N.06
Novembre/Dicembre 2002

Chiesa: con-vocazione di eletti, amati, in ascolto per portare frutti di fede, speranza e carità

Quest’inizio della Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi (1 Ts 1,1-5b) ci chiama a riflettere anzitutto su una parola che forse diamo troppo spesso per scontata, la parola “Chiesa”. “Paolo, Silvano e Timoteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo”. “Chiesa”, non dobbiamo mai dimenticare che questa parola vuol dire convocazione, vuol dire chiamata, “ekklesìa” è una parola che appunto sta ad indicare che noi siamo stati convocati. E alla radice stessa, quindi, del nostro stare insieme nella fede del Signore, sta una chiamata sua, una sua vocazione, da parte sua e rivolta a tutti. Troppo spesso forse, sì, abbiamo superato la vecchia concezione giuridicista della Chiesa, ma forse essa è stata semplicemente soppiantata da una visione sociologica della Chiesa, stiamo insieme perché abbiamo degli “interessi comuni”. Interesse buono, interesse di Dio, interesse di Gesù Cristo, interesse del Vangelo, interesse della carità, interesse del bene degli altri, ma sempre a partire da una nostra iniziativa, da un nostro progetto. Non è male allora riflettere sempre, continuamente sul fatto che non siamo noi a costituirci Chiesa, ma e una chiamata di Dio a costituirci tali; è una sua elezione. Tale veniva definito nella prima lettura (Is 45,1.4-6) il popolo di Dio, Israele: “il mio eletto”, “per amore di Giacobbe mio servo e di Israele, mio eletto”, e tali vengono definiti, sempre nella seconda lettura, questo inizio della Prima lettera ai Tessalonicesi, tali vengono definiti gli stessi cristiani: “Noi siamo stati eletti da Dio… Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui”. Alla radice, dunque, della nostra esistenza, sia personale sia comunitaria, sta una chiamata, una vocazione, una elezione. Attenti! Non è soltanto una cosa che riguarda l’intimità della nostra coscienza o soltanto la nostra appartenenza ecclesiale in modo stretto, ma riguarda il nostro stesso stare nel mondo, stare nella storia, perché se Dio ci chiama, se Dio ci elegge, non ci chiama e ci elegge per noi stessi, ma ci chiama e ci elegge per gli altri.

L’altro termine, “elezione”, che troviamo in questi brani che abbiamo prima proclamato, è il termine che viene attribuito a Ciro: “Dice il Signore del suo eletto, di Ciro…”. Qui senz’altro l’elezione di Dio è sì una chiamata anche per lui alla fede, ma molto chiaramente, molto più immediatamente è una chiamata ad un ruolo, ad un compito, ad una funzione nella storia per l’umanità intera. Dunque, la nostra natura è quella di essere chiamati. Vediamo allora alla radice della nostra chiamata che cosa c’è, come si esplica la chiamata e quali frutti da.

 

Alla radice della nostra chiamata

Alla radice della nostra chiamata c’è l’amore stesso di Dio. Abbiamo ripetuto poco fa: “Noi ben sappiamo fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui…”. E ancora nella prima lettura: “…per amore di Giacobbe mio servo e di Israele mio eletto”. È per grazia, quella con cui Paolo glorifica Dio proprio all’inizio: “Grazia a voi e pace”, è la grazia e l’amore gratuito, senza condizioni, dato non perché noi meritassimo qualcosa, che Dio ci elegge, che Dio ci chiama. Aiutare le persone a scoprire quest’amore di Dio credo che sia il duro compito di coloro che si ripromettono di animare la vocazione e le vocazioni nella comunità cristiana. Prima ancora che una responsabilità, la chiamata è la scoperta del Dio che ci ama. Attenti, però! Non di un amore qualsiasi, perché l’amore di Dio non è un amore qualsiasi. Soprattutto non è un amore che si riduce soltanto ad un sentimento, ad una appartenenza; è molto di più: è una responsabilità l’amore di Dio, è un progetto, è qualcosa che, come abbiamo visto nella prima lettura, nel momento in cui vuole esprimere il suo amore verso il popolo, verso Israele e verso l’intera umanità, si fa progetto storico. L’amore di Dio è un mondo nuovo che egli vuole donare a tutti noi. L’amore di Dio è questa creazione nuova che nasce in Gesù e di cui noi diventiamo artefici con lui, per l’intera umanità. Alla radice della chiamata, dunque, un amore da scoprire in tutta la sua responsabilità.

 

Come si esprime la chiamata

Qui Paolo è molto esplicito perché egli ricorda che il Vangelo, la parola della salvezza si è diffusa attraverso, appunto, la parola stessa di Paolo che è stata proclamata in mezzo agli uomini. È la parola, dunque, il modo attraverso il quale la chiamata giunge a tutti noi. Questo mi sembra importante ribadirlo. Negli Orientamenti pastorali di questo decennio la parola “ascolto”, il termine “ascolto”, il verbo “ascoltare”, l’invito a metterci in questo atteggiamento di ascolto è forse la caratteristica più insistente negli Orientamenti stessi. Almeno così erano nati gli Orientamenti… ma, ovviamente, bisogna metterci un po’ di tutto e allora si accrescono di tante finalità, di tante altre parole… ma in origine volevano essere un grande invito alla Chiesa, alla comunità, a mettersi in un atteggiamento di ascolto del Signore: contemplare il suo Volto e ascoltare la sua parola. Non ci può essere chiamata se non attraverso la parola, se questa parola non viene proclamata, se questa parola non viene ascoltata… Parola in tutta la sua globalità: ogni volta che diciamo “parola” pensiamo subito alla Bibbia; bisogna stare molto attenti, non dimentichiamo mai che la parola della Bibbia non esiste per se stessa, esiste dentro la parola della Chiesa in quanto proclamata nella parola della Chiesa, in quanto diventa parola viva nella testimonianza che la Chiesa da. Ecco, questa parola, in tutta la sua ampiezza, in tutta la sua profondità, è ciò che dobbiamo proclamare, e ciò che dobbiamo aiutare a far ascoltare perché la chiamata di Dio possa raggiungere il cuore di ogni persona. Non una parola qualsiasi; Paolo dice che questa parola è risuonata in mezzo ai Tessalonicesi attraverso un impegno, una realtà, attraverso la potenza, “con potenza, con Spirito Santo e con profonda convinzione”.

Mi sembra molto importante riflettere anche su questo. A volte noi pensiamo che la parola debba soltanto entrare nell’ambito delle nostre convinzioni, del nostro sì intellettuale. Qui Paolo ci dice, invece, che la proclamazione della Parola deve realizzarsi attraverso una missione, una potenza che è anche, direi, miracolo, anche , quindi una novità di vita che si esprime, appunto, in forza della parola. La potenza è anche la forza che la parola stessa ha di mostrarsi come capace di cambiare la vita degli uomini e la vita del mondo. Questo è molto importante. A volte noi mettiamo la parola di Dio insieme alle altre parole. Invece la parola di Dio è qualcosa che ha in sé la forza di cambiare le persone. Oh se riuscissimo a mostrare questo alle persone che sono destinatarie delle nostre attenzioni come operatori vocazionali. Che la parola che noi rivolgiamo loro è una parola che è capace di cambiare la loro vita. A volte la chiamata di Dio resta al di fuori delle persone perché la gente pensa che è troppo lontana da loro, che richiede qualcosa che non può entrare nella loro povertà, nei loro limiti, non riesce ad essere accolta nella loro miseria. Ebbene, la Parola di Dio è qualcosa che costruisce, che cambia le persone. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Ed è una parola che opera, appunto, attraverso lo Spirito, che si manifesta come Spirito, perché lo Spirito è quello che ha creato questa parola, e lo Spirito è colui che ci aiuta a comprendere la parola, e che opera appunto attraverso la parola. Ed infine una parola che deve diventare però, anche persuasiva, una forza – dice Paolo – che esprime profonda convinzione. Con una frase che ormai ci ripetiamo da tanto, tratta dalla Prima Lettera di Pietro, la parola deve essere anche capace di rendere ragione della speranza che è in noi. Rendere ragione significa anche saper argomentare la fede, saper entrare in dialogo tra fede e cultura. Quando la Chiesa italiana dice: “C’è bisogno di un progetto culturale” che altro vuol dire se non dimostrare la capacità della parola di entrare in dialogo con le culture di oggi e di argomentare la pertinenza della fede per la vita dell’uomo anche oggi. Ecco, questi sono i modi con cui la chiamata si esplica secondo questo inizio della Prima lettera ai Tessalonicesi.

E che cosa produce? Ecco:

 

I frutti della chiamata

Paolo dice che i frutti della sua predicazione di questo Vangelo che egli ha diffuso per mezzo della parola, “con potenza e con spirito e con profonda convinzione”, sono tre: 

* l’impegno nella fede, 

* l’operosità nella carità, 

* la costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo.

I frutti della chiamata sono “le virtù teologali” noi diciamo: fede, speranza e carità. Ma vediamo come Paolo le caratterizza. Dice che la fede deve essere impegnata. Qui dice: “impegno nella fede”. Fede dunque, non semplicemente – dicevamo prima – adesione intellettuale, ma una fede che si fa opera, fatto, la fede che si fa vita, un progetto di vita, questa è la fede, non semplicemente un “sì” a un dio, ma una vita che si cambia, una forma di vita. Nel passaggio degli Orientamenti pastorali in cui si accenna all’attività vocazionale, si dice che essa deve avere di fronte a sé il fatto che la vocazione deve essere una forma di vita, aiutare le persone a trovare una forma di vita. Un progetto di vita, un progetto storico, concreto.

Una carità operosa. Il termine greco dice “fatica”, proprio sudore. La carità è fatica, la carità è sofferenza, perché fare comunione, comunione anzitutto all’interno della comunità – probabilmente qui Paolo preferisce comunione tra di noi – ma anche comunione con tutti gli uomini, chiamare tutti gli uomini a comunione, entrare in comunione con tutti gli uomini nelle loro così diverse situazioni di esistenza, a volte anche così lontane da noi, non solo per stile di vita ma per convinzioni, addirittura a volte avverse a noi. Esprimere carità verso tutti è davvero fatica, è davvero sofferenza. D’altra parte non altro ci indica il Crocifisso, che è la suprema dimostrazione, la suprema forma di carità. Là, dove l’amore splende, splende nella sofferenza, non altrove. Il massimo dell’amore è il massimo della sofferenza. A volte lo è anche la fatica che facciamo a fare comunione tra di noi, perché non dobbiamo nascondercelo, siamo così diversi… basta che ci guardiamo… è faticoso, a volte camminare insieme, magari anche nei progetti pastorali a volte può essere fatica camminare insieme. È fatica. Magari significa anche qualche piccola rinuncia alle nostre visioni, alle nostre identità, per poter seguire insieme il Signore.

Infine, la perseveranza nella speranza. Non una qualsiasi speranza. La speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. Speranza, quella vera, quella che ha un termine preciso. Non sperare nel senso che ci sarà anche un domani in cui le cose cambiano, ma la speranza che viene dalla certezza che nel domani c’è il cambiamento di tutte le cose, c’è il ritorno del Cristo, anzi, la venuta del Cristo, la sua Parusìa, quando egli farà nuove tutte le cose. Questo è il nutrimento della nostra speranza, non altri. Il Signore Gesù è l’oggetto della nostra speranza, è colui che è risorto, ed è colui che viene. Sulla base di questa speranza concreta, reale, nasce anche, quindi, un esercizio vero di libertà e di creatività.

Ecco, questo è quello che Paolo ci dice al riguardo del nostro compito di individuare la nostra esistenza anzitutto come chiamata, scoprirne le radici, esprimerne le modalità e saperne trarre anche i frutti. Per non dimenticare anche la pagina del Vangelo ricordiamo che questo nostro impegno deve anche però esprimersi in un atteggiamento che da una parte è rispettoso dell’umano, dall’altra però è anche capace di rivendicare l’assoluto predominio, l’assoluto primato di Dio nella vita degli uomini. Nel caso concreto il problema è quello del riconoscimento dello stato, che è una delle espressioni dell’umano. Ma l’umano non ha soltanto questa dimensione istituzionale, politica. Ha tante manifestazioni e tante dimensioni. Nel nostro accostarci agli altri siamo invitati a rispettare queste dimensioni dell’umano. Saperci stare anche dentro con fedeltà, ma con una fedeltà che non è mai un inchinarsi all’uomo, perché noi ci inchiniamo soltanto a Dio.

Diceva la prima lettura: “Uno solo è il Signore, e non ce ne è alcun altro”. Allora quello di dare a Dio quel che è di Dio, significa dare il predominio e il primato su tutto, nel rispetto delle dimensioni umane, che sono poi dimensioni sue, sono le dimensioni della creatura che egli ci ha fatto. Però questo dire il primato di Dio nella vita degli uomini al fondo è anche questo il modo più proprio di richiamarli alla loro vocazione.