paura del morire, implicito nel dover scegliere e nel camminare, impedisce di crescere e di costruire un’autentica identità personale. E tutto ciò ha conseguenze anche nelle nostre relazioni sociali nelle quali il grado di impegno e di coinvolgimento dipende dalla capacità di morire al proprio narcisismo perché l’altro, e la relazione con lui, possa crescere e vivere nel tempo. Il rifiuto della morte e del morire, che può essere letto anche nel rifiuto di invecchiare, ci rende impreparati di fronte alla nostra morte e alla morte dei nostri cari. Non sempre ne siamo coscienti. Eppure il malato che muore è spesso l’inquilino della porta accanto e i suoi familiari sono quelli che incrociamo in tanti momenti della nostra vita sociale e parrocchiale. Immersi nel nostro vivere quotidiano, nelle sue gioie e nei suoi mille problemi, pensiamo che la morte non ci tocchi da vicino, sia una realtà che interessa altri, in luoghi diversi e lontani da quelli dove abitiamo.

Eppure, a volte, essa bussa alla nostra porta e ci angoscia. Altre volte bussa alla porta accanto; ma noi, chiusi tra le mura dei nostri pensieri e dei nostri sogni, non sempre ascoltiamo la richiesta di aiuto che gli interessati ci fanno pervenire, in vari modi, per continuare a sperare quando tutte le speranze umane vengono meno. Sintonizzati su altre lunghezze d’onda ci sfugge “la domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa”, quella domanda che è soprattutto – come ci ricorda Giovanni Paolo II nella sua enciclica Evangelium vitae, – “domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova” (n.67).

È una domanda che ci interpella come singoli, ma soprattutto come comunità cristiana e chiede ospitalità dentro alla nostra vita. È una chiamata che esige una risposta. Evangelizzazione e testimonianza della carità, annuncio e servizio fanno parte di un unico mandato, di un’unica vocazione: anzi l’annuncio stesso, come in Cristo, deve passare attraverso il “prendersi cura”. La speranza che il suo Spirito dona a colui che muore passa molto spesso attraverso i nostri gesti di cura e di amore che diventano, per chi li riceve, calde “presenze” di un futuro che li trascende. Accompagnare il malato che muore, rispondendo alla ricchezza e profondità delle sue domande, vuol dire trasformare l’annuncio di speranza in prassi di speranza: tutti quei gesti di cura e di solidarietà nei quali la comunità cristiana, ospitando il malato che muore dentro alla propria vita, “rende ragione della speranza” (1Pt 3,15) che vive e che, per questo, proclama. È l’intera comunità cristiana, infatti, nelle sue articolazioni, professionali, ministeriali e carismatiche, che deve farsi carico della cura pastorale della persona che muore. Esprimendosi come comunità sanante, luogo di relazioni salvifico-salutari per chi muore e per coloro che convivono con lui questi particolari momenti, la comunità cristiana testimonia nella vita le sue convinzioni e diventa, come la prima comunità cristiana, modello d’amore contagioso[1].

Di fronte alle complesse esigenze di chi muore (e alle sue profonde domande) la comunità cristiana è chiamata ad esprimere in forme di carità competente il comando all’amore. Ma non possiamo “sopportare” la relazione con chi muore se ci difendiamo dal nostro stesso morire. E da questa negazione della morte non possiamo uscirne con discorsi fatti di sole parole. La cura pastorale di chi muore e le celebrazioni funebri possono diventare luoghi formativi, “liturgie” che mistagogicamente ci fanno camminare dentro al mistero della morte e al valore “serio”, unico e impegnativo della vita: compagni di viaggio della persona che muore, e di chi vive il dolore della morte dei propri cari, attraverso la compassione, l’accoglienza, la speranza, il silenzio, il grido d’angoscia e la liberazione gloriosa. Il mistero pasquale ne è il segno-sacramentale: “la fede permette una interpretazione del vivere e del morire con la luce della sapienza pasquale, che si fa carità affettiva, accogliente e integrale” (Giannoni).

La celebrazione della morte ci confronta con la vita, con la sua dimensione di cammino e di continuo passaggio. Chi celebra seriamente la liturgia della morte non può eludere o banalizzare il suo messaggio, la sua chiamata agli impegni “senza sconti” della vita e riscopre il valore della solidarietà e dello stare accanto: presenza a volte impotente, ma sempre significativa, come quella di Maria ai piedi della croce.  Però se la comunità cristiana (e noi singolarmente) non si fa presente in tutti gli avvenimenti concreti della vita di una persona, difficilmente potrà farlo “significativamente” nei momenti dolorosi e difficili del morire e della morte. È la totalità dell’azione della Chiesa, attraverso la sua parola, la sua carità, la sua liturgia, nella totalità delle situazioni vitali, che rende efficace ed evangelizzatrice la sua presenza in un momento concreto. “Questa presenza permanente è la migliore preparazione per una presenza umanitaria, evangelica ed ecclesiale nei momenti della morte” (Borobio).

Lo stare accanto a chi muore e la celebrazione della morte possono essere un test non solo della nostra fede ma, anche, della “serietà storica” della nostra vocazione. 

 

 

 

Note

[1] Cfr SANDRIN L., Chiesa, comunità sanante. Una prospettiva teologico-pastorale, Paoline, Milano 2000; SANDRIN L., Compagni di viaggio. Il malato e chi lo cura, Paoline, Milano 2000 e SANDRIN L. (a cura di), Malati in fase terminale, Piemme, Casale M. (AL) 1997.

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