N.05
Settembre/Ottobre 2001

La spiritualità coniugale di fronte al mistero della morte e al senso della vita

Ci siamo conosciuti alla fine degli anni ‘60: dopo quattro anni di fidanzamento ci siamo sposati. La nostra esperienza di coppia risente di tutte le tensioni e le speranze vissute negli anni della giovinezza: il ‘68 studentesco, il femminismo e il grande vento di nuovo e di fresco portato dal Concilio Vaticano II.  Il periodo del fidanzamento è coinciso per noi con il momento della scoperta adulta e matura della fede: eravamo cresciuti in famiglie cristiane, ma fu in quegli anni che scoprimmo il senso delle parole Chiesa, regno, vocazione, servizio, comunità, comunione… E il nostro matrimonio nacque con la scommessa che potevamo vivere tutta la bellezza della fede proprio lì dentro, anzi con la grazia del matrimonio potevamo fare anche molto di più di quello che avremmo potuto fare da singoli: potevamo costruire in casa nostra una piccola Chiesa dentro la Chiesa più grande che era la diocesi e, in essa, la parrocchia.

La nostra era una scommessa contro chi intorno ci diceva che eravamo degli illusi, che il tran tran di tutti i giorni ci avrebbe smontato e ridimensionato: che il lavoro, i figli, la casa ci avrebbero condizionato così tanto da riportarci nell’alveo della normalità: la S. Messa della domenica,  la preghiera dei bambini e poco più. Ma il Signore non ci ha lasciati soli e ha permesso che il nostro sogno cominciasse a realizzarsi.

Abbiamo incontrato, appena un anno dopo sposati, insieme ad altre coppie della nostra comunità parrocchiale, un movimento di spiritualità coniugale le Equipes Notre Dame: è stato lo strumento che ci ha permesso di rimanere saldi nella meta che volevamo perseguire.

Grazie alla regola di vita che il Movimento propone, grazie allo scambio fraterno con altre coppie, alla preghiera di coppia e di gruppo, alla guida del sacerdote che ci è sempre stato vicino, mai abbiamo dimenticato che il Signore ci aveva unito per camminare insieme verso di Lui, perché la nostra unione aiutasse ciascuno di noi due a crescere come Dio lo voleva. In questi anni abbiamo poi conosciuto da vicino la Caritas Diocesana; il servizio al suo interno ci ha permesso di realizzare una fecondità che andava al di là dei nostri figli: abbiamo sperimentato accoglienze di donne con situazioni difficili in casa, il sostegno ai progetti del terzo mondo, i servizi a chi non aveva una casa e una famiglia a cui appoggiarsi.

Con questo non vogliamo dire che tutto sia stato sempre facile e semplice: non pochi sono stati i momenti di crisi personali e di coppia, i momenti in cui ci siamo chiesti se valeva la pena impegnarsi in  parrocchia o in diocesi, se non era meglio pensare a noi stessi e ai nostri figli e  lasciar perdere tutto il resto.

E proprio in questi momenti è stato prezioso l’aiuto del gruppo, del movimento: ci ha aiutato ad essere fedeli a quello che avevamo scoperto, ci ha fatto capire che è bello improvvisare ma che poi occorre la costanza nel portare avanti tutti i giorni la croce che il Signore ti affida, ci ha insegnato che c’è un momento per correre e uno per rallentare, ma che non ci possiamo fermare mai perché la meta è troppo bella per rinunciare a raggiungerla. E in questi anni anche la meta è forse in parte cambiata o forse con il passare degli anni ne vediamo un aspetto più bello, più dolce, meno graffiante. Se negli anni della giovinezza volevamo “rivoltare il mondo” e anche le nostre scelte di fede avevano questo sapore e questa intenzione (anche se non siamo mai stati rivoluzionari), ora, dopo aver provato anche l’esperienza forte del dolore e  della perdita di persone care, stiamo lentamente acquistando la consapevolezza che la meta vera della nostra vita è l’incontro finale gioioso ed eterno con Cristo Signore ed è verso questa meta che sono diretti i nostri sforzi.

Questo non vuol dire  non impegnarsi ogni giorno come prima e forse più di prima nel sociale, nel lavoro, nella politica, nella carità, nella testimonianza operosa della fede che sentiamo dentro, ma tutto acquista un sapore di relativo: sappiamo che il nostro sforzo come singoli e come coppia è di far sì che l’altro si presenti e si incontri con il Signore con il suo vestito più bello e sappiamo che l’impegno quotidiano serve a questo. Abbiamo lungamente riflettuto su questo con la nostra èquipe: vivere la vita quotidiana in questa dimensione è uno stimolo continuo a cercare il bene dell’altro, è un dimostrare ai figli che anche dopo 27 anni di matrimonio  c’è ancora tanto da capire e da scoprire nel coniuge, che il cammino di coppia non  è concluso, ma continua a crescere e a essere fecondo.

È una prospettiva questa che ci insegna a relativizzare i problemi di tutti i giorni, le incomprensioni, le fatiche, la malattia. Ogni cosa va affrontata nel miglior modo possibile, ma da ogni esperienza dobbiamo ricavare quello che ci fa crescere come coppia, come famiglia, come Chiesa e che ci aiuta a prepararci all’incontro finale quando il Signore ci chiamerà a godere per sempre del Suo Amore.

Attingere a questa dimensione perenne e allo stesso tempo escatologica dell’amore – il nostro consigliere ci ripete fino alla “nausea” la frase, per altro bellissima, di san Giovanni della Croce: “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” – siamo certi che contribuisce a portare in famiglia un dono prezioso per i nostri figli: la possibilità di vedere di fronte a sé la vita come vocazione all’amore.

D’altra parte crediamo che tale vocazione all’amore, che babbo e mamma cercano di realizzare ogni giorno nella via coniugale, per i nostri figli non appare come l’unica possibile. La via verginale del celibato sacerdotale o della consacrazione non è affatto, ai loro occhi, una rinuncia all’amore se essa percorre, in maniera familiare, insieme a noi e al nostro sacerdote le vie della spiritualità coniugale.