N.03
Marzo/Aprile 2002

Obbedienti alla Parola per condurre secondo lo Spirito: la formazione della guida spirituale all’ascolto

Cosa e come apprendere ad ascoltare? Questo contributo prenderà in considerazione l’ascolto obbediente alla Parola sul versante della guida spirituale.

 

 

Un fatto dalla vita di Ignazio di Loyola

Il desiderio che gli resta allora nel cuore…

 

Partiamo dalla vita di Ignazio e vediamo un caso concreto di ascolto e discernimento affrontato da lui[1]. È un piccolo episodio che ci insegna molto. Ecco i fatti e il problema.

Roma, verso la fine della vita di Ignazio. La Compagnia di Gesù è già bene insediata nella penisola italiana e in alcune città sono già aperti collegi apprezzati. Un giorno c’è da provvedere a due posti di insegnante, uno al collegio di Napoli, l’altro a quello di Venezia. Per il momento Ignazio dispone di un solo candidato. Deve fare una scelta: dare la preferenza a uno dei due collegi e sacrificare momentaneamente l’altro. La situazione della Compagnia nelle due città è molto diversa. A Venezia i padri sono venerati dal popolo e godono la fiducia delle autorità. A Napoli il contrario: la Compagnia è disprezzata e le autorità la sospettano di macchinazioni. Come scegliere? Come determinare qual è la volontà di Dio al riguardo?

Alla domanda: “Se tu fossi Ignazio, cosa faresti?”, le risposte più comuni che si raccolgono sono: vedrei le inclinazioni del candidato, che doti e che limiti ha, quanto reggerebbe una situazione difficile… Oppure: pregherei per capire.

Ignazio è convinto che il candidato abbia la risposta in cuore. Lo convoca e gli spiega la situazione nel modo più preciso possibile. A questo punto, cosa farebbe il candidato? Magari spontaneamente opterebbe per Napoli. Ma Ignazio non lo lascia scegliere in base a una generosità spontanea. Non è un discernimento. Non necessariamente ciò che è più generoso o più difficile è il meglio. Ignazio manda il candidato a pregare tre ore in cappella chiedendogli una cosa sola: stare attento a rinunciare il più possibile alle proprie preferenze personali, raggiungendo l’indifferenza, cioè restando ugualmente disponibile per una o l’altra scelta.

Dopo tre ore il candidato ritorna. E Ignazio gli chiede: “Pensi di avere rinunciato alla tua volontà propria a questo riguardo?”. Il giovane gesuita risponde: “Per quanto mi è dato di capire, penso di sì, padre, di aver rinunciato alla mia volontà propria”.

E Ignazio: “Allora, in questo preciso momento, di cosa hai veramente desiderio?”. E il segretario di Ignazio che racconta il fatto commenta: “Perché Ignazio sapeva che quando uno ha completamente rinunciato alle volontà proprie, il desiderio che gli resta allora nel cuore coincide esattamente con la volontà di Dio su di lui”.

Qualche parola di commento. Innanzitutto, per Ignazio la risposta è dentro il confratello. Non in lui con le sue informazioni. Per questo Ignazio lo chiama e gli spiega bene tutto. E allora, adesso basta chiedergli cosa si sente di fare lui? No, non è così facile.

Il secondo punto è la preghiera (tre ore, cioè un lavoro lungo) per l’indifferenza. Qui avviene il confronto con la Parola, con Cristo crocifisso, Parola di Dio.

E poi, quel gioiello di domanda: e adesso cosa desideri? Basterebbe questa domanda a riassumere il lavoro di accompagnamento vocazionale: adesso cosa desideri? Adesso (non prima), cosa desideri (il tuo desiderio). Perché, scrive chi riporta il fatto, Ignazio sapeva che quando uno ha completamente rinunciato alle volontà proprie, il desiderio che gli resta allora nel cuore coincide esattamente con la volontà di Dio su di lui.

La scelta riguarda la persona, è lei a fare discernimento. Ecco allora gli atteggiamenti della guida: fiducia (credere che il soggetto ha la risposta dentro) e libertà (non desiderare altro che quella risposta si compia). Ma capirla, questa risposta che è dentro, che lavoro richiede? Non è uno spontaneo sentire la volontà di Dio su di sé. La richiesta di indifferenza vuol dire un lavoro di libertà da fare. È come se in superficie ci fosse un desiderio, sentito come un bene, o un sì di generosità, o un no apparentemente ragionato… In pratica, la risposta alla domanda: tu cosa faresti, cosa vorresti, cosa senti che sarebbe meglio…?

Ma questa prima risposta è facilmente difensiva, cioè non libera, sostenuta da motivazioni sottostanti spesso immature. E quindi bisogna scendere a quel livello e guardarle. Il mio sì viene anche da… il prestigio di Venezia, la paura di fallire a Napoli, o viceversa la sfida di Napoli che mi fa sentire coraggioso o il timore di Venezia che renderà la mia immagine conservatrice o impopolare perché privilegiata, il desiderio di compiacere Ignazio, la voglia di lavorare con un dato confratello che è già là, o anche resistenze intellettuali a una presenza o all’altra, desiderio di perfezionismo, senso di colpa all’idea di rifiutare quello che è sentito difficile… Tutte cose “normali”, ma che se non viste e non accolte in consapevolezza e accettazione del proprio limite, finiscono per annebbiare il discernimento e favoriscono una scelta su una base immatura.

Tuttavia più sotto, per così dire, c’è un altro sì più vero, il desiderio di Dio in me, che posso ascoltare se faccio tacere gli altri rumori. E qui trova spazio la Parola. La preghiera, la Parola aiuta a raggiungere quella profondità. Questo è il suo posto, quelle tre ore, ore di familiarità con il pensiero e il cuore di Dio. Una preghiera di tre ore vuol dire simbolicamente un lavoro lungo di purificazione: lo smantellamento del primo sì detto troppo in fretta e che potrebbe emergere in seguito come risentimento, o ansia; e lo smascheramento delle motivazioni sottostanti che ingannano.

Dire semplicemente che la persona, per fare la volontà di Dio, può seguire quanto sente buono, quanto la fa sentire in pace o serena, forse è troppo superficiale. Funzionerebbe se fossimo veramente liberi di ascoltare, se non avessimo conflitti, se non volessimo cose contrastanti… Ignazio non vuole una prima risposta spontanea, neanche se generosa. La volontà di Dio non coincide con “io sento che”. Ma se non è vero che la volontà di Dio coincide con quello che semplicemente sento di desiderare, non è neppure vero che sta fuori di me e non coincide con me: coincide con un me stesso più profondo. Ignazio non dubita che il desiderio più vero della persona, per quanto complicata, problematica, difficile, è il vero bene.

Così, la guida aiuta a diventare se stessi. Coopera a smantellare o destrutturare, ma in realtà aiuta a emergere. Il contatto con la Parola in preghiera (inteso qui come lavoro su di sé, come andare dentro, in profondità) rivela il vero desiderio. Un grande compito è aiutare i giovani a desiderare e discernere il loro vero desiderio, a cambiare i loro desideri coscienti, portando a galla quelli più veri, a educare il desiderio, non solo la volontà o la mente.

Le tre ore sono simbolo dunque di un lavoro lungo e costante del chiamato. Ma sono anche il tempo che perde il formatore, la guida. Ignazio accompagna, attende, in un certo senso. È presente e assente: dentro la cappella di fronte a Cristo il confratello è solo, ma immaginiamo Ignazio fuori in attesa; aiuta con la domanda giusta, ma rispetta quel che è avvenuto dentro… Potrebbe fare lui, decidere. Ma aspetta che capisca l’altro. O potrebbe scaricare: prega e decidi tu. Ma non lo fa. Assume la sua responsabilità.

Da questo episodio traiamo tre conclusioni che vogliamo sviluppare. 

* Ignazio si mette in ascolto: ascolta la situazione, la storia, le sfide

* Ignazio ascolta la persona e accompagna il suo ascolto dello Spirito 

* Ignazio si ascolta, cammino di tutta la sua vita: aiuta gli altri con il frutto della sua abitudine ad ascoltarsi.

 

 

Ascoltare

Ascolta volentieri (Sir 6,35)

 

Attivi nell’ascolto: un modo di amare

La parola “ascolto” rischia di far pensare a qualcosa di passivo. Invece essere attivi nell’ascolto è un modo importante di amare. Ascolto attivo (della Parola, di ogni messaggio di Dio, e poi dell’altro e di se stessi) significa diverse cose: decidere di ascoltare, e cioè mettere da parte se stessi, ascolto come dono di sé, come offerta cosciente di se stessi all’ascolto; imparare l’ascolto e allenarsi all’ascolto; dare tempo all’ascolto, anche nella sua preparazione e nella sua verifica; alimentare la coscienza di un mistero di comunione e servizio, per cui la vita di fede e l’obbedienza alla Parola della guida sono in connessione reale con la crescita dell’altro, una connessione che dentro di sé va esplicitata e non vagamente sottintesa.

Sono tutte cose che bisogna fare e che sono non una tecnica, ma un modo di amare e di donarsi. Ma soprattutto: l’ascolto è attivo perché non consiste in un silenzio in  attesa di risposte, ma in un lavoro per farsi e per suscitare domande. Il vero ascolto è suscitare domande. Su questo punto vogliamo insistere. La guida deve essere attiva per rendere attivo il chiamato. Deve imparare a farsi domande per insegnare a farsi domande. Non farsi domande è una forma di passività che è ostacolo alla crescita[2].

La Parola insegna. Gesù, come guida e maestro, fa tante domande, anche apparentemente inutili. Cosa vuoi che ti faccia? Vuoi guarire? Sapete quello che domandate? Volete andarvene anche voi? Sono domande che in realtà suscitano altre domande: Ma cosa voglio davvero? Ma voglio davvero guarire? Voglio andarmene o restare? Pensiamo al dialogo di Emmaus. I discepoli in cammino erano tristi, depressi potremmo dire e perciò passivi. Speravamo. Verbo imperfetto. Non avevano più domande. Gesù rimette in moto la ricerca e la speranza: Cosa pensate? Di cosa parlavate? Domande sulle vecchie speranze, per gettare luce e far fare dei passi. Non sapevate? Apertura e provocazione. Provocare è un modo di amare, forse più che lasciare in pace…

Alle persone che si accompagnano va pian piano dato qualcosa in più se si vuole che progrediscano. È il non ancora raggiunto, solo intuito, non posseduto, che fa magari paura o crea problemi, che suscita domande e poi fa crescere.

Un bambino davanti a un problema, come mette tutte le sue energie per rispondere… E così cresce. Si cresce perché ci si fanno problemi e domande nuove a cui bisogna cercare nuove risposte e soluzioni. Molte persone non si fanno più domande. Bisogna aiutarle a farsele. Questo è l’inizio dell’ascolto. Non farsi domande spesso è causa ed effetto del non vedere alternative al proprio modo di fare che non si mette più in questione. È una specie di “so già” oppure di “non c’è nulla di nuovo”. È una sorta di mancanza di speranza e diventa uno stile passivo che gestisce spesso stancamente l’esistente.

Una persona è senza domande, o fa fatica a farsele, quando desidera una tranquillità, magari idealizzando il passato o sognando un futuro magicamente raggiungibile. Diventa passiva, come se attendesse la gratificazione dei suoi bisogni da una mamma che fa tutto e che perfino li indovina senza che occorra dirglieli. Evita le sfide, ripete le vecchie dinamiche perché non conosce alternative e perché ne ricava un guadagno. Aspetta che i problemi si risolvano, che magicamente i conflitti spariscano, che le difficoltà scompaiano. Per far crescere, occorre aiutare a smascherare e combattere questa passività.

Il non voler sentire o non voler farsi domande può essere la prima tappa di mancanza di autenticità, di genuinità nel rapporto con Dio e la sua Parola. Un’assenza di domande è apatia, non procedere. La domanda implica energia, vita, dialogo con l’altro. Un cuore che ama è un cuore che si fa domande; un cuore indifferente non ha abbastanza interesse per farsele. Bisogna far passare dal cuore indifferente al cuore interrogante. Può esserci il timore di far scricchiolare un equilibrio, e quindi la spinta a evitare di turbarlo anche quando non è affatto soddisfacente. Sono le condizioni e i “ma” che si mettono per non cambiare che diventano ostacolo alle domande che invece fanno camminare. Sono le riserve che vanno rese sempre più consce.

Qui davvero la Parola getta luce sulla vita e chiarisce e provoca. Un esempio nella Scrittura[3]. La storia di Naaman nel secondo libro dei Re, capitolo 5. Quando Naaman se ne sta andando arrabbiato per il comportamento e l’ordine di Eliseo (“Va’ a bagnarti sette volte nel Giordano”), ecco la domanda dei servi: “Ma se ti avesse chiesto una cosa gravosa non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: bagnati!”. È la domanda che svela la contraddizione. Che costringe a un “perché?”. Se voglio guarire, perché me ne vado arrabbiato solo perché mi ha chiesto una cosa semplice? La domanda innesca un comportamento nuovo (“andò e si lavò”), ma ancor più una consapevolezza nuova di sé: dunque, se me ne vado, la mia rabbia è più forte della voglia di guarire; dunque, le aspettative di vicinanza, interesse, riconoscimento, la paura dell’umiliazione sono più forti della voglia di guarire…, e allora, cosa voglio davvero? E Naaman scende dal primo livello, il “vorrei” superficiale a quello più profondo, cosa voglio davvero… senza i “ma” e le riserve, incondizionato.

Noi spesso evitiamo la domanda e banalizziamo il piccolo fatto che potrebbe suscitarla senza interrogarci. Nella sua Autobiografia Ignazio dice più di una volta, a proposito di diversi fatti: “Meravigliato di quella diversità cominciò a rifletterci”. Lo stato d’animo di gioia o scontentezza dopo i suoi sogni al momento della conversione, le ispirazioni spirituali al momento di dormire o di studiare… Per lui sono tutte contraddizioni che spingono a farsi domande e lo portano a vere scoperte su di sé e su quanto Dio gli sta dicendo. Noi a volte concludiamo in fretta davanti a una contraddizione in noi stessi: sarà un po’ di influenza, sarà la stanchezza… ma Ignazio è attento a tutto perché vuol seguire Gesù e non se stesso! Bisogna stimolare un processo di scoperta per far andare avanti fino alla prossima domanda.

La persona deve poter immaginare liberamente altre possibilità di vita e di comportamento. Ma non basta “dire” le altre possibilità, bisogna che la persona le scopra. La gioia della scoperta del poter far altro, di poter essere diverso, è qualcosa di differente dal “mi è detto cosa fare”. Fare un programma preciso rischia di rinforzare la passività. L’accompagnamento vocazionale dovrebbe spingere ad affrontare qualcosa in più di quello che una persona sa già fare. Dovrebbe stimolare il sorgere di nuove domande, favorire un processo di scoperta di se stessi, anche se questo può sconvolgere l’equilibrio presente e sacrificare una certa tranquillità.

Quasi sempre la persona vuol fare un cammino, ma poi investe molte energie nel resistere alla possibilità di cambiamento. Occorre portarla spesso dove non vorrebbe andare. Però bisogna offrire un’esperienza proporzionata, non un salto troppo lungo. I problemi servono per imparare, ma non se sono troppo difficili. Quando l’ansia è troppa non fa crescere, blocca e scoraggia. Occorre confrontare con gli schemi consueti e spingere ad esplorare nuove possibilità; attivare il desiderio di crescere, insegnare a godere delle domande e della ricerca; aiutare a sbloccare, a farsi domande sulla situazione del vivere quotidiano e poi confrontare le soluzioni scelte con Gesù nel Vangelo; gradualmente far vedere come le proprie limitazioni bloccano e come i valori si liberano, incoraggiando a cambiare, perché non si è obbligati a fare come si è sempre fatto. Se la guida fa in se stessa questa esperienza, la favorirà nel chiamato.

 

Lavorare per la propria libertà

L’ascolto non nasce libero, diventa libero: sono le tre ore di Ignazio. Un ascolto libero è il frutto di un lavoro sulle proprie resistenze personali: è libertà di fronte alla Parola, attenzione agli ostacoli nell’accoglierla. Ascoltare è far entrare in se stessi, quindi è rinunciare ad alcune difese: agli schemi prefabbricati, a sentire solo quello che prevediamo, che sappiamo già, a non farsi provocare, a non voler incontrare un nuovo mistero. Soprattutto ascoltare è non selezionare. Occorre innanzitutto una percezione libera che mi consente di ascoltare tutto.

L’ascolto ci serve per sentire e conoscere e capire di più oppure per rimanere come siamo, difendendoci da tutte le provocazioni e gli stimoli nuovi e accogliendo solo ciò che conferma quanto già pensiamo, immaginiamo, viviamo? Siamo liberi di ascoltare le cose come stanno? O siamo già condizionati? È possibile un ascolto senza pregiudizi? Noi percepiamo le cose già strutturati, predisposti a percepire in un certo modo. Facciamo un esempio banale: l’elenco telefonico. Quando cerchiamo un numero è come se avessimo un filtro che ci permette di riconoscere il nome dell’elenco che cerchiamo senza farci leggere tutto il resto; automaticamente selezioniamo. Lo stesso purtroppo avviene nei nostri incontri e nel nostro ascolto.

Il filtro sono le nostre attese (troviamo solo quello che cerchiamo, quello che ci aspettiamo); sono le nostre paure (come un’acuta sensibilità a una possibile minaccia). L’esperienza soggettiva (le attese e le paure, dovute alla storia personale) condiziona il nostro entrare in contatto con la realtà oggettiva. Ad esempio, abbiamo paura di essere giudicati male dagli altri, perché ci sentiamo insicuri di noi stessi. Allora basta un tono di voce incerto ed è subito interpretato come giudizio negativo. Oppure, ci basta vedere due che parlano tra loro e siamo sicuri che parlano male di noi, perché siamo predisposti a sentire gli altri come una minaccia.

L’ascolto è più o meno selettivo a seconda della nostra maturità, cioè di quanto ci difendiamo. Il rischio è che non ci si fa più domande per imparare altre cose e non si conosce davvero l’altro che si incontra: io trovo quello che cerco, io imparo quello che so già. Come dice Freud: “Se chi ascolta segue le sue aspettative, rischia di non trovare mai altro se non ciò che già sa”. Non avviene lo stesso a noi con la Parola di Dio? Avviene che finiamo per leggere nel Vangelo sempre e solo ciò che già sappiamo, che ci serve a restare come siamo, e non ci accorgiamo più neppure di tante altre parole che ci metterebbero in questione. Svuotiamo il Vangelo della sua forza, rendendolo indolore. Non ci facciamo altre domande e non ascoltiamo chi ce le pone. Leggiamo per non cambiare. Preghiamo la Parola per non cambiare.

 

 

Ascoltarli

E se avesse ragione la torre di Pisa?

 

Le vere domande

Cosa devo ascoltare nel chiamato? Agganciamoci a quanto detto finora. Devo ascoltare le vere domande. Il desiderio che gli resta allora nel cuore… con la fiducia che il vero desiderio è quello giusto.

Anni fa era uscita una vignetta di Clericetti con la torre di Pisa e la domanda: E se avesse ragione lei? La battuta vuol dire: ci sembra che lei abbia torto perché tutti noi stiamo dritti. Perché solo lei è diversa. E se fosse giusta lei e storti noi? La proposta del Vangelo, presa seriamente, è come la torre di Pisa.

La prima cosa che emerge nella persona chiamata è spesso la non corrispondenza del valore con il proprio personale desiderio, della proposta di Dio con i propri progetti. Sono i desideri e i progetti di “prima”, prima delle tre ore. La domanda vera è storta come la torre e quindi è percepita in un primo momento come estranea, non corrispondente, in conflitto. E si sente tutta la paura di una possibile infelicità.

Perdonare settanta volte sette? Perdere la propria vita? Amare i nemici? Obbedire invece di fare come si vuole? Accettare il fallimento e la debolezza? Lasciar crescere la zizzania? Fare due miglia con chi ci costringe a farne uno? Ma la torre ha ragione davvero; non solo: dentro, siamo storti anche noi. Non è normale quello che Dio ci propone, eppure dentro, nel profondo, la sua è la risposta, la chiave che finalmente entra nella serratura che siamo e ci apre alla vita. Perdonare, amare fino in fondo, consegnarsi… come Gesù. Perché siamo fatti per Dio, come il concavo aderisce al convesso.

C’è la torre di Pisa dentro ogni chiamato, diritta in relazione a un altro orizzonte. Occorre questa fiducia, il coraggio di credere che per quanto superficiali e distorte e forse perfino false siano tante domande, al fondo c’è quella giusta. L’unica che avrà una risposta profondamente appagante. Per questo, occorre prima ascoltare le domande dette, emergenti, consce e poi lavorare per liberare e rispondere a quelle più vere. Gesù ha sempre fatto così. Tanto spesso, la prima domanda di chi si rivolge a lui non è quella più vera e tuttavia è accolta. Diventa il punto di partenza: ascoltare i bisogni detti anche se immaturi, partire da dove la persona è.

 

Ascoltare tutto

Per aiutare a discernere le vere domande bisogna saper ascoltare tutto. Ascoltare tutto vuol dire saper ascoltare non solo le parole, ma anche i segni. Saper ascoltare quello che la persona dice e anche quello che non dice. Saper ascoltare come lo dice. Ascoltare tutto vuol dire ricordare cosa ha già detto, saper mettere insieme i frammenti e trovare il comune denominatore. Darsi il tempo di notare le cose e rifletterci. Ascoltare è un lavoro serio, che a volte comporta anche sofferenza, come tutte le forme di amore. Ascoltare tutto vuol dire saper ascoltare tutti i contenuti, tutti i sentimenti. Per questo occorre aver affrontato i propri.

Nel libro La radicalità della fede, ormai del 1991, Martini affronta con gli studenti di teologia il tema delle fatiche nella fede, nel celibato e nelle prove del ministero. Perché, dice, se queste scelte “non sono state profondamente assimilate e anzi si sono tollerati fenomeni inconsci di rigetto senza averli esorcizzati e analizzati, a un certo punto tali fenomeni riprendono il sopravvento dando luogo a manifestazioni imprevedibili… Dovremmo dare voce al non credente che è in noi e che sempre si ribella, resiste, accumula obiezioni… Ritengo estremamente importante dare voce a tutto questo prendendone coscienza” (p. 14ss).

E lo stesso si può dire per altre cose: l’affrontare i conflitti, l’aggressività, le fatiche della preghiera… Questo dare voce, capirsi e prendersi in mano acquista in questa luce un valore di ministero. La comprensione di noi stessi diventa anche servizio all’altro. Forse abbiamo paura che cercare di conoscersi meglio, capire di più la propria psicodinamica sia esercizio un po’ sterile di ripiegamento su se stessi, ricerca di perfezionismo, o perdita di tempo, o mancanza di semplicità e di abbandono. Ma pensiamo che può essere invece premessa a un ascolto che accoglie dal di dentro e lavoro previo in vista di un servizio all’altro più libero ed efficace e quindi una forma di carità.

 

 

Ascoltarsi

Il mio affetto è così puro che non desidero lo conoscano (S. Teresina)

 

Ascoltarsi per capire

Arriviamo quindi a dire l’importanza di fare attenzione al proprio mondo interiore, alle proprie reazioni emotive, in relazione al rapporto di accompagnamento con una determinata persona. Che ci siano delle reazioni è ovvio: significa che si è coinvolti, interessati, partecipi; è irrealistico non voler sentire niente nel rapporto con una persona che si accompagna; bisogna mettere in conto che si risvegliano tante cose dentro. Si possono sentire reazioni positive, piacere di lavorare insieme, attrazione per il tipo di persona che si ha davanti, soddisfazione per i passi che fa… oppure negative, irritazione per il modo di fare, fastidio per la lentezza del cammino, colpa perché si ha l’impressione di non riuscire ad aiutare abbastanza…

Non si tratta di essere persone senza problemi, senza sentimenti, senza attrazioni, o senza antipatie. Ma bisogna essere sufficientemente consci dei propri problemi per evitare che interferiscano troppo. Cosa fare delle proprie emozioni? Per prima cosa occorre riconoscerle: ecco l’importanza di ascoltarsi. Senza questo primo indispensabile passo, come si può controllarle? O come si può apprendere qualcosa di nuovo? Bisogna sapere che possono emergere sentimenti anche irrealistici, cioè sproporzionati alla situazione reale in quanto tale.

Conoscendosi, si possono anticipare e prevedere le proprie reazioni emotive, riconoscere con più prontezza i sentimenti che emergono e che possono essere un problema personale più che una difficoltà giustificata dalla relazione in se stessa (ad esempio, irritazione al percepire una dipendenza; paura della dominazione…). Più si coglie questa influenza, più si evita la confusione. Altrimenti diminuisce la stessa capacità di comprensione dell’altro e si finisce inconsciamente per servire se stessi più che l’altro. Sappiamo che cosa ci rende più o meno efficaci con giovani con questa o quella personalità? Con maschi o femmine, persone timide o intraprendenti, seduttive o intellettuali? Ci spaventiamo, ci ritiriamo, ci innervosiamo, ci annoiamo, ci compiacciamo…

Se i propri sentimenti e reazioni sono riconosciuti e ammessi, allora si può, oltre che controllare, anche imparare molto, sia su di sé, sia sulla persona che si ha di fronte. In genere, una guida spirituale impara tanto dalla sua esperienza e dalle sue relazioni interpersonali. Apprende come i suoi atteggiamenti facilitano o meno i suoi rapporti. È vero che una persona che inizia a far la guida dovrebbe già sapere parecchie cose su di sé e non fare della direzione spirituale la sua fonte maggiore di crescita e conoscenza! Ma è anche vero che facendo si impara molto.

In genere, la guida sperimenta disagio e ansia quando deve affrontare con la persona che accompagna delle aree che sono ancora conflittuali in lui stesso e non sufficientemente considerate. Per esempio, l’area della preghiera, l’area dei rapporti con l’autorità, l’area della sessualità… Non si tratta di risolvere tutti i propri conflitti prima di poter fare direzione spirituale: ma la guida deve sapere dove sono i suoi problemi per poterli controllare.

Con la direzione poi ci si continua a conoscere, perché è pur vero che se non si sa che alcune cose sono ancora da affrontare, ci si accorge che la direzione spirituale può portare alla luce alcuni conflitti e spingere a prenderli in considerazione. Inoltre, le proprie reazioni all’ascolto dell’altro sono anche una sorta di “informazioni diagnostiche” per comprendere. Si può allora usare il proprio disagio per capire di più l’altro.

Per esempio, cosa mi fa scattare fastidio o rabbia o eccesso di attenzione? Se so che temo di perdere le persone con cui stringo legami e questa possibilità mi rende ansioso, e se divento ansioso mentre il giovane parla della possibilità di trasferirsi o racconta di aver incontrato un’altra persona in gamba in un gruppo… dal mio dispiacere posso dedurre che vorrebbe smettere il lavoro che facciamo insieme anche se non lo dice. O ancora, se sento la tentazione di esser duro con un giovane quando non è docile e mi svaluta… la spinta a essere troppo duro illumina il fatto che probabilmente sta cercando di dominarmi…

Si può usare se stessi per capire l’altro, a condizione però di conoscersi a sufficienza, per non rischiare di proiettare sull’altro i propri problemi. Occorre quindi fare attenzione alla differenza tra empatia e emozioni irrazionali. L’empatia è una forma di comprensione basata sulla realtà del rapporto. Vivere il proprio problema ascoltando quello dell’altro è una distorsione della realtà. L’empatia è una sensibilità preziosa. Confondere i propri problemi con quelli dell’altro è altra cosa.

 

Ascoltarsi per non commerciare

Ascoltarsi serve a capirsi e capire, ma non basta. Serve anche a evitare che la propria realtà interferisca nella relazione di aiuto, dopo aver compreso cosa più o meno inconsciamente ci si aspetta dalla relazione. Ascoltarsi serve cioè a trovare la lucidità e la forza di rinunciare a gratificare i propri bisogni personali nella relazione di aiuto: ad esempio, il bisogno di dominare (non lascio andare), la paura di fallire (mollo se non vedo risultati), la ricerca di dipendenza (mancanza di coraggio a confrontare)…

Una reazione positiva può portare a un eccesso di sollecitudine, a non dire cose che si dovrebbero dire perché un po’ dure, a dare troppo tempo, a non sganciarsi mai, a essere seduttivi, più o meno inconsciamente, ad aver voglia di parlarne con altri… Una reazione negativa può portare a non aiutare abbastanza, a confrontare troppo, a permettersi di distrarsi, a non dare importanza a incontri saltati o ritardati, a ritenere presto che non c’è più bisogno di continuare… Bisogna saper notare tutto questo e impegnarsi per essere liberi dalle conseguenze delle proprie reazioni emotive.

 

Ascoltarsi per donare

In Ignazio il suo ascolto di se stesso è diventato dono. Aveva chiaro che voleva “aiutare le anime”, secondo una sua espressione che coincide con il nostro accompagnamento vocazionale. Questo “aiutare” era l’obiettivo consapevole del suo attento leggersi, insieme a quello di cercare Dio in tutte le cose. Dalla prima esperienza di attenzione al movimento degli spiriti che poi lo porta alla conversione già nasce il nucleo degli esercizi spirituali per gli altri. Nella sua esperienza con Francesco Saverio, è chiaro il riferimento vitale alla propria esperienza. “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?”. Così nelle sue lettere, offre in dono a suor Teresa Redajell, con cui è in corrispondenza, la lotta che lui stesso aveva fatto per liberarsi dagli scrupoli e che leggiamo nell’autobiografia. Non si tratta di raccontare la propria esperienza in quanto tale, il che normalmente nella direzione spirituale non è affatto opportuno. Ma di saper offrire qualcosa che è diventato sapienza perché è stato vissuto con attenzione, è stato compreso esistenzialmente.

Anche in santa Teresa di Lisieux troviamo alcune notazioni circa il suo lavoro di maestra delle novizie estremamente belle e utili per noi.

“Madre amata, lei capisce che alle novizie tutto è permesso; bisogna che possano dire ciò che pensano senza alcun limite, il bene come il male. Questo è per loro più facile con me in quanto non mi devono il rispetto che si deve a una maestra… Con una semplicità che mi incanta, mi raccontano tutte le lotte che provoco in esse e ciò che in me non piace loro; insomma non si scompongono più che se parlassero di un’altra persona, sapendo che mi fanno un gran piacere… Non riesco a spiegarmi come possa una cosa che dispiace tanto alla natura causare una felicità così grande…”.

La persona è lasciata libera di non compiacere, libera di non dover gratificare i bisogni della guida.

“So bene che le sue agnelline mi trovano severa… possono dire tutto quello che vogliono; in fondo sentono che io le amo di un amore vero, che mai imiterei il mercenario che, nel vedere venire il lupo, abbandona il gregge e fugge via. Sono pronta a dare la mia vita per loro, ma il mio affetto è così puro che non desidero lo conoscano. Mai con la grazia di Gesù ho cercato di attirarmi i loro cuori: ho capito che la mia missione era di condurle a Dio…”.

Quale chiarezza sul fine e quale reale sacrificio di ogni ricompensa: non occorre neppure che faccia sapere che le ama… sentono che le ama di amore vero e questo perché di fatto è pronta, e lo fa giorno per giorno, a dare la vita.

“Quando parlo con una novizia, cerco di farlo mortificandomi, evito di rivolgerle delle domande che potrebbero soddisfare la mia curiosità; se inizia a parlare di una cosa interessante e poi passa ad un’altra che mi annoia senza concludere la prima, mi guardo bene dal ricordarle l’argomento che ha lasciato da parte, perché mi sembra che non si può fare alcun bene quando si cerca se stessi…”.

In questa annotazione così semplice, ancora una grande libertà da se stessi, un non perdere mai di vista che ascoltare è per l’altro, non per se stessi.

“Si sente che bisogna assolutamente dimenticare i propri gusti, le proprie opinioni personali e guidare le anime sul cammino che Gesù ha tracciato loro, senza cercare di farle camminare sulla propria strada”.

E quindi emerge la consapevolezza della grandezza di un compito di guida, per cui l’ascolto della Parola vivente è ben più di una tecnica, ma è quella unione che è condizione per un lavoro di accompagnamento.

“Le confesso che se mi fossi appoggiata minimamente alle mie sole forze avrei subito ceduto le armi… Da lontano sembra tutto rose e fiori far del bene alle anime, far loro amare Dio sempre di più, insomma modellarle secondo le proprie vedute e idee personali. Da vicino è tutto il contrario: le rose e i fiori spariscono, si capisce che far del bene è una cosa tanto impossibile senza l’aiuto del buon Dio quanto far brillare il sole di notte!”.

“Quando mi fu dato di penetrare nel santuario delle anime, capii subito che quel compito era al di sopra delle mie forze… da quando ho capito che mi era impossibile fare qualcosa da sola, il compito che mi ha imposto non mi è parso più difficile: ho sperimentato che l’unica cosa necessaria era di unirmi sempre più a Gesù e che il resto mi sarebbe stato dato in aggiunta” (dagli Scritti di s. Teresa di Gesù Bambino)[4].

 

 

 

Note

[1] Raccontato da LOUF A., nel suo libro Generati dallo Spirito, Ed. Qiqajon, 1994.

[2] O’DWYER C., tesi dottorale, Imagining one’s future: a projective approach to Christian maturity, Pontificia Università Gregoriana, 2000, p. 219ss.

[3] TRIPANI G., Sette volte nel Giordano, in “Consacrazione e Servizio”, 4/2000.

[4] Ripresi da SICARI A., La teologia di s. Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, Jaca Book, 1997 (corsivi aggiunti).