N.05
Settembre/Ottobre 2001

Come annunciare il vangelo della “morte come guadagno” nella parrocchia

“Uffa, papà …”, scoppiarono Mirco e Natascia per l’ennesima volta,  lamentandosi di non trovare nel padre un amico per ottenere il cellulare di ultima generazione e mettersi al passo con gli altri, compagni di tifoseria e amici del pub. Il padre, sessantottino, intanto, rimuginava una frase che da tempo aveva idealizzato, da quando si era fissato su di un grande manifesto, a sfondo totalmente rosso e incollato a tutta parete in campagna elettorale, recava, in basso a sinistra, la dicitura “Prepara il tuo futuro, dovrai passarci il resto della vita”. 

Ora però il “resto della vita” era arrivato. Gli era caduto addosso, con le richieste dei figli che lo mettevano in crisi, perché, più o meno usciti dall’adolescenza, non gli davano neanche più la soddisfazione di ascoltarlo e, basta col domani, gli chiedevano di avere tutto subito. Se avesse potuto sarebbe tornato indietro, gli avrebbe spiegato che lui stesso era arrivato lì dov’era, grazie a un lento lavorio quotidiano; grazie al fatto che fin da piccolo, con un salvadanaio, aveva imparato che goccia a goccia si fa l’oceano; che i regali delle vacanze natalizie erano la gioia più grande di tutto l’anno; che la passeggiata di domenica col nonno, fino alla parrocchia e alla Messa, era un momento insostituibile per imparare le cose che solo i vecchi sapevano e per riposare dagli “sforzi” di una settimana. 

Gli rompe di vedere i suoi figli senza sogni, senza ideali. Ora, soprattutto, gli piacerebbe spiegare loro che, da ragazzo, il pensiero del domani gli aveva dato una grande forza. Come preme un rimpianto del passato, così la voglia di un grande futuro lo aveva spinto, orientato. Ciò che andava sognando lo attraeva, gli dava una forza da leoni, fino a condurlo oggi proprio al lavoro che gli era sempre piaciuto. Scopriva di aver fatto, alla fine, ciò che gli piaceva da sempre. E, a ben vedere, capiva che il cammino della vita dipende dal destino che uno sceglie, come un percorso dipende dalla meta. Come dire: dimmi dove vai, ti dirò chi sei. In banca ci sono un po’ di soldi; la società offre sicuramente più servizi, più mezzi; il progresso più risorse; ma lui, non ha più felicità o più certezze rispetto ai figli. Anzi più problemi! E ora dice a se stesso: ma che futuro è questo! che vale il futuro se non dura quanto voglio io? o, peggio, dura, ma si spezza alla fine contro un freddo e grigio cielo di piombo, di paure, di morte? Correre, sfacchinare e poi figli e problemi: e alla fine si deve mollare tutto? 

In un momento si ricordò perfino della catechista che gli parlava del Paradiso; della nonna che gli suggeriva di tirarsi un po’ sul lato sinistro del letto, perché a destra il suo angelo avrebbe riposato accanto a lui e lo avrebbe difeso dai sogni brutti. Ripensò ad una frase di sant’Agostino, che il parroco amava ripetere: “Come il corpo, anche l’anima ha le sue gioie, che non le devono essere negate”. Si ricordò che una volta, visitando il cimitero del paese, aveva veramente avuto l’impressione che tutti stessero dormendo lì, aspettando un cenno per rialzarsi in una grande vallata per il giudizio sui buoni e sui cattivi e che la sua immaginazione si era spinta a vedersi già grande, per sentirsi vicino al mondo dei buoni e osservare chi avrebbe raggiunto la vita eterna. Ecco, questo della vita eterna, lo scosse dai ricordi e lo fece tornare alle sue frasi fatte: pensa al futuro, col tempo si aggiusta tutto, sono ragazzi. Era fatalmente tornato su se stesso! Da dove era partito.

Cercò allora il “don” della parrocchia sulla piazza, per dirgli che aveva bisogno di aprirsi con lui. Cominciarono a chiacchierare e da un semplice sfogo finì per trovarsi in una gran confusione. Il parroco, con senso pastorale, lo aiutò a partire dalla liturgia. Utilizzando i ricordi delle celebrazioni dei sacramenti più ricorrenti – riferiti a quelle poche volte in cui era tornato in una chiesa, perché invitato – riuscì a fargli notare che, per esempio, nel Battesimo quella veste bianchissima è un segno che parla di luce, di trasparenza, di semplicità di vita, di novità, di risurrezione. Poi il “don” lo prese dal suo verso di professionista biologo e gli disse che la stessa natura insegna il senso della vita: proprio nella celebrazione dei battesimi, era solito prendere la similitudine del parto, del venire alla luce, per parlare della necessità di staccarsi da un tipo di vita, raccolta e sicura se si vuole, ma in realtà dipendente e nascosta, per passare ad un’altra più laboriosa e rischiosa, ma sicuramente più avvincente, perché libera, consapevole e responsabile. La vita è una serie di “passaggi di stato” in cui, dall’uno all’altro, quello successivo è più ampio e migliore del precedente, ma proprio per questo, in certo senso, inconoscibile. Il “don” continuava e diceva che, anche in occasione di funerali, questo tema lo aiutava a far guardare in faccia alla morte come alla soglia di un inconoscibile che però, per qualche verso, per analogia, si rende conoscibile.

A quel punto, vita oltre la morte, morire, vita eterna, non sembrava al dottore neanche più un linguaggio adatto ad indicare quel tipo di vita ulteriore, definitiva, stabile, che insegna la Chiesa e che segue a quella transitoria, temporanea e instabile, di cui ogni giorno facciamo esperienza. Gli sembrò improvvisamente di avere dell’oltre-vita un’affascinante nostalgia, così da sentirla un po’ più a portata d’uomo, sicuramente meno inguardabile, precaria e incredibile. Andando avanti nell’ascolto, si rese conto che con le sue reminiscenze religiose, non aveva fatto mai caso che ogni Messa è celebrata “nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il Salvatore” e che, proprio quando viene annunciata la morte-risurrezione del Signore, si attende simultaneamente anche la sua venuta, perché sì, Lui tornerà glorioso. La morte non è più forte di Lui.

Anche il segno di pace, improvvisamente, gli si illuminò, come gesto profetico di una vita che c’è già e non si è ancora stabilita, più che come risultato di umane misure di rispetto. Poi passò al sacramento del perdono delle colpe e, a pensarci bene, con il colloquio gli apparve come strumento indispensabile per portare nel matrimonio, in famiglia, e non solo, un tipo di amore assolutamente nuovo e affidabile, capace di dare se stesso in un morire quotidiano. Un amore fatto di continua donazione, di perdono, che rassicura chi lo riceve; e concluse che, vissute così, le relazioni umane, gli affetti non sono altro che le “prove generali” della vita rivelata e già esistente in cielo, cui è bene abituarsi fin da ora. L’amore perdonante, pensò, sarebbe già in grado di stabilire sulla terra un clima di concordia congeniale a quello del Paradiso o, almeno, ne sarebbe il più prossimo rudimento. E così, di seguito, di sacramento in sacramento, di evento in evento, con l’aiuto di quella vena di spiritualità che distingueva il suo parroco, scoprì che tutti i gesti della Chiesa e tutte le sue parole annunciano e comunicano una cosa sola: la vita nuova di Cristo, fondamento e misura della vita dei cristiani. 

Elaborò col cuore tutto ciò e concluse: “Peccato che il mio senso religioso si sia spento. Che abbia ridotto la mia fede ad una semplice raccolta di doveri, da rispettare per non andare dannato all’inferno. Peccato che tutto l’amore di Dio-Padre sia stato offuscato dalle paure di un dio-poliziotto. Peccato che la promessa vita finale l’abbia vista solo come premio per gli sforzi che pochi, veramente santi, riescono a fare. Peccato che la fifa della morte non mi abbia mai fatto andare oltre. Nessuno ti parla di morte. Il problema della vita è impostato male e il risultato non sarà mai quello vero. Se non fai i conti con la morte, prima o poi impazzisci o devi sballarti. Ma se questa non è illuminata è chiaro che nessuno sia capace di parlarne e, se qualcuno lo fa, non c’è niente di meglio da fare che toccare ferro”. 

Lasciamo il nostro alle sue conclusioni, ma ora il lettore può considerare che in parrocchia, nella catechesi come nella liturgia, nel volontariato come nella preghiera, bisogna annunciare sempre la gratuità del tesoro finale e liberare l’uomo dal moralismo che si porta dentro per i suoi sensi di colpa. Nulla a che fare tutto ciò con la Fede. Bisogna liberare il cielo dall’idea di vetro specchiato, che, fissato di qua, non ti permette di vedere di là. Va detto presto a tutti e, certamente, a modo che la morte è “sorella” della vita e la vita è “sorella” della morte e che, osservate insieme, queste due gemelle fanno un’ottima pubblicità al Padre delle cose visibili e invisibili. E per finire, se, paradossalmente, della morte ce ne potesse parlare qualcuno di là, anziché qualcuno di qua … sarebbe infinitamente meglio.

Nell’annuncio dovremmo liberare la Fede dall’idea di un apparato di riti, funzioni, doveri e peccati, restituendole la potenza di Vita, d’Amore, di Speranza che è veramente. Il futuro, la morte, fanno parte dell’uomo e non c’è bisogno di rincorrere o sfuggire fantasmi tutta la vita. Quando il problema è impostato bene, qualunque lavoro si svolga, qualunque cosa capiti, qualunque fortuna possa baciare, per sé o per i figli, per la moglie o per i colleghi, nulla può avvincere o angustiare la persona al punto da farle scordare che la vita è un cammino che non conosce fine e che … il fine della vita non è  la fine della vita.

Continueremo ancora a credere, catechizzare, predicare, celebrare, a solidarizzare e far volontariato senza puntare sul “finale” santo e misterioso? Continueremo ancora a sentire il bisogno di far gesti o toccare qualcosa quando si parla di morte? O a cambiare argomento? Continueremo ancora a non sapere cosa dire quando incontriamo qualcuno colpito da un lutto? Continueremo a correre come se la vita non dovesse finire mai e mai presentare imprevisti?

Continueremo a proclamare con la bocca che il Signore è il Signore dei vivi e dei morti e a non crederlo con il cuore? Come può essere la nostra pastorale, se non veramente e sapientemente  escatologica?