N.05
Settembre/Ottobre 2001
Studi /

Educare alla speranza in prospettiva vocazionale

Ho pensato alla speranza l’altra sera, quando ho incontrato padre Amelio, missionario del Pime, classe 1913. Partito per la Cina giovanissimo, nel 1937, a 24 anni. Espulso dalla Cina nel 1951, dopo sei mesi di prigionia. Altri anni di missione ad Hong Kong, con i profughi dalla Cina, poi a Taiwan… Intensa e creativa animazione missionaria in Italia. Da sempre studioso e interessato alla storia delle missioni. Ora ha quasi 88 anni. Ha cominciato a scrivere un libro, su un vescovo missionario in Cina. La speranza inizia a scrivere un libro a 88 anni. La speranza pensa che la morte non rende inutile niente e non ferma niente, che il significato delle cose non sta nella probabilità statistica che avvengano o si compiano, ma prima e oltre. La speranza sa che comunque vale la pena continuare a seguire il cammino iniziato e ogni vocazione ha un domani eterno.

Chi la definisce l’aspettativa di raggiungere uno scopo, chi il senso del possibile, chi l’emozione che nasce quando si è confrontati con un bene futuro, difficile ma non impossibile da raggiungere. La speranza è indispensabile nella motivazione umana. Si risponde ad una chiamata solo nella speranza. E la vocazione diventa il volto concreto della speranza vissuta. Ma come opera la speranza nella nostra vita? S’impara a sperare? E come? Leggiamo alcune esperienze nella Scrittura e da quest’ascolto proviamo a trarre alcuni spunti di riflessione sulle dinamiche psicologiche della speranza e su una pedagogia della speranza: perché Dio è il primo che c’insegna a sperare.[1]

 

Gedeone: l’esperienza del non avere

Libro dei Giudici, capitolo settimo. Nel quadro della storia dei giudici d’Israele, troviamo la vicenda di Gedeone, uno degli eroi liberatori del popolo di Dio. Gedeone impara a sperare attraverso lo spogliamento, l’esperienza del non avere, la ricchezza della povertà. Dio manda Gedeone a combattere i Madianiti, ma di fronte all’esercito che Gedeone ha raccolto gli dice: “La gente che è con te è troppo numerosa… Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato”.  Perciò il Signore riduce l’esercito di Gedeone. “Manda via chi ha paura”, e ventiduemila se ne vanno e restano diecimila. “Manda via chi al torrente beve l’acqua mettendosi in ginocchio”, e se ne vanno via altri novemilasettecento. Restano trecento, l’esercito della speranza.

La speranza nella vittoria ora è affidata alla potenza di Dio, appoggia sulla sua promessa. “Io vi salverò”. E con i suoi trecento Gedeone combatte. La speranza si sostituisce sia all’autosufficienza che si fa forte del numero, sia all’insicurezza di sé (“Signor mio, come salverò Israele? La mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre…”), un’insicurezza che conta i soldati per farsi coraggio.

Dalla storia di Gedeone, ecco un primo punto di riflessione: la speranza è interpersonale[2]. La speranza non è semplicemente una forza interiore autonoma. La speranza è un fatto di relazione, aperta al mondo esterno, alle altre persone. Nel bambino la speranza comincia a crescere nel suo dialogo con la madre. Nel suo iniziale chiedere e ricevere aiuto, il bambino impara a sperare. Pur essendo indifeso, il bambino possiede dei mezzi per chiedere aiuto e a volte sono mezzi irresistibili. Chi non risponde immediatamente con il sorriso al sorriso di un bambino? Così normalmente alla chiamata del bambino segue la risposta della madre. Di chiamata in chiamata, di risposta in risposta, cresce l’interazione e cresce la speranza. È come se il bimbo imparasse: se chiedo, riceverò. 

La speranza è una forza interpersonale e nasce come esperienza di fiducia. La speranza cristiana è basata su una relazione di fiducia interpersonale con Dio. Si spera in qualcuno che ha promesso. E chi promette si impegna personalmente. Qualcuno ha addirittura scritto che la disperazione è probabilmente un “atto privato”, perché “forse è impossibile disperarsi realmente con qualcuno”[3]. Questa è una certezza molto bella: è impossibile disperarsi realmente se c’è qualcuno. Essendo una questione di relazione, la speranza è insieme fiducia nell’aiuto dal mondo esterno e nelle risorse interne. Il bambino stabilisce un senso di fiducia nella disponibilità della madre. Nello stesso tempo cresce in lui la confidenza di poter fare qualcosa, e perciò una fiducia anche nella propria capacità interna. 

Alla fase di mutualità tra mamma e bambino, infatti, segue nello sviluppo umano la fase cosiddetta di separazione e individuazione. Il bambino cresce nella sua autonomia, nella sua capacità di rinuncia, sa accettare che la risposta non sia immediata, rimandare la gratificazione, tollerare la frustrazione… perché ha fatto proprie le esperienze di fiducia e speranza. Maturare nell’autonomia significa sapersi separare dal passato senza un senso schiacciante di perdita e abbandono. Tuttavia maturare è anche passare dalla dipendenza infantile all’interdipendenza e alla capacità di intimità, in una relazione reciproca in cui ciascuno è chiamato a diventare sempre più se stesso. 

Crescendo dunque si rafforza la speranza di diventare se stessi, mantenendo il senso delle proprie capacità e vincendo le paure infantili di essere abbandonato, e nello stesso tempo la speranza di non dover abbandonare ogni aiuto e relazione. L’atto dipendente di accettare l’aiuto di Dio non è la distruzione dell’identità personale, non è contro l’affermazione di se stessi. Anche Tommaso d’Aquino include nella sua analisi della speranza una dimensione attiva, cioè una fiducia nella propria competenza personale, e una dimensione passivo-recettiva, che è un affidarsi per ottenere al di là delle proprie capacità.

 

La Sunammita: l’esperienza del perdere

C’è un fatto narrato con semplicità ed efficace bellezza nel secondo libro dei Re, al capitolo quarto. Una donna di Sunem ospita con delicatezza e riserbo il profeta Eliseo quando passa da quel luogo. E lui la vuole ricompensare. La Sunammita non ha figli. Ma neppure spera più di averne. Neanche quando il profeta arriva e diventa un presenza familiare a lei e ai suoi, neanche allora pensa di chiedere. Non si chiede ciò che non si crede possibile, che non si sente più possibile. “Avrai un figlio”, promette inaspettatamente Eliseo. “No, non mentire. Non farmi sperare”, è il senso dell’obiezione della donna. La mancanza di speranza rende la donna passiva, chiusa nel suo limite, bloccata nella sua povertà senza sbocco. Inutile sperare, non può succedere. Mancanza di speranza, e quindi passività quieta e rassegnata.

Ma la promessa inattesa del profeta: “Il prossimo anno in questo tempo avrai un figlio tra le braccia”, risveglia prima la paura (sperare è peggio, sperare è soffrire) e dopo la speranza: e il bimbo nasce. Passano alcuni anni e poi ecco che il bambino muore. La sobria narrazione biblica non esplicita nessun sentimento, solo racconta la corsa della donna dal profeta. E si coglie bene che la donna questa volta non è passiva, ma è spinta da un’aggressività amara: corre dal profeta con determinazione, resistendo contro chi la ostacola (ma perché vuoi andarci adesso dal profeta? le chiede qualcuno tentando di fermarla, e lei dice solo “Addio”). Deve almeno andare a dire al profeta: “Perché mi hai ingannata? Non ti avevo detto di lasciarmi stare, di non farmi sperare che è peggio essere delusi e feriti nella propria speranza che non sperare neppure, come facevo prima?”. Ma questa delusione aggressiva è accompagnata dalla speranza: “Non ti lascerò” e non si muove finché il profeta non torna con lei a casa sua.

La speranza è difficile dopo il primo vaglio della prova. È un’esperienza di perdita: “Non ti avevo chiesto il figlio, non ti avevo chiesto nulla: perché allora questo? Perché insegnarmi a sperare in qualcosa se poi me lo devi portar via? Perdere è peggio che non avere avuto”. Nata da una fiducia personale (“Io so che è un uomo di Dio”), da una relazione costruitasi pian piano, la speranza, nella prova e nella tentazione di disperazione, si mostra come improvvisa energia per la vita. La donna adesso non si deprime, la sua amarezza è attiva. Prima di perdere definitivamente la donna lotta. La speranza è combattiva e fa vivere. E il bimbo le è ridato, quasi nonostante il profeta.

Dalla corsa della Sunammita, un altro punto di riflessione: la speranza è un elemento fortemente affettivo e combattivo. Dice Tommaso d’Aquino che la speranza è una passione irascibile. Tommaso classifica la speranza tra le emozioni: l’emozione che nasce in assenza di un bene desiderato ma sentito difficile (non impossibile) da raggiungere. La mette insieme all’ira e all’audacia, come passione positiva dell’irascibile[4]. Sono ben noti alcuni studi sui prigionieri dei campi di concentramento e di guerra[5]. Vari autori notano che erano più frequenti le morti quando nei prigionieri era perso il desiderio di vivere, quando c’era depressione, apatia. Ma chi riusciva ad arrabbiarsi, allora tornava a sperare, a combattere e resistere, come se si risvegliassero energie insospettate. La speranza contiene non solo un elemento fortemente affettivo, ma decisamente combattivo. 

Molte volte la depressione è rabbia rivolta contro se stessi[6]. Livelli di rabbia intensi e fortemente repressi portano a depressione. La persona depressa sembra preoccupata di sé, in lotta con la perdita di qualcosa dentro di sé, ma di fatto è piuttosto in lotta contro la perdita di un’altra persona. E quindi la depressione è molte volte un conflitto più interpersonale che intrapsichico: è rabbia contro chi si sta perdendo. In qualche modo, la depressione può essere una vendetta che si applica alla persona perduta senza l’espressione diretta dell’ostilità. Per questo, prendere coscienza della propria aggressività e poterla esprimere spalanca la strada alla speranza. Speranza e depressione sono incompatibili. L’ostilità espressa, resa conscia, invece che inconsciamente rivolta contro se stessi, sottrae all’impotenza. Risvegliare la rabbia è risvegliare la speranza, perché vuol dire: c’è ancora qualcosa da fare. Per imparare a sperare, bisogna avere il coraggio della corsa amara e arrabbiata della Sunammita.

 

Nicodemo: l’esperienza del non capire

La notte è piena di domande. Nel vangelo di Giovanni, capitolo terzo, Nicodemo va da Gesù e fa una sua professione di fede: “Sappiamo che vieni da Dio perché nessuno può fare quello che fai tu se non viene da Dio”. Ma è una professione di fede insicura che non sa arrivare alle sue ultime conseguenze. “Nessuno può fare quello che fai tu se non viene da Dio”: la logica arriva fin qui. E dunque? Cosa comporta questo? Nicodemo non riesce a concludere. Sperare in un paradiso che non si vede, sperare in una vita eterna che si scontra ogni giorno con l’apparenza del niente… Non abbiamo risposte soddisfacenti, non sappiamo come immaginare questo cielo, non abbiamo strumenti sufficienti per parlarne, a volte neppure strumenti sufficienti per crederci davvero. Così Nicodemo si dice: “So che deve essere così, ma poi mi chiedo: come, come e non trovo risposte. Spero che tu le abbia. Non le vedo come tu non vedi il vento. Ma spero che ci siano le risposte che cerco”. Nicodemo con questa incerta speranza, con la speranza di una speranza, va a discutere per trovarla. Nicodemo vuole di più di quello che ha per sperare. E trova di più. 

Da Nicodemo, ancora un punto di riflessione: la speranza è il risultato di un cambio affettivo e cognitivo insieme. C’è un lato affettivo e un lato razionale nella speranza. Quando Tommaso d’Aquino comincia a parlare della speranza, ne parla nella sua forma più semplice, come un’emozione che si prova davanti a qualcosa percepito come buono, che promette di essere difficile da possedere, ma non impossibile. In quanto emozione, precede la riflessione razionale. Ma Tommaso riconosce anche una speranza che appartiene alla sfera razionale, che coinvolge l’intelletto e la volontà nella lotta di superare gli ostacoli. La valutazione che risulta dalla riflessione razionale conduce a una speranza ben fondata, realistica. 

Nella speranza sono dunque implicati elementi affettivi e cognitivi. Anche il pensiero ha un suo ruolo nello sperare. Anticipare nel pensiero il bene che si spera aiuta a vivere. Nei campi di prigionia, secondo gli studi fatti sopra citati, l’immagine del futuro sperato, il pensiero della persona da incontrare, della realtà desiderata nutriva la speranza. L’attenzione protesa a uno scopo, possibile da anticipare nel pensiero e nel desiderio, aiutava a sopravvivere. La speranza non esiste nel vuoto, ma in un contesto umano. E così nella vita di ciascuno gli altri hanno un loro ruolo nel suscitare speranza, sia agendo sul lato affettivo, sia su quello razionale. Per insegnare a sperare, occorre risvegliare un’emozione diversa, ma anche offrire alla persona e alle sue domande un contenuto nuovo. A volte il ruolo affettivo è dominante nel far nascere speranza, provocando per far uscire da uno stato di letargia attraverso il risveglio di emozioni nuove che spezzano l’apatia. A volte prevale il ruolo cognitivo: dare qualche cosa di desiderabile a cui pensare. Sono aspetti complementari nella speranza umana. La speranza dunque non è solo desiderio e sogno. È qualcosa di più. 

 

Paolo: l’esperienza del non riuscire

E infine l’esperienza di Paolo: “Perché non montassi in superbia… mi è stata messa una spina nella carne… A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia. La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12, 7-9). Paolo combatte contro la sua debolezza. Prima da solo, poi chiedendo l’aiuto di Dio, ma comunque puntando ad eliminarla. Spera nella soluzione della debolezza, spera nella scomparsa del limite. E poiché non accade, la speranza rischia di spegnersi. È breve il passo dall’estremo della presunzione all’estremo della disperazione. Dal “ce la farò con le mie forze” al “non posso farcela e non ce la farò mai”. 

Solo nell’esperienza del non riuscire accompagnata dalla consegna di se stessi, un consegnarsi sentito come ultima risorsa, solo allora riceve il dono della speranza vera: la mia potenza si manifesta pienamente nella tua debolezza. Così dalla non-speranza di cambiare (ho pregato tre volte… e adesso non prego più per questo) passa a una speranza più grande che ribalta il senso delle cose.

Da Paolo, un ultimo punto di riflessione: la speranza è realistica, convive con il limite. C’è chi ha scritto: “Non c’è niente di male con la nostra mancanza di speranza se questo non intralcia la nostra speranza”[7]. È in due sensi dunque che si può parlare di mancanza di speranza. In un primo senso, mancanza di speranza significa che non tutto può realisticamente essere sperato. Si può chiamare questo atteggiamento “mancanza di speranza per limitazione”[8]. Vuol dire che molte cose sono di fatto senza speranza, che da alcuni non possiamo sperare quello che ci piacerebbe, che la morte stessa in qualche modo impedisce di sperare di continuare a vivere sempre come vorremmo… Non possiamo non morire mai, non possiamo fidarci di tutti, non possiamo sperare in un cambiamento del mondo in cui in fondo non crediamo affatto. Ci sono dei limiti evidenti nella possibilità di sperare, che non è illimitata proprio perché non coincide con il desiderio.

Una “mancanza di speranza per limitazione” è l’accettazione realistica del limite, in sé e nelle cose. Invece la “mancanza di speranza per disperazione” è un diffuso senso dell’impossibile, infelice passività conseguente a false speranze. Crescere e maturare significa passare dalla mancanza di speranza per disperazione alla mancanza di speranza per limitazione; passare dalla disperazione del non farcela alla speranza del lasciar fare; passare dalla falsa speranza di risolvere tutti i problemi, di negare il limite e farlo magicamente sparire, all’accettazione della debolezza. L’accettazione della debolezza non è un forzato rassegnarsi: ma è la scoperta piena di consolazione che è meglio così, che è meglio la debolezza che manifesta la forza di Dio, che è meglio l’abbandono che rende possibile a Dio di fare quello che vuole senza intralci. Le false speranze cedono il passo. Sperare di far il bene agli altri non vuol dire essere sempre apprezzati; sperare di riuscire non vuol dire farcela sempre e non fallire mai, sperare di essere santi non vuol dire non esser più peccatori… Dio corregge le nostre speranze.

 

Per concludere

Per imparare a sperare allora bisogna lavorare sulle proprie esperienze di non avere, di perdere, di non capire, di non riuscire. Sono esperienze talmente umane che non occorre andarsele a cercare. Noi siamo Gedeone che si trova di colpo con pochissime carte in mano; siamo la Sunammita delusa nel suo primo fidarsi; siamo Nicodemo senza risposte e Paolo con i suoi fallimenti. Sono queste esperienze allora che insegnano a sperare, se accolte, capite, interpretate. Esperienza di povertà e di insufficienza; esperienza di perdita, dolore e rabbia; esperienza di incomprensione, confusione e non senso; esperienza di debolezza e inadeguatezza personale. 

Attraverso tutto questo Dio insegna a sperare, perché in tutto questo Dio chiama: e rispondere è la professione più alta di speranza. La vita consacrata rende visibile questa speranza perché vive di questa speranza, interpersonale, combattiva, di cuore e di mente, realistica.

Il consacrato è Gedeone che rinuncia ai soldati e così fa vedere che è Dio che vince. Il consacrato è la Sunammita che con determinazione chiede conto della fiducia che ha riposto abbandonandosi e così mostra che la sua fedeltà è una risposta. Il consacrato è Nicodemo che accogliendo le parole provocanti di Cristo fa vedere esistenzialmente che solo lo Spirito fa vivere quella vita nuova che si è scelta. Il consacrato è Paolo che mostra al di là di ogni possibile dubbio che solo Dio e la sua grazia possono far sì che una persona si doni completamente.

È così che l’anziano missionario si siede e comincia a scrivere il suo libro…

 

 

 

Note

[1] Molti spunti di questo articolo sono tolti da un interessante saggio su Le dinamiche della speranza: aspetti interpersonali, di T. Healy, S.J., in AAVV, Antropologia della vocazione cristiana, EDB, 1997, che vale davvero la pena di leggere.

[2] Cfr. Lynch W.F., Images of Hope: Imagination as Healer of the Hopeless, Notre Dame Press, London, 1974, p. 42; Meissner W.W., Life and Faith: Psychological Perspectives on Religious Experience, Georgetown University Press, Washington, 1987.

[3] Lynch, op. cit., p. 52.

[4] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I-II e Quaestiones Disputatae de Veritate.

[5] Bettelheim B., The Informed Heart: Autonomy in a Mass Age, Avon Books, New York, 1971; Frankl V. E., Man’s Search for Meaning, Pocket Books, New York, 1977; Ryn Z., Between Life and Death: Experiences of Concentration Camp Mussulmen during the Holocaust, in Genetic, Social and General Psychology Monographs 116 (1990), 5-19; Nardini J. E., Survival Factors in American Prisoners of War of the Japanese, in American Journal of  Psychiatry 109 (1952 ), 241-248.

[6] Healy, op. cit., pp. 42-45.

[7] Lynch, op. cit., p. 47.

[8] Healy, op. cit., pp. 50-51.