N.04
Luglio/Agosto 2002

Vocazione e vocazioni di fronte alla specificità del “genio della donna”

Ho letto con attenzione il n. 2/2002 della rivista Vocazioni, in particolare la riflessione di Dora Castenetto su Vocazione e vocazioni di fronte alla specificità del “genio della donna”. Condivido la sua interpretazione della situazione attuale, le sue prospettive e le proposte conseguenti. Mi limito ad alcuni rilievi, per così dire, integrativi, quasi una provocazione a riflettere con più sistematicità e profezia sul mondo delle donne. In continuità con la proposta di Dora sottolineo che nel considerare le vocazioni al femminile non basta l’analisi fenomenologica, ma occorre un’ermeneutica teologica, una teologia della storia che, valorizzando gli apporti delle scienze umane – anche di quelle statistiche –, porti ad un discernimento evangelico, cioè all’accoglienza del giudizio salvifico di Dio sulla storia.

In questa direzione inizio con una parabola e un’esortazione. La parabola Il monastero può chiudere: “Un monastero attraversava tempi difficili a causa di una nuova moda secondo cui Dio era solo superstizione. I giovani non volevano più diventare novizi. Così, a poco a poco, la piccola comunità che rimase si rese conto che sarebbe stato inevitabile chiudere il convento. I vecchi monaci andavano morendo uno dopo l’altro. Quando l’ultimo di essi fu pronto per consegnare la propria anima al Signore, chiamò a sé uno dei pochi novizi che restavano.

Ho avuto una rivelazione, – disse –, questo monastero è stato prescelto per qualcosa di molto importante.

Che peccato, – rispose il novizio –, perché siamo rimasti solo in cinque e non possiamo occuparci di tutte le incombenze, tanto meno di una cosa importante…

È un peccato davvero, perché qui, sul mio letto di morte, mi è apparso un angelo e io ho capito che uno di voi cinque era destinato a diventare santo. 

Detto questo spirò. Durante il funerale, i giovani si guardavano fra di loro, sgomenti. Chi era mai il prescelto? Quello che si prodigava per gli abitanti del villaggio? Quello che soleva pregare con particolare devozione? Oppure quello che predicava con tale entusiasmo che gli altri, ascoltandolo, non potevano fare a meno di piangere?

Spinti dalla consapevolezza della presenza di un santo fra loro, i novizi decisero di rimandare per un po’ di tempo la chiusura del convento e si misero a lavorare sodo, a predicare con entusiasmo, a restaurare le mura cadenti dell’edificio, a praticare la carità e l’amore. Un giorno si presentò alla porta del convento un giovane: era rimasto colpito dall’impegno dei cinque ragazzi, e voleva aiutarli. Non era ancora trascorsa una settimana che un altro giovane fece la stessa cosa.

A poco a poco l’esempio dei novizi divenne noto in tutta la Regione.

I loro occhi brillano, – diceva un figlio a suo padre, chiedendo di entrare in monastero. – Essi fanno le cose con amore, – commentava un padre con il figlio. – Vedi come il monastero è più bello che mai? -, commentavano gli abitanti della Regione.

Dieci anni dopo, c’erano ormai più di ottanta novizi. Non si è mai saputo se le parole del vecchio monaco fossero vere, o se egli avesse trovato una formula per fare in modo che l’entusiasmo restituisse al monastero la sua dignità perduta”.

L’appello è di Paolo VI, il 15 luglio 1972, nell’anno centenario del mio Istituto, anno della mia professione perpetua. “Saprà la vostra Congregazione rispondere alle attese della Chiesa nella tormentata ora che volge? […]. A questi interrogativi, figliole mie, non c’è che una risposta, per dire tutto in una parola sola […]: la santità […]. Ciò significa per voi assicurare il primato della vita interiore anche in mezzo a tutte le vostre attività esteriori […]. Significa altresì l’impegno tutto particolare da parte vostra di riprodurre nella vostra vita di pietà e di apostolato gli esempi dell’amore adorante ed operativo di Maria SS. Ausiliatrice […]. Finché alla scuola di Maria saprete imparare a dirigere tutto a Cristo Suo divin Figlio, finché terrete fisso lo sguardo su di Lei che è il capolavoro di Dio, il modello e l’ideale di ogni vita consacrata, il sostegno di ogni eroismo apostolico, non si inaridirà mai nel vostro Istituto quella sorgente di generosità e di dedizione, di interiorità e di fervore, di santità e di grazia che ha fatto di voi così preziose collaboratrici di N.S. Gesù Cristo per la salvezza delle anime”[1].

Il Papa nel discorso descrive il contesto socio-culturale e socio-ecclesiale degli anni ’70 con tratti che si ritrovano oggi, offre una risposta con l’appello alla “santità”, la stessa parola che ricorre della parabola. Nel Documento finale del Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa, svoltosi a Roma dal 5 al 10 maggio 1997 al n. 12 è proposta la stessa via: la santità. Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte e nel Messaggio per la XXXIX Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni del 21 aprile spinge nella stessa direzione.

Una convergenza eloquente! Il Signore ci chiama ad investire l’entusiasmo, la gioia della sua presenza, in un’esistenza in cui risplenda il suo Volto e risuoni il suo Vangelo.

“Andiamo avanti con speranza! Un nuovo millennio si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo. Il Figlio di Dio, che si è incarnato duemila anni or sono per amore dell’uomo, compie anche oggi la sua opera: dobbiamo avere occhi penetranti per vederla, e soprattutto un cuore grande per diventarne noi stessi strumenti. […]. Il mandato missionario ci introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla speranza ‘che non delude’ (Rm 5,5) […]. Le vie sulle quali ciascuno di noi, e ciascuna delle nostre Chiese, cammina, sono tante, ma non v’è distanza tra coloro che sono stretti insieme dall’unica comunione, la comunione che ogni giorno si alimenta alla mensa del Pane eucaristico e della Parola di vita […]. Ci accompagna in questo cammino la Vergine Santissima, […] ‘Stella della nuova evangelizzazione’, […] aurora luminosa e guida sicura del nostro cammino. ‘Donna, ecco i tuoi figli’, le ripeto, riecheggiando la voce stessa di Gesù (cfr. Gv 19,26), e facendomi voce, presso di lei, dell’affetto filiale di tutta la Chiesa”[2].

“Dobbiamo imitare lo slancio dell’apostolo Paolo […], la contemplazione di Maria […]. Gesù risorto, che si accompagna a noi sulle nostre strade, lasciandosi riconoscere, come dai discepoli di Emmaus ‘nello spezzare il pane’ (Lc 24,35), ci trovi vigili e pronti per riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annuncio: ‘Abbiamo visto il Signore!’ (Gv 20,25)” (NMI 59).

Come percorrere le strade della vita annunciando il Signore? Quale proposta per questi tempi? Quale appello vocazionale e quali percorsi per le giovani donne oggi? Solo qualche annotazione rispondendo alle domande postemi su uno dei sei nodi problematici individuati dal CNV: perché la diminuzione delle vocazioni femminili è così alta? Qual è l’influenza della cultura femminile contemporanea sulle giovani? Le proposte vocazionali attuali non sono adeguate al “genio” femminile?

 

Il genio femminile

Parto dal “genio” femminile. Il Papa con la Mulieris dignitatem ha coniato l’espressione “genio femminile” (30.31), un’espressione che ritorna con una certa frequenza nel suo magistero e richiama l’imperativo della santità come cammino di identità femminile secondo il progetto divino. Attraverso il genere letterario della meditazione (n. 2) il Pontefice riflette sulla dignità e vocazione della donna nell’orizzonte dell’antropologia uniduale per cercare di comprendere le ragioni per cui il Creatore ha voluto che l’umanità esistesse, fin dall’inizio, come maschio e femmina[3].

L’antropologia che propone con insistenza, interpellando l’uomo e la donna nella loro dignità di immagine di Dio, apre alla donna la via della sua identità considerando la sua chiamata all’amore come una vocazione personale e profetica, come un’attuazione del suo “genio” nel sincero dono di sé. Questa proposta non è affatto scontata, rischia di restare uno slogan che ricorre di tanto in tanto nei discorsi ecclesiastici senza incidere nella pastorale. Invece è importante tenerla presente nella pastorale vocazionale, proprio seguendo la strategia educativa del Pontefice, perché è un’urgenza culturale, anzi è un’esigenza della civiltà.

L’essere umano è dono e compito: si realizza attivando i doni di natura e di grazia, non per puro impulso, per scelte emotive e sentimentali. Nello svolgimento di questo compito la donna è chiamata a mettere in circolazione la sua peculiare psico-storia, il suo dono.

La comunità cristiana può offrire un singolare contributo nel favorire e promuovere la realizzazione di questo compito. In questa direzione è stata incoraggiata da Giovanni XXIII che in modo autorevole l’ha richiamata a riconoscere e apprezzare le nuove aspirazioni delle donne, avviando un “nuovo femminismo cristiano”. Il Concilio Vaticano II ha colto l’istanza e l’ha tenuta presente in diverse circostanze, specie in occasione dei dibattiti su Gaudium et spes, Apostolicam actuositatem, Ad gentes, e nel Messaggio finale. Il post-concilio attraverso i sinodi ha ripreso il discorso con la volontà di approfondirlo. Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno offerto una tematizzazione articolata e profonda che costituisce un patrimonio per l’umanità intera.

Un rilievo particolare è stato dato alla vita religiosa femminile. Non è senza significato il fatto che Paolo VI ha annunciato la presenza delle donne come uditrici al Concilio proprio parlando alle religiose l’8 settembre del 1964. Il documento Mutuae relationes al n. 49 parla delle religiose e del loro contributo alla missione della Chiesa attraverso il loro peculiare radicalismo evangelico. La Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche nel Documento del 1992 vi dedica i nn. 81 e 82, mentre il Documento del 1997 parla delle donne in 15 passaggi, sebbene i riferimenti più pertinenti siano limitati ai nn. 18, 23, 29 e 34. Un altro luogo significativo è il Sinodo sulla Vita Consacrata a partire dai Lineamenta n. 19a,d, dall’Instrumentum laboris ai nn. 3, 20, 88, fino al documento finale Vita Consecrata nn. 57 e 58.

Forse non è senza significato nemmeno il fatto che l’espressione “genio femminile” sia riferita a Teresa di Lisieux nella lettera di Giovanni Paolo II Divini amoris scientia 11 ove si evidenzia l’attualità del suo itinerario vocazionale. Sono alcune fonti che sarebbe interessante riportare e “glossare”. Non è questo il luogo. Del resto sono testi a tutti abbastanza noti.

Riporto un piccolo brano di Vita Consecrata: “Le donne consacrate sono chiamate in modo tutto speciale ad essere, attraverso la loro dedizione vissuta in pienezza e con gioia, ‘un segno della tenerezza di Dio verso il genere umano’ ed una testimonianza particolare del mistero della Chiesa che è vergine, sposa e madre […]. La donna consacrata, a partire dalla sua esperienza di Chiesa e di donna nella Chiesa, può contribuire ad eliminare certe visioni unilaterali, che non manifestano il pieno riconoscimento della sua dignità, del suo apporto specifico alla vita e all’azione pastorale e missionaria della Chiesa. Per questo è legittimo che la donna consacrata aspiri a veder riconosciuta più chiaramente la sua identità, la sua capacità, la sua missione, la sua responsabilità sia nella coscienza ecclesiale che nella vita quotidiana. Anche il futuro della nuova evangelizzazione, come del resto di tutte le altre forme di azione missionaria, è impensabile senza un rinnovato contributo delle donne, specialmente delle donne consacrate”[4].

Un rammarico: sovente questo messaggio “al femminile” non è assunto dalla comunità cristiana, viene ritenuto un discorso fatto per le donne, quindi riservato a loro, oppure è ricordato in certe occasioni “celebrative”, ad esempio l’8 marzo. La Mulieris dignitatem è rimasta, nonostante l’attenzione della CEI, una lettera per le donne[5].

 

Perché la diminuzione delle vocazioni femminili è così alta?

Un fatto: le statistiche segnalano la flessione numerica delle religiose in Italia, ma il dato va interpretato e forse in questa direzione non è sufficiente l’analisi sociologica. In altra occasione ho rilevato che il calo numerico delle suore nel nostro Paese coincide con circostanze che non parlano di sconfitta: corrisponde al periodo di rinnovamento della vita religiosa inaugurato dal concilio, all’innalzamento culturale e professionale delle religiose, ad un più ricco e significativo scambio e comunicazione tra le Congregazioni femminili, grazie all’USMI, e, paradossalmente nonostante la diminuzione è sempre più consistente la presenza delle suore nei luoghi della marginalità e alle nuove frontiere della solidarietà.

La prof.ssa Dora Castenetto nel suo studio già citato ha delineato il contesto con molta precisione e oculatezza, proponendo dei giudizi prudenziali che è opportuno tener presenti perché equilibrano le valutazioni. Mi pongo su questa scia per condividere qualche considerazione. Dora ha insistito sull’ambiguità dei fatti e sulle molteplici letture di essi e ha spinto verso ermeneutiche “teologali” e “teologiche”. In questo senso mi chiedo: sono poche le donne consacrate in Italia? Rispetto a che cosa? Quante dovrebbero essere? 

Sappiamo che David ha fatto un censimento, ma la cosa non fu gradita agli occhi di Dio (2Sam 24). Certo siamo diminuite numericamente e anche l’ingresso delle giovani nelle nostre comunità è diminuito in maniera più che esponenziale. Pure la situazione non è uniforme e va precisata per contesti e per esperienze spirituali. Vi sono istituti e monasteri che sono in buona salute, emergono nuove proposte e stili di vita, esistono vari percorsi vocazionali.

Vi sono, certo, pure fattori di disturbo nel contesto socio-culturale odierno, nella comunità cristiana, nella crescita delle persone, nella propositività delle comunità educative e nell’autorevolezza degli educatori e delle educatrici. È carente la presenza di persone adulte sia in ambito familiare e sociale, sia in ambito ecclesiale e all’interno degli istituti femminili di vita consacrata. È carente pure l’accompagnamento attuato con sistematicità, è debole la fedeltà nelle scelte orientate alle mete ideali, è minoritaria la cultura della vita come vocazione.

Dobbiamo pure avere il coraggio di riconoscere che anche nella comunità cristiana continuano a circolare stereotipi sulle suore e sulle donne consacrate. Le rappresentazioni simboliche che si mediano non sono spesso esaltanti[6]. Non raramente barzellette e battute ironiche continuano a comunicare immagini interiorizzanti il mondo religioso femminile. Parlando con alcune novizie mi sono resa conto che dissentono dai quadri negativi che si tracciano sulle suore, ma loro stesse sovente hanno dovuto lottare per la loro vocazione proprio perché non valorizzata a livello socio-culturale e socio-religioso. Non è così per i seminaristi.

Allora come interpretare l’interrogativo? Interrogarci sulla flessione numerica è utile solo se serve a farci risvegliare nella passione vocazionale e nelle responsabilità per le nuove generazioni. Bisogna vigilare perché non alimenti il pessimismo o il trionfalismo. La vocazione è un dono del Signore alla sua Chiesa. La carenza non può condurci a domandare: “Chi ha peccato lui o i suoi genitori, per essere nato cieco?”. E le coppie che non riescono ad avere figli quale colpa hanno? E se la denatalità fosse l’occasione per liberare il mondo borghese dal consumismo? La povertà è una grazia o una disgrazia?

La lamentata mancanza di vocazioni in Italia è una grazia o una disgrazia? È solo disgrazia? E se fosse pure una grazia da dover scorgere e valorizzare? Se il Signore ci volesse impoverire per convertirci? E se fosse un appello a condividere più profondamente i doni e a farli circolare al di là degli istituti di appartenenza? Se fosse, cioè, un passo ulteriore rispetto al cammino inaugurato con l’USMI verso una comunione anche nelle risorse umane e nelle opere? Sappiamo che la risposta non è univoca e forse non spetta a noi rispondere.

Giancarlo Rocca[7] ha sottolineato che dalla fine del Settecento e in tutto l’Ottocento l’Italia è stato un vivaio di vocazioni, di fondazioni di nuove congregazioni, di numerose spedizioni missionarie. Ha segnalato pure i movimenti oscillatori tra ingresso nei monasteri e fondazioni nuove; ha individuato differenti distribuzioni tra Nord e Sud. Nella variegata situazione emergono pure delle convergenze nel radicalismo evangelico e nel bisogno di servire per amore di Cristo soprattutto le classi povere. Ha rilevato uno spostamento tra monastero e nuove fondazioni o congregazioni moderne dentro processi presenti in maniera non uniforme sul territorio italiano. Forse le sue annotazioni potrebbero aiutarci a leggere con più pertinenza la situazione attuale. L’Italia ha inviato tante missionarie nel mondo, in un certo senso esse hanno collegato genealogie femminili appartenenti a diverse culture e tradizioni.

E se il Signore volesse farci il dono dell’umiltà, chiedendoci di accettare di essere evangelizzate dai popoli che da noi hanno ricevuto il Vangelo? Se fosse il dono della piccolezza, il luogo in cui sperimentare la nostra precarietà, la nostra radicale contingenza? La Chiesa primitiva non è stata gelosa di Stefano che ha raggiunto la maturità nel martirio prima degli Apostoli. Veneriamo i santi martiri innocenti che senza conoscere Gesù lo hanno testimoniato. È il mistero della storia, della vita umana, della storia della salvezza. È il mistero dell’Israele di Dio di cui parla Paolo. La scelta di Dio ha altre logiche. I fondatori e le fondatrici l’hanno capito e non hanno temuto di operare nella radicale precarietà, ma con ardente passione evangelica.

Il 3 maggio del 1936 Pio XI beatificava suor Maria Domenica Mazzarello e offriva considerazioni che vanno in questo senso. “C’è qualcosa di grande in una vita che si svolge e si esplica sotto lo sguardo e la guida di tale Madre [di Maria…]. La grande Serva di Dio si presenta con tutti i caratteri […] della più umile semplicità […]. Una grande umiltà la sua: si direbbe proprio una piena coscienza, e il continuo pratico ricordo dell’umile sua origine, dell’umile sua condizione, dell’umile suo lavoro. Contadinella, piccola sarta di paese, di umile formazione ed educazione […]. La sua umiltà! Fu così grande, da invitare noi a domandarci che cosa vede Iddio benedetto in un’anima umile, veramente, profondamente umile, che, appunto per l’umiltà, tanto, si direbbe, Lo seduce, e Gli fa fare fino alle più alte meraviglie in favore di quella stessa anima e altre meraviglie per mezzo di essa […]. Quello che Dio vede nell’umiltà, le vedute di Dio circa l’umiltà sono perfettamente all’opposto di quanto vede il mondo. Che cosa dunque vede Iddio? Vede nell’umiltà, nell’anima umile una luce, una forma, una delineazione dinanzi alla quale Egli non può resistere, poiché Gli raffigura, nella sua bellezza più sapiente e nelle sue linee più fondamentali e costruttive, la fisionomia stessa del diletto Suo Figlio Unigenito. Ed è questo un pensiero espresso dallo stesso Divino Maestro. È Lui stesso che dice, a questo proposito: ‘Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore’. Veramente noi non riterremo mai abbastanza ciò che dicono queste poche parole: ‘Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore’. È il Maestro Divino, portatore del Verbo di Dio, portatore di tutti i tesori di Sapienza, di Scienza, di Santità, che ci dice: ‘Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore’, come se non avesse altro da insegnare a noi, a questi poveri uomini, a questa povera umanità che aveva perduto anche le tracce della verità, anche il filo per rintracciarla e che aveva tutto, tutto da imparare. Viene dal Signore detto ad essa, vien detto a tutti gli uomini: ‘Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore’, come se non avessimo altro da imparare, come se, questo imparato, fosse da noi appreso tutto quello che ci abbisogna per la ricostruzione delle anime, per la ricostruzione morale del mondo […]. E di Maria altresì Ella ci ricorda e ci ripete la somma lezione di umiltà, giacché la Madre di Dio esclamava doversi la Sua elezione e gloria alla umiltà: Respexit humilitatem ancillae suae. La Madre di Dio si chiama la serva, l’ancella di Dio; e quindi, ex hoc beatam me dicent omnes generationes. È bello considerare la Venerabile Maria Domenica Mazzarello in questa luce, nella luce stessa di Maria. Anche Ella può ripetere: ‘Il Signore ha guardato con infinita benignità la mia umiltà, la mia semplicità e per questo: Beatam me dicent omnes generationes’”[8].

Personalmente amo questi criteri ermeneutici. Capisco che non sono i soli, ma forse potrebbero aiutarci a vivere più radicalmente il Vangelo per testimoniarlo nella gioia.

 

Qual è l’influenza della cultura femminile contemporanea sulle giovani?

Negli anni ’80, parallelamente alla cultura della differenza, in seguito alla contestazione, vi è stato un tentativo di elaborazione culturale che ha spinto a mettere in crisi precomprensioni, mentalità, concettualizzazioni e ricerche alla luce delle istanze e prospettive del pensiero femminile. L’ingresso delle donne nella storia come nuovo soggetto storico collettivo si è tradotto nell’ingresso di un nuovo soggetto epistemologico. Gli ambiti di incidenza sono stati molteplici anche in campo ecclesiale ove l’accesso delle donne alle Facoltà teologiche ha favorito il rinnovamento nella ricerca teologica nelle sue molteplici articolazioni. Certo non è stato il solo fattore e forse nemmeno il più determinante.

In realtà in Italia la cultura elaborata dal punto di vista delle donne, o al femminile, ha sfiorato appena la realtà ecclesiale e sociale. Sembra un paradosso. Eppure, nonostante gli apporti del Magistero e le ricerche teologiche significative, sono stati pochi gli uomini di cultura che hanno intrapreso un cammino di ricerca nella reciprocità effettiva, non solo auspicata; sono state relativamente poche le giovani che all’università hanno scelto di svolgere una ricerca su tematiche femminili.

Persino nella prima generazione di studiose è emersa la domanda: è proprio utile parlare di scienza al femminile, di teologia al femminile? Non si rischia di legittimare così la distrazione degli uomini in quanto involontariamente diciamo che spetta alle donne indagare questo campo? Non si afferma così che il femminile non riguarda il genere umano? Così, se negli anni ’80 si cercava la specificità epistemica delle donne, negli anni ’90 questo terreno è stato abbandonato proprio per non cadere nella trappola: essendo una specificità estranea agli uomini, essi sono esonerati dal farsene carico e sono legittimati a ignorarla, a non capirla. Un segnale che fa riflettere: negli anni ’70 e ’80 vi era molta attenzione al linguaggio; si cercava di usare un linguaggio inclusivo, non si usava il maschile per dire anche il femminile. Oggi questa sensibilità si è attenuata anche tra le donne. Il Papa è tra i pochi che parla con delicata vigilanza linguistica.

Se andiamo ai contenuti e ai valori, sono stati segnalati alcuni tratti che qualificherebbero l’autocoscienza femminile, al di là della questione teoretica del rapporto natura-cultura. Gioia Longo De Cristofaro, ad esempio, individua alcune tendenze femminili: l’elaborazione personale e collettiva di orientamenti non più volti a denunciare discriminazione e carenze, limiti e disfunzioni sociali, inferiorizzazioni e rimozioni dei valori femminili nell’invisibilità; l’attenzione a formulare teoreticamente e praticamente un nuovo codice culturale ove si rifiuta l’omologazione, l’ottica egocentrica e individualistica; il riferimento a contenuti che richiamano il diritto-responsabilità, la libertà-autodeterminazione, il rispetto e la giustizia, la gratuità e la reciprocità; le donne sarebbero animate da alta spinta ideale, disponibili a riconoscere e accettare i limiti e vissuti propri e altrui con serenità e ironia; rifiuterebbero ogni orientamento fatalistico nel gestire la propria vita offrendo il proprio contributo nella costruzione della storia; mostrerebbero grande capacità di riflessione e volontà di operare a favore delle nuove generazioni; nel campo della sessualità sarebbero orientate a gerarchizzare i desideri per la maternità non come destino, ma come responsabilità, valorizzando il mondo degli affetti e dei sentimenti ed evidenziando la dimensione etica della ricerca scientifica e della cultura; ricercherebbero relazioni propositive e sarebbero impegnate nella costruzione di una cittadinanza attiva[9].

È un quadro ideale che si pone come l’utopia, cioè come un non ancora realizzabile. Se confrontiamo questi tratti con l’oggi non mancano interrogativi e preoccupazioni. Un punto di partenza potrebbero essere le aree problematiche presenti nella Piattaforma discussa a Pechino alla IV Conferenza mondiale ONU nel 1995: povertà, istruzione e formazione, salute, violenza, conflitti armati, progettazione e gestione dell’economia, rapporto donne e potere, meccanismi di promozione delle donne, i diritti umani, le donne e i media, l’ambiente e lo sviluppo, la condizione femminile infantile.

Queste aree problematiche persistono talvolta aggravate. Sarebbe interessante pure verificare le strategie di empowerment, mainstreaming, networking perché anche in questa direzione vi sono delusioni. Le politiche demografiche e l’aspirazione alla felicità intesa come soddisfazione dei desideri dissociando sessualità e fecondità, ricercando la fecondità senza il partner, mettendo in atto forme di sperimentalismo arbitrie nel definire la propria identità sessuale, sono state proposte come mete ideali di libertà femminile, ma sono risultate delle trappole in cui si sono annidate delusioni e amarezze.

Varie femministe del ’68 oggi fanno dei bilanci e con sincerità registrano di aver perso le cose più belle della vita: il partner, i figli, la famiglia. Si raccolgono pure tanti ripensamenti sulle politiche divorziste e abortiste, come pure sulle pratiche lesbiche. I mezzi di comunicazione spesso non danno spazio a queste considerazioni e continuano a diffondere messaggi a senso unico. Forse vi sono troppi interessi di multinazionali che ostacolano l’emergere di queste verità.

In alcuni casi si nota la crisi della vita in cui la carriera ha preso il posto della vocazione: il senso di vuoto e di incompletezza, ma anche il senso di stress non rende felice l’esistenza né la rende attraente per le nuove generazioni. Queste ultime sono la generazione del sorpasso, quindi di fronte alle battaglie del femminismo dei diritti si sentono abbastanza lontane, anzi “consumano” i diritti conquistati. Tuttavia, nonostante il sorpasso, è la prima generazione che avverte di avere poche opportunità lavorative.

Mi domando: queste generazioni dove possono attingere il senso della vita come vocazione? Le donne “riuscite” quale immagine di sé comunicano? Le donne consacrate hanno una parola nuova rispetto alla crisi del femminismo IV fase per andare nella V fase?[10].

Esiste una distanza tra la mia generazione e il mondo giovanile femminile attuale. Era già presente agli inizi degli anni ’90. Esiste pure una distanza che si sta approfondendo tra le diverse anime del femminismo. Emerge dalle discussioni, talvolta semplificatorie, sulle dodici aree problematiche considerate a Pechino e in alcune proposte di emancipazione e rischiano di essere un sintomo di regressione verso l’omologazione non al maschile, ma al neutro, strumentalizzando in maniera ancora più sofisticata le donne nel loro corpo e nelle loro aspirazioni all’amore, puntando proprio sui soggetti deboli. Le grandi aspirazioni emergenti dal mondo femminile rischiano progressivamente di cedere il passo a forme liberiste di minoranze che oscurano i cammini propositivi di tante donne. La Chiesa è interpellata a farsi carico dell’umano.

 

Le proposte vocazionali attuali non sono adeguate al “genio” femminile?

“Uno dei mali di oggi è la dilagante frivolità nella devozione”[11], dice E. Stein. C’è bisogno di profondità. E. Stein, come tante donne credenti del ’900, propone come risposta la scienza della croce. Simone Weil riflette: “Dio e l’umanità sono come un amante e un’amante che si sono sbagliati circa il luogo dell’appuntamento. Ciascuno è lì prima dell’ora, ma sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano. Lui è in piedi immobile, inchiodato al posto per la perennità dei tempi. Lei è distratta e impaziente. Sventurata se ne ha abbastanza e se ne va! Perché i due punti in cui si trovano sono lo stesso punto nella quarta dimensione. La crocifissione del Cristo è l’immagine di questa fissità di Dio. Dio è l’attenzione senza distrazione. Bisogna imitare l’attesa e l’umiltà di Dio”[12].

Siamo condotte a stare nella fissità di Dio che ha pure sempre le braccia aperte, come totale accoglienza, per permettere che Egli faccia risplendere la sua gloria su di noi. L’Eucaristia è il memoriale di questo mistero di amore ove il Signore ci dona la sua interpersonalità. Dire Eucaristia è dire Maria.

 Nell’esperienza eucaristica e mariana maturano le proposte vocazionali e si elaborano gli itinerari, perché è il Signore che chiama ed è il suo amore riversato nei nostri cuori che rende possibile la risposta, che apre gli occhi sul cammino da fare. La Chiesa nasce nel suo essere e nella sua missione dall’Eucaristia. A partire dal Memoriale ove Gesù norma la mia storia con la sua posso scorgere e scandire il mio itinerario vocazionale e testimoniarlo. È necessaria la testimonianza, una teologia narrante, profili biografici di donne appassionate di Gesù che mettano in moto la strategia pastorale dell’evangelista Giovanni: “Abbiamo trovato il Messia”.

“La testimonianza e le opere di donne cristiane hanno avuto significativa incidenza sulla vita della Chiesa, come anche su quella della società. Anche in presenza di gravi discriminazioni sociali le donne sante hanno agito in ‘modo libero’, fortificate dalla loro unione con Cristo. Una simile unione e libertà radicata in Dio spiegano, ad esempio, la grande opera di Santa Caterina da Siena nella vita della Chiesa e di Santa Teresa di Gesù in quella monastica. Anche ai nostri giorni la Chiesa non cessa di arricchirsi della testimonianza delle numerose donne che realizzano la loro vocazione alla santità. Le donne sante sono un’incarnazione dell’ideale femminile, ma sono anche un modello per tutti i cristiani, un modello di sequela Christi, un esempio di come la Sposa deve rispondere con l’amore all’amore dello Sposo” (Mulieris dignitatem 28).

È adeguata la nostra pastorale? Non so. Non so nemmeno se questo è il problema più importante. Forse dovremmo riscoprire la pedagogia dell’Eucaristia e dell’affidamento a Maria, la Madre. Qui è l’humus dell’umanesimo integrale, qui il luogo di nascita di personalità di uomini e di donne ardenti nella testimonianza di Gesù e nel servizio al prossimo. Forse le donne consacrate hanno un compito da svolgere in questa direzione.

“Nella svolta culturale a favore della vita le donne hanno uno spazio di pensiero e di azione singolare e forse determinante: tocca a loro farsi promotrici di un ‘nuovo femminismo’ che, senza cedere alla tentazione di rincorrere modelli ‘maschilisti’, sappia riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di sfruttamento”[13].

 

 

 

Note

[1] Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice, pp. 293-295.

[2] GIOVANNI PAOLO II, Novo Millennio Ineunte 58 (NMI).

[3] Mulieris dignitatem 30-31; Lettera alle donne 9-11; Divini amoris scientia 11.

[4] VC 57, cfr. 58; cfr. Donne educatrici di pace, Lettera alle donne, Christifideles laici 39-51.

[5] Cfr. ROSANNA E. – CHIAIA M. (a cura di), Le donne per una cultura della vita. Rilettura della Mulieris dignitatem a cinque anni dalla sua pubblicazione, Roma, LAS 1994.

[6] Cfr. AA.VV., Una strada diversa. Giovani religiosi per il III millennio, Roma, Il Calamo 2000. 

[7] Cfr. Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Roma, Paoline 1993.

[8] PIO XI, Discorsi, III, Torino, SEI 1961, 480-484.

[9] DE CRISTOFORO LONGO G., Codice Madre. Orientamenti, sentimenti e valori nella nuova cultura della maternità, Roma, Armando 1992; ID., Identità e cultura. Per un’antropologia della reciprocità, Roma, Studium 1993.

[10] Cfr. FARINA M., Femminismo quinta fase? Una profezia e un compito con le nuove generazioni, in “Rassegna di Teologia” 42 (2001) 691-709.

[11] STEIN E., Scientia crucis. Studio su Giovanni della Croce, Milano, Ancora 1960, 36s.

[12] WEIL S., Quaderni, volume IV, Milano, Adelphi 1993, 178.

[13] Evangelium vitae 99; cfr. Donne educatrici di pace (messaggio per la Giornata della Pace, il 1 gennaio 1995).

 

 

 

Termina qui la relazione di Suor Marcella Farina. Al suo intervento ha fatto seguito una serie di risonanze e di interrogativi da parte dei membri del Consiglio Nazionale, del Gruppo Redazionale e degli ospiti invitati per l’occasione. Al termine Suor Marcella ha risposto e concluso. Vengono qui di seguito riportati tali interventi ricavati da registrazione e non rivisti dagli intervenuti.

 

 

INTERVENTI

 

La vita consacrata è vista come realizzazione piena della vocazione all’amore?

Abbiamo tante donne qui presenti; probabilmente si ritroveranno nelle affermazioni di suor Marcella, forse si saranno anche loro sentite provocate… questo è il momento buono per far risuonare alcune riflessioni. Mi permetterei io di iniziare a fare una domanda a suor Marcella. 

Quello che stavi dicendo da ultimo mi sembrava molto interessante, perché questa rivolta a cui tu invitavi tutti noi mi sembra che dovrebbe spostarsi, se non vado errato, – però sarei contento che venisse fuori dalle donne che sono qui presenti – sulla percezione che si ha della vita consacrata come realizzazione piena della vocazione all’amore. È come se nel sentire, nel percepire le nostre vite consacrate, la sorgente non sempre è stata una piena maturazione di una vocazione all’amore, percepita in tutta la sua profondità, ma, ad un certo momento si è riconosciuta nella prospettiva della via verginale dell’amore, come un’eunuchìa, cioè un’incapacità di poter immaginare sé in una storia d’amore che fosse diversa da quella. Lui è diventato il tuo tutto, la ragione della tua vita, il tuo sposo. Il Papa nella Vita Consecrata su questo è molto chiaro: parla di coniugalità, di sponsalità e parla di quella fecondità materna, e per noi paterna nella Pastores dabo vobis, che ci fa sentire che non siamo donne nubili e uomini celibi, ma siamo uomini e donne sposati. È come se nell’immagine che la ragazza percepisce oggi della vita consacrata ci sia comunque un “meno” d’amore. Noi abbiamo mille motivi per giustificarlo: noi diremo che quello è l’amore vero, quello che si sacrifica, quello che si dona… Ma lo contestano nell’amore dei loro genitori il “non vedere l’amore”, figuriamoci se non lo contestano a noi. Allora, la domanda che io mi pongo è questa: non sarà che nella comunità cristiana si parla troppo poco dell’unica e vera vocazione dell’uomo e della donna, che è l’amore? E che non si riesce con gran facilità a far vedere come la vocazione all’amore che prende la via verginale è tutt’altro che una rinuncia all’amore? Basterebbe (come giustamente hai detto tu alla fine) pensare a Maria che realizza contemporaneamente l’esperienza della coniugalità, della verginità, della maternità, perché è tutta di Dio e tutta dell’uomo, perché c’è in lei un sì detto a Dio, ma un sì detto anche all’uomo; pensate che atto di fiducia nell’uomo dice la Vergine nell’Annunciazione, mettendo a disposizione di Dio il suo grembo per generare un uomo, nel quale Dio genera suo Figlio.

Ho come l’impressione che qui ci sia un forte orizzonte da rivedere. E poi, se permetti, la questione numerica. Io sono d’accordo con te: non è una questione importante, se non in quanto essa stessa provocante. Perché se noi potessimo avere la certezza che le vocazioni consacrate del futuro il Signore ha deciso di farle fiorire altrove, staremmo tutti tranquilli. Ma io parto da un’altra considerazione: chi mi ha detto quante devono essere le giovani italiane chiamate alla vita consacrata? Io devo metterle tutte nella condizione di scegliere la via dell’amore che il Signore ha pensato per loro, che sia coniugale o che sia verginale, poi, poco importa. Perché la via coniugale pensata con la stessa intensità della vita verginale, comporta le stesse problematiche che tu hai riferito alla via verginale, perché sposarsi nel Signore è la stessa identica cosa che sposarLo nella vita consacrata. Quindi, da questo punto di vista, io credo che la pastorale vocazionale non si debba porre il problema dei numeri, come ha fatto giustamente osservare suor Marcella, perché è scavalcato questo problema, perché tutte le ragazze d’Italia devono essere messe nella condizione di scegliere la vocazione all’amore che il Signore ha pensato per loro.

 

Quali spazi per l’annuncio dell’identità e del genio femminile, al di là degli stereotipi per lo più “maschili”?

Voglio ringraziare Suor Marcella per le provocazioni che ci ha lanciato e sono concorde con lei nel rilevare che a livello generale ormai la vita consacrata femminile ha acquistato la consapevolezza del genio che le è proprio, che le è stato affidato e che può diventare una ricchezza per la società e per l’umanità.

Mi pare però di notare, invece, una carenza in quello che è l’annuncio della vocazione femminile o del genio femminile; ossia, mi pare che, a livello generale, non vi siano degli spazi, delle opportunità, delle iniziative attraverso le quali venga annunciata con chiarezza, in tutta la sua bellezza, quella che è la specificità femminile, il dono che è stato consegnato alle donne, alle giovani. Allora, quando una ragazza si trova a dover progettare la propria esistenza, molte volte, gran parte delle volte, si rifà a stereotipi maschili o per scelta o per costrizione. Faccio un esempio: una giovane romana che si è laureata un mese fa in Economia e Commercio a pieni voti, ha già trovato lavoro in una banca di Roma. La motivazione: “Perché tu hai l’animo maschile”, questo le è stato detto dal direttore della banca. E questa giovane, che sta facendo un percorso anche di riappropriazione della propria identità femminile, mi ha detto: “Io ho accettato questo incarico”, anche se è stata per lei quasi un’offesa questa dichiarazione, “l’ho accettato perché voglio dimostrare ai miei colleghi che sarò all’altezza di questo incarico proprio perché ho l’animo femminile”.

Però molte giovani, davanti ad una scelta, non riescono neanche a cogliere quella che è la specificità e la bellezza della propria identità. Questo credo sia una sfida che ci viene dal mondo delle giovani. Tra l’altro, nel Sinodo dei Giovani della Diocesi di Milano è emersa la domanda da parte delle ragazze di essere accompagnate da religiose, dunque da donne, nella riscoperta della propria identità e vocazione. Allora, se c’è questo presupposto, questa piattaforma, è possibile che la ragazza si possa riconoscere, possa sentire come propria la vocazione anche a una verginità consacrata; altrimenti, se manca questo presupposto, credo che sia difficile che una ragazza si possa anche solo pensare dentro questo progetto di vita.

Mi chiedo: non sarà possibile che nelle nostre Chiese, nelle nostre Diocesi, si possa pensare dentro la pastorale ordinaria dei cammini di formazione, di riappropriazione di questa identità, magari coinvolgendo consacrate presenti nel territorio, che possono offrire questo servizio, e quindi vivere una maternità spirituale specifica anche nei confronti delle ragazze?

 

Come veicolare nella realtà e nella cultura contemporanea un concetto di femminilità “pieno” e autentico?

Io condivido pienamente l’analisi che ha fatto suor Marcella, un’analisi molto serena e molto ottimista anche della realtà femminile. Mi viene però istintivo pensare a tutta quella fascia di donne che sono fuori da un discorso religioso e non posso non pensare che nella realtà e nella cultura contemporanea c’è comunque una crisi d’identità della donna. Allora io mi chiedo cosa si può fare per recuperare, cosa noi donne impegnate possiamo fare per recuperare quel concetto di femminilità più autentico? Perché soltanto se noi riusciremo a trasmettere il concetto di femminilità con tutte le sue sfaccettature di donna, di madre, di vergine, soltanto allora ritroveremo fortemente recuperata l’identità femminile. Ma io vedo che è fortemente in crisi questa identità; io lo vedo anche nell’approccio che io ho nel mondo, nelle realtà in cui vivo.

 

Non sarà che è latitante la testimonianza gioiosa di una pienezza di vita ricevuta e trafficata?

Anch’io sono d’accordo con suor Marcella sul fatto che la vocazione al femminile richiede un ripensamento su questo rapporto con l’Assoluto. Nella misura in cui recuperiamo questa ricchezza del dono che abbiamo ricevuto e sappiamo testimoniarlo con una vita gioiosa nella quotidianità. Se sappiamo essere davvero dei testimoni fedeli e gioiosi, entusiasti, perché sentiamo che la pienezza della vita, del dono che ci è stato donato, è stato trafficato in un dono, in una vita che è piena, questo è estremamente importante ed è ciò che i giovani che sono sulle piazze ci chiedono. Ci sono i giovani nelle piazze, ai quali forse non siamo sempre capaci di dar dei messaggi, qualche volta anche dei messaggi espliciti e non soltanto il chiamarli. È importante anche chiamarli, ma mi sembra, nell’esperienza che io ho di rapporto coi giovani (e che hanno anche le giovani del mio Istituto, e noi ne avviciniamo proprio tanti, nelle Parrocchie, nelle Diocesi…), mi sembra che i giovani chiedano soprattutto delle testimonianze, chiedano dei testimoni, leggano nella vita, nel modo con cui ci rapportiamo noi, quello che siamo, e credo che sia importante che nel mondo di oggi questa vocazione al femminile (o al maschile) sia recuperata; sia recuperata proprio come una pienezza di vita, che ci è stata donata ma che è anche trafficata. Credo che sia importante questo. 

Il discorso del numero, il fatto del calo numerico delle vocazioni: sono d’accordo anch’io che non deve scoraggiarci, però è un dato di fatto e dobbiamo anche guardare realisticamente questa realtà. E sono d’accordo sul prenderlo come un elemento sul quale interrogarci, perché credo che sia una “parola” che il Signore ci rivolge in questo anno 2002, in questi anni. Ce la rivolge per le vocazioni al femminile e forse anche per le vocazioni al maschile. L’importante è interrogarci, proprio come ci ha provocato suor Marcella, per dire che significato ha questa cosa. Forse dobbiamo fare un atto di umiltà, discendiamo dal piedistallo! Forse dobbiamo guardarci allo specchio e dire: che cosa proponiamo ai giovani? Che sono quelli che sono, non possiamo pensarli diversamente. I giovani che ci ritroviamo, sono quelli che incontriamo, che sono fatti così: sono quelli della GMG, ma sono anche quelli della metropolitana, sono quelli delle discoteche, o che so io… Noi dobbiamo proprio chiederci, forse con molta umiltà e con tanto spirito di preghiera e di riscoperta del nostro rapporto profondo con il Signore, chiederci che cosa il Signore ci vuol dire, che segno è questo calo, questa situazione. È un segno forse che dobbiamo inventare delle vocazioni al femminile per questo mondo, che forse saranno diverse da quelle che lo sono state fino ad oggi. Però in umiltà, non perché lo costruiamo noi, ma perché il Signore ci indica: ci deve indicare e noi umilmente dobbiamo accettare queste indicazioni su come proporre e su come dare loro opportunità di esprimere e di vivere questo dono. Perché ci sono, e ce lo chiedono. Ci chiedono di suonare, di cantare e di essere dei testimoni, di far loro delle proposte. Io sono ottimista su questa cosa perché dove ci sono e dove si danno degli “input”, le risposte ci sono, non è vero che il Signore non parla più e non ci dà più vocazioni.

 

Non stiamo dimenticando la forza e la generosità delle nostre ragazze?

Questa mattina padre Albanese ci diceva che la colpa è nostra; dopo don Luca diceva che l’espressione è un po’ forte, però comunque guardiamoci anche, guardiamo noi, partiamo anche da noi. Sulla scia della provocazione di questa mattina, a me verrebbe da chiedere anche qualche suggerimento, magari anche per riportare in Diocesi, alle comunità che conosco, qualche suggerimento anche più immediato di valutazione – sia negativo – cioè su atteggiamenti poco positivi delle religiose oggi davanti alle donne. Io credo che la donna oggi sia anche molto forte, personalmente la vedo anche carica di iniziative, di entusiasmo, di disponibilità. Le esperienze che faccio, per esempio i campi scuola, momenti di preghiera, esperienze missionarie, le prime che rispondono sono solo ragazze. A smuovere gli uomini io faccio una gran fatica, invece; li vedo più chiusi, più timorosi. Per convincere un ragazzo a fare un campo… mi dice: “Ma non so se sono adatto…” Vedo le ragazze con molte potenzialità; mi chiedo se la vita religiosa forse sta vivendo alcuni momenti … ha perso qualche colpo; e quali possono essere invece le potenzialità delle donne di oggi che possono essere sviluppate, che possono essere colte! Stiamo parlando della questione femminile, però secondo me c’è anche la questione maschile…

 

Si è forse persa la specificità e chiarezza dell’identità maschile e femminile, con una pericolosa regressione nell’indistinto?

Siccome sento molto questa ultima affermazione di Massimo, credo che il problema sia anche molto sul versante maschile, cioè io credo che è importantissimo rendere più chiare e sicure le identità femminile e maschile, come è stato detto, perché dove non c’è chiarezza d’identità, diceva prima Marcella, lì nascono dei problemi: problemi di relazione e tutto il seguito. Io trovo che spesso la donna è considerata o tutto o troppo o niente, difficilmente quello che è, difficilmente è considerata per quello che vale: una donna ha la sua specificità, a prescindere da chi è lei personalmente, la donna in sé. E siccome è stato detto e lo condivido molto, di questa regressione nell’indistinto, allora io credo che questo può peggiorare maggiormente la cosa, questo punto che ritengo tanto importante. Un’altra e ultima cosa: quando è stata nominata la dignità della donna, quando esce una lettera del genere e la si considera come una lettera per le donne e non per tutta la Chiesa… io personalmente direi che forse è soprattutto per gli uomini, perché la donna lo sa già, lo sa di più quello che è.

 

Il “caso serio” del calo numerico dei consacrati e specialmente delle consacrate: e se ce lo meritassimo?

La mia è forse più una provocazione alla provocazione. L’intervento di suor Marcella mi ha interessato molto. Non condivido, se va al di là di una provocazione, e quindi se è un tentativo di risposta oggettiva, l’intervento sul numero. Secondo me il fatto che ci siano meno consacrate e meno consacrati è un problema serio. Io non mi sono mai preoccupato di badare ai numeri di chi mi viene dietro, forse è anche per questo che mi hanno tolto dalla pastorale vocazionale, probabilmente… A parte questo, il fatto che i numeri siano almeno in certe zone effettivamente in calo, secondo me non è un fatto positivo, è un fatto che sicuramente ci deve far chiedere come mai; non lo leggerei come un dono di Dio, lo leggerei provocatoriamente chiedendomi se ce lo meritiamo di non averle! Il problema secondo me è oggi molto probabilmente questo: molte ragazze non sanno che cosa vuol dire essere donne ma neanche molti ragazzi sanno cosa vuol dire essere uomini, maschi. Il problema penso che sia veramente su tutti e due i versanti, per usare questo termine, per cui, all’atto pratico, posso trovarmi d’accordo con suor Marcella in questo senso: la Chiesa è meglio che abbia pochi testimoni, ma santi, piuttosto che avere un’accozzaglia di gente chiamata a fare un certo tipo di servizio, ma che poi, in fin dei conti, non testimonia quasi nulla. Quindi, meglio pochi ma buoni, il Signore salva il mondo lo stesso, meglio: se siamo tanti e scassati, il Signore fa molta più fatica. Quindi, in questo senso sono sicuro che la testimonianza è la nostra salvezza. Chiederei piuttosto, mettendo da parte momentaneamente la discussione sulla quantità, qualcosa sulla qualità: certamente il nostro problema è sulla qualità della chiamata e della formazione successiva… Il fatto del numero secondo me ci deve far veramente chiedere: che cosa diamo a questi giovani? E se noi stessi sappiamo di essere consacrato, io maschio, consacrata, tu donna.

 

Il “genio” femminile ancora tutto da pensare?

Volevo chiedere a suor Marcella se non pensa – è una riflessione non immediatamente di valenza vocazionale, sul genio femminile – se non pensa che il cosiddetto genio femminile non sia qualcosa che resta del tutto indeterminato, non attribuito precisamente. E anche quando viene attribuito all’etica della cura, alla custodia della vita, mi pare ancora molto poco. Io penso che il genio femminile sia ancora qualcosa tutto da pensare. In questo senso penso che la teologia femminista dovrebbe dialogare proficuamente con il pensiero della differenza. Perché secondo me il genio femminile è ancora l’impensato, inedito dal punto di vista umano e culturale, come portato culturale quindi. È un patrimonio di umanità che è ancora sottratto all’umanità, perché inesplorato. Perché quello che noi abbiamo chiamato il pensiero universale, era quello solo maschile, non riflettendo sul fatto che universale significa “uni-versus” (= rivolto in un senso solo), quindi quello solo maschile. Quindi secondo me questo genio femminile dovrebbe provocare la riflessione teologica a pensare l’impensato, quello che non è ancora mai stato pensato. Questa è una ricchezza ancora tutta da scoprire; anche noi stessi non sappiamo dove andremo a finire, come ricchezza di umanità, una volta che sarà portato alla ribalta della storia questo universo sconosciuto. Quindi penso che il genio femminile non ci deve tanto gratificare per il suono bello dell’espressione, quanto andare veramente in profondità, che secondo me è ancora appena scalfita.

 

Ha ancora significato la logica della rinuncia?

Volevo ringraziare suor Marcella per il contributo e rilanciarle un’affermazione per sapere cosa lei ne pensa dell’affermazione di monsignor Lanza: “I tre voti risultano incomprensibili – lui ha detto – perché interpretati attraverso la logica della rinuncia che è una logica che è estranea alla cultura odierna”. Quindi il rischio anche della insignificanza. Io questa cosa la sento molto vera. Mi piacerebbe se si riuscisse a riprenderla, a vedere come uscirne, perché è un aspetto che provoca sia la vita religiosa in quanto tale, sia la formazione, a livello terminologico di espressione, che chiaramente esprime un tipo di vita, ci sono dei valori fortissimi, ma se a livello comunicativo non riusciamo a dire le cose giuste nella maniera giusta, questo solco, questa lontananza tra le giovani generazioni e la vita religiosa, io sento che si allarga sempre di più. Credo che uno dei punti più urgenti, uno sforzo della vita religiosa femminile in Italia dovrebbe essere questo: ripensarla, la vita religiosa, che va mutando, va cambiando. Cominciamo ad essere attivi sul cosa fare.

 

Il posto delle donne…

Due piccole cose che sono già state evidenziate. La prima questione riguarda un’identità che diventa sempre più incerta. Mi sembra che questo divenga una questione importante anche di pastorale vocazionale, cioè riuscire a capire chi è il maschio e chi è la donna, e quindi anche la vocazione che è insita in questa realtà. E l’altra: la difficoltà di trovare realmente un posto da occupare quali donne. Tanti posti emergenti nella Chiesa sono già occupati. Io credo comunque che è la fatica di una religiosa, di una donna, di dire: “Bene, faccio lo sforzo di occupare quello che posso e qualcosa di più di quello che posso”. È una fatica il prepararsi, è una fatica dire qualcosa di significativo.

 

L’essere e lo starci

Sul discorso del posto, sono d’accordo che occorrono dei posti, però penso che si debba più ritrovare l’essere, perché la donna ha delle sfumature proprio di femminilità, ha un genio femminile, che forse è da mettere a fuoco, dal punto di vista anche teologico, come si è detto, ma ha delle modalità di esprimersi, di rendersi presente, anche, proprio come la Madonna, nell’assenza: ci si accorge quando non c’è! E credo che queste doti, che sono un po’ estranee al mondo di oggi, sono un po’ misconosciute, però quando ci sono, anche i giovani le vedono. Non so se ho dato l’idea… Una mamma si consuma… adesso non più, però le nostre mamme erano persone che sapevano, nel silenzio, nel nascondimento, nell’oscurità, essere comunque presenti, saper avere quella capacità di dare quel tocco… sono secondo me cose che vanno approfondite dal punto di vista teologico, forse per dirle molto meglio di come le sto dicendo io, ma che sono il valore del genio femminile, più che la posizione, il posto, la carriera, o altre cose. Credo che sia molto importante riscoprire questo e i giovani a questo sono sensibili.

 

Conclude suor Marcella

Un pensare interpellante

Il mettere la fine è sempre un vantaggio perché i compiti non conclusi restano più impressi e quindi poi si può continuare a pensare, a interrogarsi, appunto perché questa non è una questione per cui basta sentire una relazione, abbiamo capito… o no. Questa è una cosa da costruire e non abbiamo capito ancora la provocazione che ci viene dalla storia su questa questione. Per cui penso che sia anche opportuno, ed è proprio del pensare umano non essere conclusivo ma essere interpellante, spingersi a guardare un po’ oltre quello che abbiamo pensato fino adesso. Io raccolgo gli interventi – spero di poter rispondere un po’ a tutti – in alcuni nuclei fondamentali.

Percezione e stereotipi

Il primo nucleo è quello della percezione, perciò l’immagine di sé, la rappresentazione che c’è di questa esperienza femminile, e quindi anche delle vocazioni in calo numerico… Certamente la percezione della vita religiosa femminile emerge ancora fortemente carica di stereotipi, anche nelle ricerche ultime fatte sul campo in Italia, facilmente si pensa alla vita religiosa femminile in un certo senso tradizionale, ma non in senso positivo, nel senso di chiusa, arretrata ecc. Alcune volte anche i preti alimentano questo tipo di mentalità: stiamo molto attenti alle battute, alle barzellette, perché così si comunicano gli stereotipi, attraverso le vie informali, non attraverso le teorie filosofiche, perché con quelle uno si attrezza e le combatte, invece la barzelletta si assume. Secondo me davvero ci sono tantissimi stereotipi che vanno avanti. Anche se c’è un mondo femminile più consapevole, questo è il paradosso, anche nel mondo della vita religiosa. Forse in questo senso, fra le religiose davvero fare quell’opera di empowerment, di autorevolezza, di darci autorevolezza, però anche io direi agli uomini di Chiesa e ai cristiani di fare la profezia e di non rimuovere dall’invisibilità la problematica, la riflessione sul femminile e sul maschile, perché il mondo culturale di oggi a livello sociale, culturale, certamente non pone al centro se non in modo accademico questa problematica.

Antropologia uniduale

Se fino adesso la Mulieris dignitatem è stata una cosa “per le suore” e per le donne, forse davvero può diventare una piattaforma di riflessione sull’antropologia uniduale in quella chiave di meditazione, cioè a dire che è un percorso da rimeditare continuamente per diventare donne e uomini evangelici e non semplicemente che ripetono frasi del Vangelo, per cui l’esperienza di un pensare evangelico a livello di antropologia.

Il contesto culturale e il “pensiero della differenza”

Questa problematica poi si radica in un contesto culturale in cui il pensare simbolico non è coltivato a livello scientifico. Oggi c’è la predilezione dei saperi strumentali rispetto ai saperi dei significati e delle mete, delle finalità. Quindi troviamo anche un terreno abbastanza povero di elaborazione. Si diceva il pensiero della differenza, il dialogo per poter alimentare questa riflessione sul maschile e sul femminile e devo dire con molta sincerità che negli anni ’80 abbiamo fatto un bellissimo cammino di confronto tra donne appartenenti a diverse esperienze culturali e anche diverse esperienze confessionali, compreso donne non cristiane, atee ecc., e si faceva un certo cammino di condivisione: noi dicevamo che c’è il fenomeno del contagio degli ordini simbolici… A un certo punto, non so cosa è capitato, se davvero può diventare un elemento interrogante l’esperienza di Pechino, ho visto che questi percorsi di comunione e di convergenza si sono quasi interrotti come se non fosse più necessario condividere. E allora io mi sono fatta quest’altra domanda: forse sarà che il bisogno di specificare a livello teoretico che cosa significa essere donne, essere uomini, trovando lo specifico, ci ha fatto a un certo punto bloccare perché abbiamo capito che definire lo specifico femminile, dicendo: Significa questo, questo e questo…, rappresentava per noi costruire delle gabbie, di altro tipo, ma sempre gabbie. Non invece il senso della persona umana che si costruisce attraverso un patrimonio genetico, attraverso un patrimonio culturale, attraverso un’esperienza di libertà, di scelte… La paura di spingere la riflessione sullo specifico, cadendo nelle gabbie, ci ha fatto regredire dalla teorizzazione dello specifico. Può darsi che sia questo anche una difficoltà che abbiamo incontrato e che ci ha fatto poi andare ciascuno per conto proprio e facciamo fatica a collegarci, a condividere. Forse in questa direzione anche le correnti filosofiche che stanno alla base del femminismo, tipo lo strutturalismo contemporaneo, la psicologia analitica, dove per esempio l’essere donna è un elemento che si costruisce nel contesto, e quindi arbitrariamente, senza pensare all’esperienza del patrimonio genetico – c’è una teologia della creazione che manca! – anche questo è un vuoto fortissimo a livello teoretico. Certamente loro non ci chiedono una teologia della creazione, però questi problemi interpellano una teologia della creazione: non posso non considerare “la natura”, “la realtà”, l’universo con tutta la sua articolazione, per dire che io mi posso costruire la mia personalità a mio piacimento, secondo i contesti, per cui: adesso mi trovo qui e mi faccio un’identità di genere, per cui non dico più di sesso, sessuale, ma di genere, perché me lo costruisco con elementi della psico-storia maschile, femminile, della mia libertà, del mio arbitrio, della mia prevaricazione, del mio orgoglio, ecc. Penso che questa dimensione della percezione, della costruzione simbolica è un campo vastissimo ancora da prendere in considerazione, valorizzando i percorsi fatti, però avendo il coraggio di oltrepassare le barriere ideologiche che si stanno innalzando e forse in questo senso la Chiesa dovrebbe, potrebbe essere uno spazio di elaborazione. Ho visto la medesima problematica anche con le teologhe non cattoliche ad un incontro ecumenico: una delle teologhe valdesi mi diceva “Marcella, noi abbiamo il pastorato, però lo schema è maschile, voi non avete il pastorato, però voi avete una grande Chiesa in cui avete libertà, tante leggi avete voi, ma anche tanta libertà…” Me lo ha detto una donna teologa valdese!…Cioè a dire che loro stesse sono rimaste stupite di vedere questa grande nostra libertà: suore cattoliche che accolgono teologhe valdesi, luterane, calviniste, per dialogare. Forse davvero è una grande profezia che potrebbe fare la Chiesa cattolica in Italia, proprio dando questo spazio di riflessione.

Una proposta etica e spirituale

In questo senso anche la comunicazione con le giovani. Come è possibile far passare quest’esperienza di identità, con ragazze magari più problematiche, più interpellanti e meno sicure, però anche con la voglia di camminare verso la verità. Io quest’anno sto facendo un’esperienza abbastanza interessante di Facoltà – insegno Teologia Fondamentale – e quindi ho un campo abbastanza interessante anche per far riflettere sui problemi, e ho visto come sono rimasti molto sorpresi quando ho fatto la riflessione sull’intellectus fidei dicendo che l’intelligenza ha una dimensione etica, perciò dobbiamo coltivare la virtù dell’intelligenza e la santità della mente. Ho spinto moltissimo in questa direzione, di cercare la verità, e ho visto che anche loro sono stati molto sorpresi. Siccome chiedo a tutti, prima di fare gli esami, le loro sintesi del corso, ho visto che questa parte l’hanno molto articolata. Devo dire che li ha colpiti particolarmente. Un giorno ho detto anche a loro: dobbiamo dire la verità e dirci la verità. Certi disturbi della personalità non sono disturbi psicologici, ma sono disturbi morali, e dobbiamo guarirli con una proposta etica e spirituale. Io ho visto che loro hanno colto con molta serietà. Ho detto: guardate che questa non è una malattia della psiche ma una malattia dell’anima, proviamo a fare il cammino di guarigione di questa malattia. Mi sembra che le giovani generazioni hanno bisogno di persone che dicano loro davvero la verità, e non li illudano, strumentalizzandoli con delle proposte di basso prezzo, perché così sono più facili nel consenso.

Proposta di valori femminili anche per le non credenti

Qualcuno ha chiesto come offrire anche alle donne non credenti questa proposta di valori femminili. Sappiamo tutti che le donne non credenti quando devono tematizzare l’io femminile vanno ai grandi valori della mistica cristiana. Hanno preso il Magnificat come una specie di canto di vittoria della libertà femminile, per dire che non sono chiuse a questa possibilità di comunicazione dei valori che scaturiscono dall’esperienza biblico-cristiana. Del resto, Ernest Bloch… il suo principio dell’utopia è tutto costruito sul simbolismo biblico, l’uomo nuovo è l’uomo che si costruisce col simbolismo biblico… Non c’è un altro spazio più ricco di simboli, però certo forse a livello educativo siamo interpellati a coltivare questo sapere, questa intelligenza di tipo simbolico che la cultura non favorisce.

La questione numerica: dono o merito?

Certamente il fatto del calo del numero… io ho fatto apposta la provocazione perché… volevo provocare a dire… Anche perché, come salesiana, penso che la tristezza è madre della tiepidezza e se andiamo unicamente a dire le cose che non funzionano noi raccogliamo un cumulo di macerie da buttare nella spazzatura, e non raccogliamo le risorse da mettere in circolazione per costruire la storia. Questo lo faccio anche a Teologia. Dico: Quando facciamo le analisi dei teologi cerchiamo di vedere che cosa ci danno di positivo per farci pensare. Le cose che non funzionano, su cui non siamo d’accordo, certamente che ci sono, ma se dobbiamo impegnare la mente, cerchiamo di impegnarla in quelle cose che possono essere delle risorse. Lasciamoci interpellare, però partiamo, ce ne andiamo a lavorare, cerchiamo di vedere come gestire le risorse che abbiamo, non quelle che non abbiamo.

Io faccio molta fatica a pensare la vocazione come un merito. La vocazione è un dono di Dio, Dio la da dove vuole, quando vuole, può darsi che noi siamo colpevoli, però penso che il Signore costruisce la storia tutta sulla misericordia e non sulla punizione, quindi non credo che dobbiamo andare a vedere che cosa abbiamo sbagliato… la storia fatta, lasciamola perdere, andiamo avanti, vediamo cosa possiamo fare per il futuro.

In questa direzione forse ci possono aiutare le nostre giovani, perché come si dice a livello di ricerca scientifica, le giovani di oggi sono le giovani del sorpasso, a livello culturale, a livello di talenti, a livello di sicurezza, …però, attenzione!, sono anche le giovani che hanno meno opportunità storiche. È la prima generazione di giovani che hanno meno opportunità storiche di mettere in evidenza i loro talenti. Qui avremo una crisi nel mondo giovanile femminile che ci interpellerà. Grandissima esperienza professionale, fatta l’università, con voti elevati, con competenze linguistiche, poi ritornano nella loro famiglia e con delle delusioni incredibili. Proviamo a immaginare il rapporto tra altissime aspirazioni e pochissime possibilità di realizzazione storica: sarà l’altra crisi delle nuove generazioni che ci interpellerà.

La vita come vocazione

Sulla specificità femminile poi: l’etos dell’amore come esperienza di base, l’humus della maturazione delle vocazioni, perché appunto l’etos dell’amore è proprio il segno del nostro essere immagine di Dio. Dio è amore, quindi è ovvio che di qui parte ogni esperienza vocazionale, per cui si comprende come il legame con l’Assoluto, da cui ogni paternità in cielo e sulla terra prende nome, è fondamentale per poter capire le vocazioni umane, la vita come vocazione. Senz’altro la verginità è il luogo in cui anche si articola l’esperienza della vocazione matrimoniale. Sappiamo che anche nella comunità cristiana sono sorte le Equipes Notre Dame dove le coppie devono confrontarsi, come statuto, con una vocazione altra, sacerdotale oppure religiosa, per poter fare questo cammino, appunto perché le vocazioni maturano nel confronto a livello spirituale e non nella contrapposizione.

Il difficile linguaggio della rinuncia

La dimensione dei consigli evangelici. Può darsi che anche mons. Lanza abbia fatto apposta la provocazione sui voti che sono incomprensibili perché oggi sarebbe tutta una riflessione sulla valenza politica dei consigli evangelici. Certo, dialogando con le novizie, loro non sono affatto contente di sentir parlare di rinuncia. Quando ho detto: ma guardate che noi cresciamo dicendoci dei sì e dicendoci dei no… solo con i sì non cresciamo. Allora in questa direzione sembra che sia più sensibile il linguaggio della rinuncia.

L’antropologia uniduale

L’antropologia uniduale mi sembra di averla già sottolineata come esperienza da fondare nella comunità cristiana. Forse sarebbe interessante, anche per i religiosi, per i sacerdoti, leggere il libro di Rocca, Le religiose in Italia XVIII, XIX e XX secolo, perché ci fa vedere anche i flussi migratori delle vocazioni femminili. Per esempio nel Sud la vita monastica era in auge, nel Nord invece nuove congregazioni fiorivano e nel Sud non erano accettate. La tipologia anche geografica, la distribuzione geografica delle tipologie vocazionali. Perché fa riflettere sulla non uniformità della distribuzione, così come possiamo dire che anche attualmente si verifica. 

Non ho risposto puntualmente a ciascuno perché mi sembrava meglio fare questa riflessione così.

Sul genio femminile

Poi senz’altro il genio femminile, come diceva padre Luciano, è un’espressione che va pensata. Il Papa ne da tre contesti d’interpretazione, che sarebbe interessante andare a vedere: Mulieris dignitatem, paragrafi 30-31, poi c’è la Lettera alle donne, nel numero 2, mi pare, poi c’è Divini scientia amoris di suor … Teresa di Lisieux, dove ritorna il genio femminile. Sono contesti illuminanti per dare contenuto al genio femminile, in cui emerge che è l’esperienza dell’umanità.