N.05
Settembre/Ottobre 2001

Come annunciare la vocazione all’amore come antidoto al pungiglione della morte nei cammini “forti” di spiritualità

Un giovane che arriva ad un ritiro o ad un corso di Esercizi Spirituali, per quanto attirato dai più svariati fattori esterni (amici che andranno con lui, fiducia nell’educatore che l’ha proposto ecc.), è comunque un giovane che manifesta una disponibilità a che qualcosa di nuovo avvenga nella sua vita. In qualche modo è aperto alla speranza, in qualche modo è in ricerca. Questa ricerca può essere dettata anche da un certo senso di morte e di vuoto che aleggia nella sua vita, in modo più o meno consapevole. Oggi noi assistiamo ad una generazione di giovani che ha acuto il senso di trovarsi in un mondo poco ospitale e che la vita sia qualcosa di ostile: la difficoltà a crescere, a passare nel mondo degli adulti, ne è testimone. Gli educatori sono tentati di colpevolizzare questa situazione invitando ad avere più ideali, ad impegnarsi di più, a “credere” in una bontà di Dio che viene proclamata in tutti i modi, ma che spesso è più detta che testimoniata con una vita serena e convincente. In qualche modo siamo riportati alla situazione del sabato santo, con il suo carico di incertezze e di contraddizioni, di sospensione e di disagio, come di recente ci ha ricordato Carlo Maria Martini, nella lettera pastorale alla sua diocesi. 

Non mancano anche i segni di un vero “culto della morte”, non solo e non tanto per l’aborto dilagante, per le proposte più o meno velate di approvazione dell’eutanasia, ma anche con la richiesta di reintrodurre la pena di morte, con l’indifferenza per la vita di milioni di persone, con il disprezzo per l’esistenza propria e altrui che porta al consumo di droghe di ogni tipo, al commercio sessuale, all’ozio camuffato da sicurezza economica e promesso da uno stato che propaganda vittorie miliardarie, tanto illusorie quanto raggiunte senza fatica.

Mi domando allora se la morte è percepita come un “pungiglione”, doloroso e terribile, o se si è camuffata al punto da apparire una via di liberazione in una vita troppo avara di felicità: se così è, bisogna allora che nei momenti forti della spiritualità si muovano i passi lavorando a monte, più che offrendo risposte ad angosciose domande sulla morte che non ci sono! Voglio dire: noi cristiani siamo molto polarizzati sull’annuncio della salvezza dalla morte e con la riscoperta del mistero pasquale ne parliamo anche molto, almeno in certi ambienti. Ma non dovremmo piuttosto educare al gusto della vita, di questa vita, per poi far emergere il desiderio di essere liberati dallo spettro della morte?

Se ci si lascia educare dalle Scritture, dall’esperienza del popolo di Dio – Israele – ci accorgiamo che per circa 1500 anni il Signore non ha ritenuto di dover parlare alla sua gente di quanto avveniva post mortem; ha invece lottato tenacemente per far entrare nelle teste dure dei suoi, l’amore alla vita in tutte le sue forme. Fin dall’inizio troviamo il comando di “coltivare e custodire” il giardino (cfr. Gn 2,15) come prima parola con cui questo Padre educa i suoi figli: li ha preparati a questo impegnativo compito, affermando che il giardino e ogni creatura in esso era cosa buona, anzi molto buona. Questo vocabolo – tov – come sappiamo, indica non solo bontà, ma bellezza, utilità, fruibilità, piacere. Il mondo è piacevole, è bello viverci, vale la pena faticare per renderlo ancora più bello, per farlo crescere, per portarlo avanti e renderlo sempre più abitabile, è “umano-divino”: sono questi i ritornelli con cui il Signore sembra educare il suo ragazzo! Alle giovani coppie racconta di come i figli siano la loro vittoria sulla morte e di come la “benedizione” sia prima di tutto legata alla fecondità. Al popolo che vive in condizioni disumane in Egitto non insegna a soffrire in silenzio, né a costruirsi una mistica del dolore per redimere il mondo. Lo scuote, prospettandogli un progetto di liberazione in risposta al grido di aiuto che il popolo aveva levato verso il cielo: insomma lo invita ancora a credere nella vita. Così succederà nel deserto, vera scuola di rieducazione di gente ancora abituata a vendersi per un piatto di cipolle e che è pronta a credere che la morte è più forte del Suo Signore. È un lungo e duro lavoro che il Signore porta avanti fino ad educare al Sabato; imparare a fare “shabbat” non è stato semplice e lo si è imparato solo nel tempo dell’esilio quando si è capito che questo era un punto capitale per evitare di cadere in un modo di vivere mondano, idolatrico e triste.

 

Sulla base di questo, un’educazione dei giovani nei tempi forti dello Spirito, consisterà:

– nell’annunciare la bellezza della creazione non solo con le parole, ma attraverso percorsi che siano vere “scuole dello stupore”; 

– nell’introduzione al gustare le possibilità di vita reali che sono loro offerte nella vita quotidiana, vincendo le illusioni di evasione – su cui oggi fanno tanto presa le aziende del tempo libero; 

– nel formare al senso del riposo non tanto come astensione dal lavoro, ma come tempo dedicato al benedire Dio, al godere della vita così da tornare al lavoro riposati, creativi, gentili; tempo per la gratuità, per sostenere la vita riscattandola dai meccanismi di morte che l’imprigionano (compresi “gli svaghi” massacranti di giornate di sci o di mare in cui si torna a casa stanchi, affaticati e svuotati); si tratta cioè di recuperare il sabato e la prassi del sabato, prima di parlare della domenica;

– nell’annunciare un amore che sia amore per le creature e attraverso di esse e con esse salga al Creatore; riconciliazione quindi con il proprio ambiente familiare, di lavoro, con la propria città, ecc.

– nel promuovere uno “stile sapiente” nei Ritiri, Esercizi ecc., in modo che il modo di organizzare e di vivere la vita in quei giorni non contraddica con i fatti quanto si sta annunciando con le parole. Appartengono a questo “stile” di vita: la sobrietà del vitto, l’uso attento e non consumistico delle cose (per esempio evitando le docce a tutte le ore, lo spreco di luce…), la compartecipazione ai lavori comuni non tanto per motivi funzionali o economici, ma come laboriosità utile da coniugare con l’ascolto della Parola; dove possibile: momenti di lavoro manuale per educare all’amore della custodia del “giardino”, che non è solo alberi e prati, ma legno, colori, note musicali ecc.;

– nell’educare a quell’amore per la vita degli uomini che porta a coniugare economia e spiritualità, politica e vita di fede, lavoro e servizio, ecc. Il volontariato è una bellissima cosa, ma prima di tutto dobbiamo educare i giovani a vivere bene quelli che una volta si chiamavano i “doveri del proprio stato”, cioè lo studio, il lavoro, le relazioni con gli altri, l’uso dei beni comuni (l’ambiente naturale, l’autobus, lo stadio, la scuola, l’ospedale ecc.).

 

Per maturare in questi obiettivi giova molto ripensare la nostra prassi della spiritualità partendo dalla vita di Gesù a Nazareth: forse noi abbiamo come modelli della nostra azione educativa più san Giovanni Battista e san Paolo che non il carpentiere di Nazareth. Questi ha formato la sua giovinezza a contatto con la vita quotidiana dove l’amore si esprime in tanti fatti ordinari che Gesù ha saputo contemplare ad occhi aperti, ammaestrato dalla sapienza di sua madre e di suo padre, veri eredi della tradizione spirituale di Israele.  

Concludo citando il P. Rossi de Gasperis: “È vero che la redenzione della creazione passa per la croce di Gesù, ma il fine dell’economia della croce è ristabilire la creazione… La ‘nuova creazione’ non è una seconda creazione, ma è la restaurazione, il rinnovamento, la trasfigurazione di questa prima creazione. Dio non ha fatto il primo mondo perché vada in pezzi. Egli vuole che tutto quello che egli ha creato sia salvato. I ‘nuovi cieli e la nuova terra’ sono questo mondo salvato da Dio. Dio non ha mondi da buttare via, non ha umanità da sprecare, non fa cose perché vadano perdute o siano abolite, accantonate e rimpiazzate da altre… Riconciliare gli uomini con la terra, con la vita; il progresso umano con la custodia della terra creata da Dio. Riconciliare tutto quello che si è messo sotto le categorie della ‘terra’ e del ‘cielo’: smetterla di pensare che parlare di ‘cielo’ voglia dire essere infedeli alla ‘terra’ e smetterla di pensare che parlare di ‘terra’ voglia dire ignorare il ‘cielo’. La terra è di Dio e il ‘cielo’ non è un’altra regione, ma è proprio la terra come la vede il Signore nella sua gloria; vivere nel ‘cielo’ è il modo di vivere nel mondo secondo Dio (cfr. Col 3,1-4; ecc.). È questo il senso dell’assunzione al cielo di Gesù (= l’ascensione). Egli è stato assunto a un modo di presenza in questo mondo che noi chiamiamo ‘celeste’. In lui la creazione è arrivata alla destinazione finale, tanto è vero che egli, l’ebreo Gesù di Nazaret risorto, è l’‘uomo nuovo’ (Ef 2,15; 4,24; Col 3,10; cfr. Rm  13,4)”[1]

Educare dei giovani all’amore e alla lotta contro una cultura di morte che si tinge anche di religioso, significa dunque che nei tempi forti dello Spirito bisogna fermarsi su questi contenuti. É sì importante il come annunciare, però forse bisogna prima chiarirsi sul cosa annunciare e partendo da questo trovare modalità adeguate ai contenuti. Non si può prescindere da una rinnovata visione della vita di fede, più educata dalle Scritture lette nel loro contesto ebraico, recuperando proprio questa unità di “terra e di cielo”; altrimenti educhiamo dei visionari!

 

 

 

Note

[1] F. ROSSI de GASPERIS, La roccia che ci ha generato, ADP, Roma 1994, p.17.