N.05
Settembre/Ottobre 2002

Vocazione missionaria e vocazioni per la missione “ad gentes”

Vorrei rispondere al primo quesito (…?), forse per deformazione professionale, partendo dalla cronaca. È stata un’autentica provocazione, quella lanciata dal secondo Forum degli istituti missionari italiani, tenutosi dal 4 all’8 febbraio ad Ariccia. Dalle cinque intense giornate di riflessione, dibattito e condivisione è emersa chiara nei partecipanti la consapevolezza che o si cambia o si muore. Del resto, i numeri parlano chiaro. I missionari degli istituti “ad gentes” oggi presenti in Italia sono 2566. Ma di questi solo 155 sono totalmente impegnati nell’animazione. I capelli grigi stanno diventando un incubo per molti istituti: il 69% dei missionari e delle missionarie oggi in Italia ha più di 65 anni, mentre solo il 6,6% ha meno di 45 anni. Personalmente, ritengo che mai come oggi sia indispensabile un rinnovamento a 360 gradi. Senza il coraggio di “Prendere il largo insieme” (questo era il titolo del Forum) il rischio è che la presenza dei missionari e delle missionarie nel tessuto ecclesiale e culturale italiano divenga marginale se non del tutto irrilevante. Eppure mai come nell’attuale congiuntura si avverte il bisogno di testimoniare i valori che caratterizzano la missione “ad gentes”, paradigma di ogni forma di evangelizzazione, di cui peraltro gli istituti per vocazione sono chiamati ad essere araldi. Qualora gli istituiti non fossero in grado di rispondere, sarebbe un grave danno – in primis – rispetto alle grandi sfide del nostro tempo: l’esigenza di annunciare la Buona Novella all’inizio del terzo millennio e la globalizzazione della solidarietà. A mio avviso non si tratta di mettere in discussione la necessità della “consacrazione ad gentes”, quanto piuttosto di rivedere le forme attraverso cui essa è attualmente vissuta. In poche parole: se oggi vi sono poche vocazioni la colpa è nostra.

Eccoci dunque al secondo quesito: Cosa dobbiamo fare per far fronte all’attuale congiuntura? La parola d’ordine è una: “cambiare”. Non certo per inseguire mode o per esibirsi in spericolate operazioni di “maquillage”, bensì per tornare ad una fedeltà più trasparente e contagiosa al carisma missionario: ad gentes, ad extra, ad vitam che dir si voglia. Cambiare per diventare ciò che si è. In questa prospettiva, la priorità delle priorità sta nel recupero della vita spirituale intesa come “vita secondo lo Spirito”: si tratta in sostanza di coniugare preghiera e azione, contemplazione e missione sul campo. Solo così sarà possibile affermare il primato della Parola prima di qualsiasi iniziativa, sia essa di natura ecclesiale o cultural-politica. Inutile nasconderselo: in questi anni troppe volte ci si è preoccupati di formare la società civile senza dare sufficiente peso all’evangelizzazione che è l’anima del nostro agire come consacrati. E questo – tengo a precisarlo – vale sia per i singoli quanto per le comunità.

Un’altra delle piste interessanti da seguire è quella dei media e della cultura. Ad Ariccia i missionari si sono interrogati sugli obiettivi, la qualità e le risorse in campo nella comunicazione (a cominciare dalle riviste, ma non solo), scoprendo che è tempo di ragionare insieme in modo più stringente, per darsi un orizzonte di lavoro comune, un piano per gli anni a venire. Comunicare efficacemente, “far passare” messaggi, provocare l’opinione pubblica non è mai stata impresa semplice e oggi lo è ancor meno. Troppe le occasioni perse (e sarei pronto a sottoscriverlo a caratteri cubitali su qualsiasi manifesto). Comunichiamo spesso in maniera autoreferenziale e non efficace, usando linguaggi vetero-testamentari o infarciti di politichese. Di qui l’esigenza di investire persone e mezzi nella consapevolezza che viviamo nell’epoca digitale e non nel sacro romano impero.

Un altro aspetto è quello della sinergia tra le Chiese d’origine e gli istituti. Sono anni che si parla di pastorale vocazionale unitaria, ma troppe volte il “congregazionalismo” o “l’eccesso di diocesanità” hanno impedito che si operasse davvero “insieme” per il Regno. E la volontà di lavorare insieme ritengo che esiga anche un impegno nell’areopago della “Giustizia e della Pace”. Un impegno secondo i “segni dei tempi”, utile anche per veicolare il giudizio o le preoccupazioni del mondo missionario sulla globalizzazione e per sostenere le numerose campagne di sensibilizzazione in atto nelle nostre diocesi. L’importante è che il mondo missionario, legittimamente, geloso del suo carisma, si giochi in tutti gli spazi, autenticamente “missionari” che la pastorale offre.

 

Termina qui la relazione di P. Giulio Albanese. Al suo intervento ha fatto seguito una serie di risonanze e di interrogativi da parte dei membri del Consiglio Nazionale, del Gruppo Redazionale e degli Ospiti invitati per l’occasione. Al termine P. Giulio ha risposto e concluso. Vengono qui di seguito riportati tali interventi, ricavati da registrazione e non rivisti dagli intervenuti

 

 

INTERVENTI

Sul cambiamento

Tutti missionari, là dove il Signore vuole che siamo

Del Sinodo di Milano, cui ho partecipato come presidente della commissione “Diocesi ad gentes”, ricordo le obiezioni che venivano spesso dall’Assemblea sinodale sulla faccenda che siamo tutti missionari: il “tutti siamo missionari” – che è una scoperta profondamente vera – e soprattutto “cerchiamo di essere missionari là dove siamo”… la domanda che io ponevo in Assemblea è se là dove siamo ad evangelizzare è proprio là dove il Signore vuole che siamo. Perché questo allora apre l’ad gentes come fuori dalla propria cultura e fuori dalla propria nazione.

L’energia propria di cambiamento della conversione alla vocazione

Secondo elemento. Pensando alla tematica: questa vocazione dentro al cambiamento, io penso che venga per ispirazione dello Spirito dentro di noi o per altri canali, come Ambrogio, acclamato dalla folla… comunque la vocazione porta già in se stessa l’energia necessaria per ogni cambiamento. Allora il problema è: quale cambiamento, dentro i cambiamenti socio-culturali-ecclesiali in cui siamo? La mia vocazione ha un’energia propria, intrinseca, in quanto vocazione che mi viene da Dio, che mi porta a cambiare il mio modo di pensare, di vedere… si tratta di mettere insieme questi due grossi elementi: i cambiamenti esterni, socio-culturali, e il cambiamento intrinseco che la mia vocazione mi vuole produrre dentro, in quanto discepolo di Cristo, e quindi anche come chiamato. Nella conversione il chiamato trova il presupposto al cambiamento. Per conversione intendo la coscienza sviluppata e attualizzata del proprio carisma situato. Questo secondo me è la coscienza. Ora, nella mia coscienza, la conversione, intesa così, mi butta per aria, mi fa misurare con i cambiamenti e probabilmente mi fa trovare le strade anche per affrontarli.

Mancano itinerari educativi vocazionali

Terzo e ultimo punto. Si parla di crisi vocazionale… Io non mi sento di fare dei mea culpa, perché si tratta di fare delle analisi della situazione. Certo anche gli esami di coscienza, ma prima di quelli anche l’analisi realistica, concreta delle situazioni in cui siamo chiamati a vivere oggi. Ed è quello che stiamo facendo. Io credo, perciò, che la crisi vocazionale a volte può essere anche una crisi di proposta pedagogica. Se pensiamo ai giovani che abbiamo attorno, è proprio una crisi di proposta pedagogica ecclesiale, dove gli obiettivi sono sempre chiari ma manca l’itinerario educativo. Forse qui è il cambiamento che dobbiamo cercare, trovare, vedere. Gli itinerari vocazionali educativi, cioè i passi concreti da farsi affinché il grande obiettivo della vocazione, che può portare il cambiamento nella società e nella Chiesa, si attui.

La vocazione come orizzonte totale dell’evangelizzazione

Tre idee. Un respiro vocazionale è l’orizzonte totale dell’evangelizzazione. Credo che questo sia il luogo dentro il quale ogni e singola vocazione si sposta e si muove. Un orizzonte che sia totale, accompagnando la crescita in questi giovani, attenti alle cose che dicono e soprattutto a quelle che non dicono, in ordine alla vocazione.

Uno sguardo contemplativo

Il secondo elemento è quello di far crescere uno sguardo nuovo, degli occhi puliti, nel vedere le cose che accadono. Uno sguardo contemplativo vuol dire che cerchiamo di fermare nell’intimità con il Signore (dunque la Parola, dunque la piccola comunità) le cose che accadono. È la vasca di risonanza dove le cose che accadono vengono viste, lette e prese in mano. In questa maniera forse si abbandona anche la cultura cosiddetta della funzionalità, cercando delle sorgenti un pochino più profonde, del senso della mia vocazione e del che cosa implica questa vocazione.

Necessità di far vivere responsabilità sociali ed ecclesiali

E per ultimo credo che sia anche necessario far vivere ai giovani delle responsabilità sociali ed ecclesiali vere. Ciascuno poi dovrà trovare forse il modo dove questo accade; è soltanto attraverso delle responsabilità comunitarie, sociali, ecclesiali vere che la gente attua, sente e fa vivere dentro di sé il carisma che ha ricevuto.

 

Impegno pastorale degli istituti missionari

La crisi degli istituti missionari è dovuta anche al fatto che ormai lo sviluppo delle “teologie continentali, locali” in Africa e in Asia, dice: come fanno quelli che vengono dall’Europa ad avere la capacità (di capire e affrontare il nostro contesto)? e – praticamente -: lasciate fare a noi! (detto brutalmente). Che tipo di risposta si può dare, che cerchi di conciliare, che cerchi di arricchire e non di distruggersi reciprocamente?

Seconda domanda. Gli istituti missionari nei confronti della pastorale. Lei molto seccamente dice, proprio in confronto alla Redentoris missio, ci sono tre categorie… la pastorale, quella centrale, che in effetti teoricamente da noi dovrebbe essere la maggiore – e sicuramente lo è anche – però di fatto non tiene conto che poi la maggior parte dei bisogni sono di stile missionario. Io domando: voi istituti missionari, di fronte ad una pastorale italiana bene o male congegnata, che cosa articolereste per fare in modo di essere presenti anche voi per una trasformazione in senso missionario di quello che è ancora in larga misura la pastorale?

 

L’importanza dell’inculturazione

La sottolineatura della colpevolizzazione credo che porti a risultati molto negativi, che sono il reclutamento, lo scoraggiamento. Invece, ritengo che gli stimoli che vengono dalla relazione di don Lanza siano importanti, ci aiutino a riprendere quelle che sono le radici delle motivazioni che sono dietro ad una scarsità di proposta e soprattutto di risposta. Vorrei evidenziare l’importanza della sottolineatura dell’inculturazione, che presuppone una capacità di lettura di questo territorio che cambia. Anche all’interno dell’intervento di don Lanza trovo però una discrepanza: gli istituiti religiosi devono avere una formazione non per tutte le stagioni e per tutti i territori (essere contemporaneamente, quindi, legati e slegati dalla Chiesa locale) e questa evanescenza di proposte della Chiesa universale… Secondo me è molto difficile questo, proprio perché se io mi devo inculturare e devo essere formata “per” questa realtà, non posso… E quindi quello che mi sembrava – nella relazione di don Lanza – una provocazione positiva per la formazione degli istituti religiosi, al termine della sua relazione è ritornata in una posizione che è quella scontata e che diamo sempre, cioè la specificità di tutte queste cose, che non risolve assolutamente il problema, secondo me, ed è analogo a quello della missionarietà specifica, o della missionarietà che è tale perché siamo battezzati. Quindi secondo me c’è dietro anche un problema teologico, che non è semplicemente volontaristico e diventiamo più buoni, siamo più convinti della nostra vocazione, è molto bello essere suore… non basta dire così.

 

 

 

Interviene e conclude 

padre Giulio Albanese

Io ho avuto la fortuna di studiare teologia in Africa, a Campala, Studio Teologico di Gapa, ed ero l’unico bianco in una classe di 70 ugandesi, 70 neri. È stata un’esperienza molto forte, dal punto di vista cristiano, dal punto di vista missionario, estremamente formativa, che mi ha fatto capire che il “missionario” certamente non vive più in quella che era la condizione di un secolo fa, quando davvero era “indispensabile”, perché doveva andare in mezzo ai leoni, perché doveva andare in una terra lontana, perché davvero era un eroe, un esploratore, un uomo ardito. Molti miei confratelli impiegavano dei mesi, addirittura degli anni per raggiungere certi territori.

Oggi la situazione è davvero diversa: al missionario viene chiesto di fare un po’ come il Battista, di farsi piccolo di fronte a Cristo che cresce. In fondo, quello che viene chiesto oggi al missionario, in Africa, in Asia, in America Latina, è di accompagnare queste Chiese, con grande umiltà, per certi versi anche nel nascondimento.

A volte si innescano, è vero, delle situazioni conflittuali, perché chiaramente la direzione di queste Chiese locali nel Sud del mondo non è più in mano ai missionari, in molti casi. Però la presenza del missionario è fondamentale, proprio perché, da una parte, serve proprio ad assicurare quella universalità, quella cattolicità, che poi è una forma intelligente di globalizzazione, e dall’altra, rientra proprio in quello che è lo scambio tra le Chiese. Io credo che il missionario sia chiamato a svolgere un ruolo importantissimo a questo livello. Credo che possiamo imparare molto delle altre Chiese proprio attraverso i missionari.

Mi ha sempre colpito il fatto che l’ufficio missionario della Conferenza Episcopale Italiana sia “Ufficio per la Cooperazione missionaria tra le Chiese”, proprio perché c’è questa dimensione dello scambio che è molto sentita e che è un aspetto, a mio avviso, qualificante dell’ad gentes.

Ma c’è un’altra considerazione che mi sembra importante. Il secondo interrogativo: “E voi che cosa fate? (come istituti missionari)”. Io sono il primo a dire che ogni istituto, ogni congregazione deve vivere il proprio specifico. Agli istituti missionari credo che sia chiesto oggi innanzitutto e soprattutto di fare animazione missionaria e quindi di portare avanti certi temi che appartengono proprio al nostro specifico: certamente l’annuncio di Gesù Cristo, l’urgenza di annunciare Gesù Cristo fuori le mura; il fatto che la nostra fede è pane spezzato, pane che va condiviso con i vicini e con i lontani; ma anche affrontare certi temi che possono apparire non necessariamente legati al vangelo, ma lo sono, di fatto, perché hanno una radice evangelica, perché sono i cosiddetti valori del regno: pace, giustizia, solidarietà, salvaguardia del creato, mondialità… il mondo missionario ha una grande responsabilità a questo riguardo, oggi. Questo deve avvenire nel contesto delle Chiese locali.

Anch’io tante volte ho sperimentato questo disagio; sembra quasi, a volte, che il discorso missionario sia parallelo a quello della Chiesa locale, come se fossero due realtà distinte. Io credo che se vogliamo far passare l’ad gentes in maniera intelligente, dobbiamo davvero sentirci parte integrante della Chiesa locale. A questo riguardo, io ho fatto un’esperienza straordinaria quando, giovane prete, ho trascorso 5 anni lavorando a tempo pieno al Centro Missionario di Brescia. Ricordo che i miei confratelli mi dicevano: “Ma come? Ti sei fatto diocesano?”. Lavoravo a tempo pieno in una struttura diocesana, perché ritenevo che quella struttura fosse anche nostra. Poi i risultati si sono visti. Ho lavorato 5 anni al Centro Missionario di Brescia facendo davvero pastorale missionaria unitaria, e in quei 5 anni sono entrati nei Comboniani 8 giovani, di cui tre dal Seminario Diocesano. Monsignor Foresti non era proprio molto contento… e non li ho cercati affatto, la mia preoccupazione non era andare a fare la caccia grossa… sono entrati, e ce n’è stata un’altra decina che ha fatto più o meno lo stesso percorso entrando in altri istituti. Io questo lo trovo estremamente importante, perché quando si ragiona in questa maniera sono convinto che poi si raccolgono i frutti.

Una precisazione. Forse sono sembrato troppo provocatorio quando ho detto: “La colpa è nostra”, però io – ve lo dico spassionatamente – sono stufo… Noi in genere, nella Chiesa Cattolica, nelle nostre comunità, siamo sempre portati ad autogiustificarci. Io credo che sia importante, per fare una pastorale vocazionale intelligente, avere il coraggio di metterci profondamente in discussione. Sul fatto che la nostra società sia una società malata, o una società con tanti problemi, su questo credo siano stati versati fiumi d’inchiostro, però la nostra è anche un società ricca di potenzialità; io sono convinto che i giovani oggi hanno delle grandissime risorse. Questa è una società che comunque ha molto anche di positivo.

Noi, come religiosi, come missionari, dovremmo davvero metterci in discussione e chiederci soprattutto se sappiamo rispondere a certe sfide che si profilano sul nostro orizzonte. Perché a volte, di fronte alle vere sfide, nelle quali dovremmo davvero, noi, come religiosi, come missionari, sporcarci le mani, ho proprio la sensazione che siamo latitanti. In questo senso dico: la colpa è nostra. Io sono convinto, certo, che da parte di molti di noi, di molti istituti vi è buona fede, però credo che questo non basti, assolutamente.

C’è un altro aspetto che mi sembra molto importante sottolineare. Io non vedo una contrapposizione tra il carisma ad gentes e la cosiddetta diocesanità, la “pastorale”. Le due realtà si integrano reciprocamente. Una ha bisogno dell’altra. Vi sono però poi – questo credo che debba essere anche riconosciuto – dei ministeri, dei carismi specifici. Se è vero che la dimensione ad gentes deve essere vissuta anche dal sacerdote diocesano, ritengo che comunque sia necessario, che oggi ci sia un grandissimo bisogno di missionari. Il fatto che oggi in molte delle nostre comunità cristiane, delle nostre comunità parrocchiali, il numero di vocazioni missionarie stia diminuendo, credo sia un segnale sul quale dobbiamo riflettere: è un barometro, è un termometro – chiamiamolo come vogliamo – che deve impensierirci.

Ho la sensazione che la nostra missionarietà sia un po’ una missionarietà di rendita, noi viviamo di rendita. Prima si parlava della Chiesa olandese, del fatto che c’è stato un crollo delle vocazioni nella Chiesa olandese: è vero, soprattutto a livello missionario. Io in Africa ho conosciuto molti missionari olandesi, però sono tutti molto anziani perché non ci sono giovani, è vero: la Chiesa olandese era una grande Chiesa missionaria, oggi non lo è più. Però, stiamo attenti, sta succedendo esattamente lo stesso per noi. Quando nel 1990 fu celebrato in Italia il II Congresso missionario (il I Congresso missionario italiano dopo il Concilio), a Verona, i missionari italiani erano 19500. Oggi siamo 12000! E l’età media di tutti i missionari italiani nel mondo è di oltre 70 anni! Queste cifre, a mio avviso, ci devono provocare fortemente.

Qualcuno dirà: “Forse vi sono altre forme di missionarietà…”. Io credo che dobbiamo essere con i piedi per terra: è vero che siamo tutti missionari, è vero che il battesimo è una chiamata missionaria, è una consacrazione missionaria per tutti i fedeli, però vi sono poi dei carismi specifici e sono tante le frontiere oggi, nelle quali siamo chiamati a sporcarci le mani e non sono solo geografiche. Lavorando full time (a tempo pieno) in questa agenzia missionaria MISNA, mi rendo conto per esempio di come il mondo della comunicazione, dell’informazione oggi sia terra di missione. Noi come religiosi, come missionari abbiamo davvero molto da dare a questo riguardo.

 

Interviene

Gianfranco Vianello

 

Aspetti problematici circa la vocazione ad gentes (Richiami dall’articolo scritto).

Una certa debolezza cristologica che rischia di ridurre l’evangelizzazione ad un’attività prevalentemente sociale, caritativa o organizzativo/pastorale. Questo mette in questione la radice stessa della missione. L’ampliamento degli ambiti dell’evangelizzazione, non legata più solamente a territori lontani, ma a gruppi umani non cristiani presenti pure in territori tradizionalmente cristiani. Questi elementi rischiano di mettere in questione la vocazione ad gentes propriamente detta.

L’ampliamento del concetto di missione, che rischia di diluire la caratteristica della vocazione ad gentes, secondo la tradizione paolina: “Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo” (1Cor 1,17). È il rischio che si corre quando si afferma la naturale dimensione missionaria di tutti i battezzati, negando lo specifico carisma ad gentes di alcuni.

 

Conclusione

Questi tre aspetti problematici incidono notevolmente anche sul piano vocazionale. Chi si ponesse la domanda circa una propria vocazione ad gentes, scontrandosi con queste tre linee nel loro risvolto riduttivo, evidentemente perde quota e interesse verso una tensione ed un impegno missionario ad gentes. È bene tenere presente che ogni vocazione è una coloritura particolare e specifica per rivelare il volto dell’unico Signore.

La riscoperta che tutti i battezzati sono missionari e che tutti dobbiamo essere missionari là dove ci troviamo (attrezzandoci dunque – i preti diocesani – a far fronte alle esigenze nuove di culture, razze, popoli che “invadono” le nostre diocesi) non mette in disparte la vera domanda che è questa: ma là dove ci troviamo ad annunciare il Vangelo, è proprio là che il Signore ci vuole? Ed è qui che si apre la vocazione specifica ad gentes che ci porta dunque fuori dalla nostra Patria e cultura per l’evangelizzazione cui siamo invitati.

La vocazione (ed il ministero) si situano dentro la storia e i vari cambiamenti che in essa nascono e muoiono. Questi “cambiamenti” devono misurarsi con la chiamata che il Signore fa ai suoi discepoli (e nello specifico al discepolato ministeriale). Questa chiamata al ministero o alla consacrazione religiosa e missionaria porta in se stessa una forte energia che ci chiama al cambiamento, alla conversione continua. È in questa conversione il presupposto ad ogni cambiamento esterno, personale e sociale. Si tratta perciò di una conversione fondata sulla coscienza sviluppata ed attualizzata del proprio carisma situato.

La crisi vocazionale è anche crisi di proposta pedagogica/ecclesiale: spesso sono chiari gli obiettivi e le strategie di fondo, ma spesso è mancante l’itinerario educativo, cioè i passi concreti da farsi. Se poi anche negli obiettivi si è dubbiosi (vedi l’ad gentes… mancato!) è evidente che non ci si pensa neppure!

 

Itinerari di respiro vocazionale

Seminare nel cuore dei giovani l’orizzonte totale dell’evangelizzazione, accompagnandone la crescita, attenti agli interrogativi anche inespressi e alle necessarie provocazioni implicite nel giovane in ricerca. Far crescere nelle nuove generazioni uno “sguardo contemplativo” sulla vita, sui rapporti e sulle cose. È solo con questi occhi nuovi che può accadere un discernimento fecondo in ordine alla vocazione. Occhi nuovi che abbandonano la cultura della funzionalità e cercano le sorgenti più profonde dell’esistenza e del senso.

Far vivere ai giovani in libertà e a tutto campo delle responsabilità sociali ed ecclesiali mantenendo ferma l’intimità col Signore nella preghiera, nell’ascolto della Parola e degli eventi, facendo interiorizzare sentimenti ed emozioni, nel desiderio di annunciare al mondo l’amore del Padre, abituandoli a leggere la loro propria esperienza personale, alla luce della Scrittura letta e meditata insieme. Offrire ai giovani spazi e luoghi di trasparente spiritualità cristiana nei rapporti tra di loro e in seno alla comunità in cui sono coinvolti, proponendo loro esperienze coinvolgenti e radicali per sperimentare la propria povertà e la ricchezza dell’alterità.