N.06
Novembre/Dicembre 2002

Spiritualità di comunione nella vita consacrata: per un “salto di qualità” nella pastorale vocazionale

Il santo Padre nello svolgimento del suo ministero petrino sembra ricalcare le orme dell’apostolo Giovanni che, a quanti gli domandavano una parola sintesi del messaggio di Gesù, ripeteva continuamente: “Figlioli, amatevi”, spingendoli ad andare oltre la familiarità con l’espressione letterale che conoscevano a memoria.

 

Una pastorale vocazionale ispirata al “comandamento nuovo”

Così il Papa insiste: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13,35). Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo, carissimi Fratelli e Sorelle, la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al ‘comandamento nuovo’ che egli ci ha dato: Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34). È l’altro grande ambito in cui occorrerà esprimere un deciso impegno programmatico, a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari: quello della comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa. La comunione è il frutto e la manifestazione di quell’amore che, sgorgando dal cuore dell’eterno Padre, si riversa in noi attraverso lo Spirito che Gesù ci dona (cfr. Rm 5,5), per fare di tutti noi un cuore solo e un’anima sola (At 4,32). È realizzando questa comunione di amore che la Chiesa si manifesta come ‘sacramento’, ossia ‘segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano’. Le parole del Signore, a questo proposito, sono troppo precise per poterne ridurre la portata. Tante cose, anche nel nuovo secolo, saranno necessarie per il cammino storico della Chiesa; ma se mancherà la carità (agape), tutto sarà inutile. È lo stesso apostolo Paolo a ricordarcelo nell’inno alla carità: se anche parlassimo le lingue degli uomini e degli angeli, e avessimo una fede ‘da trasportare le montagne’, ma poi mancassimo della carità, tutto sarebbe ‘nulla’ (cfr. 1 Cor 13,2). La carità è davvero il ‘cuore’ della Chiesa, come aveva ben intuito santa Teresa di Lisieux, che ho voluto proclamare Dottore della Chiesa proprio come esperta della scientia amoris: ‘Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d’Amore. Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa […]. Capii che l’Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l’Amore era tutto’”[1].

Il progetto che propone è ardito: è la meta ideale della fede, e invita a coniugarla nella storia. Pertanto riflettere su questo mistero non è facile, può generare un senso di assuefazione o condurre a ripetere parole e teorie. Mi sono chiesta e mi chiedo con una certa insistenza: “Come evitare di chiacchierare sulle grandi realtà del messaggio cristiano? Come mettere in movimento un pensare che non sia ripetere pensieri, ma convertire la vita al Vangelo? Come non fare discorsi per ‘esportazione all’estero’ quasi identificandoci, mettendoci dalla parte di ciò che proclamiamo?…”.

Le domande possono proseguire e si approfondiscono nella misura in cui ci affidiamo all’indicativo evangelico dell’amore che si traduce in imperativo, e nella misura in cui accogliamo il dono della carità di Dio che si fa compito, un compito aperto, mai concluso, come un cantiere con lavori in corso.

In questo periodo sono particolarmente presa da una “preoccupazione”: i nostri convegni e incontri di studio non ricalchino l’atmosfera salottiera dell’Ottocento, quando le donne borghesi si ritrovavano nei salotti a discutere di letteratura, di filosofia e anche di religione, senza però incidere sulla cultura e sull’organizzazione sociale. Era un parlare “decorativo”, così come doveva essere, secondo qualcuno, la scolarizzazione offerta al mondo femminile. Mi pare che nella società complessa, di complessità addensata ove i problemi si assommano e si sovrappongono senza essere risolti, nella società ove il Signore ci chiama a vivere come suoi testimoni, ci sia bisogno di un principio di semplicità che porti all’essenziale, ad una sintesi esistenziale di valori, di una saggezza nuova. E andare all’essenziale per noi credenti significa accogliere la normatività di Gesù non in astratto, come si accoglie una teoria o gnosi, né in maniera retorica, a parole, o in maniera precettistica come si esegue un comando imposto dall’esterno. Significa piuttosto dilatare la nostra vita all’opera dello Spirito per intuire il senso e le modalità con cui il Signore vuole rendere presente la sua grazia in noi e per mezzo nostro nell’umanità intera. Non possiamo disgiungere le due coordinate: quella personale e quella universale, perché la salvezza è per tutti.

La risposta alle domande e alle urgenze pastorali sembra abbastanza semplice, facile. Ma la difficoltà forse sta proprio nell’intuire come mediare le ricchezze della fede nella storia, nella mia storia feriale e in quella altrui. Il riflusso nel privato è un rischio reale non solo delle nuove generazioni, è anche nostro, e la tentazione di costruirci un mondo a parte, magari a nostra misura, non è lontana. Collocarsi nell’orizzonte teologale della comunione non è costruirsi una virtuale tranquillità; non è una fuga dalla conflittualità della storia, dai suoi processi, dalle difficoltà, sublimando, dimenticando o rimovendo la realtà; né significa colpevolizzarsi in modo tale da non promuovere il processo dinamico della conversione. Non può nemmeno essere un immergersi nelle dialettiche della storia secondo uno zelo non illuminato dal Vangelo, ma piuttosto percorso dalla rabbia; tanto meno è diventare complice delle ambiguità e iniquità, come coloro che non hanno speranza: “Mangiamo e beviamo, tanto domani moriamo” (1 Cor 15,32).

Collocarsi nell’orizzonte della comunione implica invece la capacità di mediare, non il mediare politico o sindacale, ma evangelico, ossia esige il discernimento, cioè l’accoglienza del giudizio salvifico di Dio sulle persone e sulla storia. E questa abilità non è un frutto spontaneo, va coltivata. Per motivi storici e formativi non l’abbiamo molto coltivata, piuttosto, dopo il Vaticano I, siamo passati a livello pastorale dal discernimento individuale privatistico al principio di autorità. La Chiesa italiana in maniera esplicita e condivisa, a partire dal Convegno nazionale di Palermo, ha scelto il discernimento come stile di vita che si traduce in testimonianza perché la mediazione tra mondo dei valori e storia passa dalla vita. A ragione Simone Weil segnala che è proprio della nostra generazione il genere letterario della testimonianza. In ambito pastorale ciò significa “passare dal metodo sinottico a quello giovanneo”. Nei sinottici è Gesù che chiama; in Giovanni Gesù chiama attraverso i suoi, secondo lo stile del “Venite e vedete”, del “Vedete come si amano”, nella reciproca irradiazione del fascino messianico. Ciò significa a livello ecclesiale il passaggio dalla teologia alla teofania, dalla cristologia alla cristofania.

Questo riferimento al vissuto non è abdicare alla ratio, alle esigenze e al rigore del pensare ripiegando nell’empirismo e nell’emotività, ma significa ricentrare la vita evangelicamente. Perché questo tema per il secondo Forum? Dice un proverbio che quando si parla troppo di una cosa, vuol dire che non c’è. È così per la spiritualità di comunione? In realtà il Forum vuole considerare la struttura costitutiva della fede cristiana, quindi la struttura costitutiva della persona umana fatta ad immagine di Dio in Cristo, Nuovo Adamo. Pertanto vuole condurre ai principi e fondamenti della comunione per individuarne le conseguenze operative nell’animazione vocazionale degli istituti, perché vi sia un salto di qualità. Non a caso pone l’attenzione sulla pastorale a servizio della persona per la sua realizzazione secondo il disegno di Dio, richiamando le indicazioni più significative del Vaticano II che oggi risultano ancora più urgenti e necessarie per oltrepassare antropologie ecologiche e individualistiche. Un punto prospettico, mi pare “nuovo”, è l’accento sull’educazione, quindi la consapevolezza che i principi operativi vanno tradotti in itinerari ove il punto di partenza del processo di crescita non si identifica con il punto di arrivo, ma comporta un cammino di fede tra il “già e non ancora” che si attua dentro un contesto comunitario.

Su questi elementi vorrei offrire delle considerazioni segnalando alcune istanze del nostro contesto socio-culturale e religioso che trovano una singolare risposta nella Rivelazione quale realtà teo-antropologica[2]. Ho raccolto elementi e appelli che mi sembrano trasversali in ambito sociale ed ecclesiale con particolare riferimento al mondo femminile. Da varie parti mi è venuta la provocazione a riprendere la riflessione sulle donne e sulle donne consacrate esplicitandola con l’attenzione alla pastorale vocazionale. In realtà anche in Italia non sono superati gli stereotipi inferiorizzanti sulle religiose; anzi, più in generale, sembra sia in atto un processo di regressione verso l’indistinto antropologico che è più pericoloso dell’antropologia maschilista per la crescita della persona umana, maschio e femmina. Il tutto nella chiara consapevolezza dei limiti, puntando sul bene praticabile, non quello auspicabile, per cui condivido alcuni inputs, senza alcuna pretesa di svolgere un discorso conclusivo.

L’humus fecondo di questo riflettere e condividere è l’interpersonalità eucaristica e mariana come principio epistemologico, come una qualità del pensare oltre che dell’operare. Dall’Eucaristia nasce la Chiesa nel suo essere e nel suo operare. Qui facciamo memoria del “Li amò sino alla fine” per essere conformati a questo amore senza limiti. E l’Eucaristia ci richiama la presenza di Maria in tutta la vicenda del Salvatore. L’Eucaristia è cibo nel cammino della vita, di quell’itinerario di evangelizzazione dell’esistenza che porta alla grazia e alla verità, puntando sulla dignità della persona, scommettendo sul discernimento evangelico personale e comunitario in fedeltà alla coscienza. Quindi nel pensare e nell’operare dobbiamo uscire dalla latitanza e clandestinità e mettere in crisi l’ideologia illuminista che ha rinchiuso la prospettiva religiosa nel privato come elemento secondario nell’identificazione di un soggetto e di un popolo. Le donne credenti per la loro peculiare esperienza nella modernità possono favorire questo “esserci nell’oggi con l’istanza critica del Vangelo”.

Articolo le presenti considerazioni in due nuclei fondamentali: “Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in Giudea e Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8); “Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17,11).

 

 

 

“Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in Giudea e Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8) 

Gesù ci invia nel mondo esistente, non in quello virtuale

Con l’espressione di Gesù vorrei delineare l’orizzonte nel quale raccolgo alcune fondamentali coordinate socio-culturali e religiose che ci interpellano ad elaborare, non solo a praticare, la cultura della comunione. È il rimando ad una teologia della storia, a una lettura teologica del contesto che non rimuove la considerazione socio-analitica della situazione. La comunione, infatti, è dono e compito. È dono, non è nostro prodotto, non è il risultato di uno sforzo ascetico particolarmente generoso, ma è l’offerta del Signore a condividere la sua passione per la salvezza dell’universo.

Possiamo fare l’abitudine ai doni di Dio e persino esserne irritati, come annota Madeleine Delbrèl: “Quando coloro che amiamo ci chiedono qualcosa li ringraziamo d’avercela domandata. Se ti piacerà, Signore, di chiederci anche una sola cosa lungo tutta la nostra vita, ne resteremo meravigliati, e l’aver fatto una volta sola la tua volontà sarà l’evento più importante del nostro destino. Ma poiché ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, tu metti nelle nostre mani un tale onore, noi lo troviamo tanto naturale che ne siamo feriti, ci sentiamo stanchi. Il giorno che comprenderemo ciò noi andremo nella vita come una specie di profeti, come veggenti delle tue piccole provvidenze, come attori dei tuoi interventi”[3].

Ricordo l’impressione riportata da un incontro con una Figlia di Maria Ausiliatrice della Corea. “Tu non sai che cosa significa essere nata in Italia, ove l’educazione fin dall’infanzia parla di carità e di perdono, mentre io sono stata educata in una cultura ove la vendetta è un onore. Tu non potrai mai capire la nostra fatica”. Non so se si può dire lo stesso oggi… Certo vivere di carità non è un prodotto culturale, ma è accogliere il dono dello Spirito. Ho molta paura che noi, educati fin da piccoli nella fede, possiamo giocare al volta pagina nel senso che di queste cose ne parliamo tanto, leggiamo tanto, scriviamo tanto, e possiamo scivolare sulle parole, scorrerle velocemente come si scorre l’indice di un libro, senza lasciarci trasformare.

Il contesto culturale odierno ci porta fuori dall’ovvietà perché anche in Italia il Vangelo di Gesù è una novità, molti non l’hanno letto pur dichiarandosi cristiani. Quindi è una reale profezia per il mondo. E Dio può servirsi di noi per proclamarlo proprio oggi[4]. Il cristianesimo è una fede nella storia. Dio si fa incontro alla sua creatura nella storia, nel “qui e ora”, ossia assume le categorie strutturali del nostro esserci nella storia: il tempo e lo spazio reali. Il Vangelo di Gesù non è una gnosi, né un sistema filosofico proposto a un gruppo esoterico, ma è il proclama di salvezza definitiva offerta a tutti. Questa salvezza è dono e compito che si attua nel tempo e si compie nell’Escaton. La fede cristiana è una religione per nulla disinteressata alla terra e ai suoi processi perché è normata dal criterio dell’incarnazione: è Dio che viene in cerca dell’uomo, si fa incontro all’uomo nella sua storia.

“Il cristianesimo è religione calata nella storia! È sul terreno della storia, infatti, che Dio ha voluto stabilire con Israele un’alleanza e preparare così la nascita del Figlio dal grembo di Maria nella pienezza del tempo (Gal 4,4). Colto nel suo mistero divino e umano, Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è il senso e la meta ultima. È per mezzo di lui, infatti, Verbo e immagine del Padre, che tutto è stato fatto (Gv 1,3; cfr. Col 1,15). La sua incarnazione, culminante nel mistero pasquale e nel dono dello Spirito, costituisce il cuore pulsante del tempo, l’ora misteriosa in cui il Regno di Dio si è fatto vicino (cfr. Mc 1,15), anzi ha messo radici, come seme destinato a diventare un grande albero (cfr. Mc 4,30-32), nella nostra storia”[5].

Le donne moderne più sensibili alla fede cristiana hanno caratterizzato la loro esperienza religiosa come “esserci nella storia con cuore planetario”[6], operando a servizio della persona umana e soccorrendola nelle molteplici necessità (le sette opere di misericordia spirituali e materiali dicono questa universalità e totalità dell’amore evangelico). Dobbiamo valorizzare questa eredità della psico-storia femminile.

Lo facciamo nella fede ossia nella consapevolezza della presenza del Salvatore sempre e ovunque. La nostra speranza si radica in Dio che ci offre sempre un anticipo di fiducia: “Erano tuoi e li hai dati a me” (Gv 17,6): siamo sempre nelle sue mani misericordiose. La crisi non è un ostacolo, è problema/possibilità, appello al discernimento. Non possiamo inventare i contesti, né fare progetti per i contesti che stanno nelle nostre menti. Occorre una lettura non solo socio-analitica e religiosa, ma teologica del contesto. Lo esige il progetto pastorale.

 

Domande di un passato prossimo ancora presenti

Segnalo alcune istanze della cultura odierna nelle loro radici, partendo dalla svolta moderna, perché lì sono emerse domande profonde alle quali si è risposto in parte, per cui sono ancora nella nostra vita sia personale che comunitaria. La differenza che mi sembra di trovare sta nel fatto che oggi, rispetto a ieri, più che come sfide emergono come interrogativi, come appelli-invocazioni, impliciti ed espliciti nella ricerca di senso, di verità. Nella modernità si è operata una divaricazione tra cultura civile e cultura ecclesiastica. La Chiesa si è posta fuori da tale processo culturale, giudicato incompatibile con la fede. Ha continuato a elaborare la fede secondo i canoni della ratio filosofica, mentre la cultura enfatizzava le scienze.

Pietro Prini caratterizza così la differenza: “La storia della scienza moderna della natura è contrassegnata da due rivoluzioni: quella copernicana, come si usa chiamarla, che ha sostituito lo spazio degli ingegneri a quello dei filosofi, abbattendo la visione dualistica del ‘mondo celeste’ e del ‘mondo sublunare’; e quella dei grandi naturalisti dell’Ottocento che hanno sostituito il tempo dei biologi a quello dei teologi, ricollocando la storia dell’uomo nel corso della vita in evoluzione”[7].

La modernità ha operato il passaggio da una razionalità di carattere ontologico-filosofico, illuminata dalla fede, ad una razionalità matematica orientata in senso empirico-pratico, secondo la prospettiva del “sapere = potere”, nella speranza di rischiarare totalmente le tenebre dell’ignoranza, emancipandosi così dai dogmi religiosi. Questo ha favorito delle attitudini nel pensare che hanno provocato la crisi degli schemi mentali tradizionali attraverso i quali la fede si era espressa. Il moltiplicarsi dei saperi, delle specializzazioni, dei punti di vista, si è espresso nella moltiplicazione delle scienze, talvolta frammentate, le quali al loro interno sono regolate da metodi e criteri logici propri. Così manca una visione sintetica a cui far riferimento, ma si dà una molteplicità di riferimenti, di gerarchie di valori, di orientamenti normativi. L’area del consenso pubblico sui valori fondamentali si assottiglia per cui le decisioni radicali, che si fondano sul senso e sulla finalità della vita, sono lasciate alla scelta individuale. Questa, in una società che offre molteplici possibilità messe a disposizione come possibili e legittime, tende ad affievolire la tensione verso il bene nella sua oggettività e rischia di identificare il bene con ciò che piace. Le scelte, di conseguenza, sono livellate come equivalenti. Si dilata il campo dell’opinabile, si legittima la possibilità di passare da una scelta all’altra, senza che la persona giunga ad una scelta ritenuta decisiva. Si attenua la consapevolezza della vita come vocazione. Il campo dell’opzione, infatti, non si è limitato ai mezzi, ma ha invaso il mondo dei fini. Per orientarsi, in questa eccessiva dilatazione che genera indifferenza e, quindi, paralisi nelle scelte, occorre una grande dose di speranza, una proposta religiosa che mette al centro la Verità e il Bene assoluti, incondizionati.

I riflessi nel mondo giovanile sono registrati con molta attenzione nel documento Nuove vocazioni per una nuova Europa[8]. La modernità segna il passaggio dalla civiltà cosmologica a quella antropologica, ma questa è segnata dalla centralità dell’individuo. La cultura dell’individuo contraddice però proprio alla pretesa moderna di costruire la società. Ponendo l’attenzione sul soggetto individuale, non favorisce le relazioni sociali perché le esigenze dei singoli non sono sempre e del tutto compatibili con il bene comune. Non a caso dei tre principi della rivoluzione francese, “uguaglianza, libertà, fraternità”, è proprio la fraternità a non essere pensata in modo radicale e, quindi, a non essere oggetto di riflessione condivisa. Anzi non fa parte dei criteri organizzativi della società: efficienza, specializzazione e razionalità-organizzazione. Non viene tradotta in ordine sociale, al massimo legittima gruppi di potere e di pressione, forme di corporativismo. Come si vede non può essere l’humus della cultura di comunione.

L’altro elemento caratteristico della modernità è la rivendicazione dell’autonomia della coscienza, autonomia dal magistero e dalla morale tradizionale, per un’etica fondata sulla libertà, sull’io che avanza la pretesa di essere norma non solo per sé, ma per l’universo. L’arbitrio si confonde con la libertà svuotando il senso dell’amore oblativo. Questi tratti della modernità non incidono sulle donne che, per definizione, si dividono nella maternità con le sue conseguenze e implicanze, non ultima quella di tessere rapporti tra padri e figli attenuando i conflitti e costruendo la famiglia. La donna, secondo varie ricerche di scienze umane, è più attenta alla relazione, al riferimento all’altro quale luogo per elaborare la propria identità. Nei secoli è stata definita “in relazione a” come figlia, sorella, sposa, madre. Questa “qualità femminile” è coltivata in maniera esplicita nella cultura cattolica che parla di persona, quindi di soggetto in relazione, avanzando un’istanza critica verso l’enfasi posta sull’individuo.

L’autonomia della coscienza accentua l’asimmetria e approfondisce il fossato tra le esigenze etiche della donna, che rapporta la libertà alla responsabilità, e quelle dell’uomo protese a legittimare e ampliare la logica della doppia morale tradizionale, soprattutto per i suoi riflessi nella morale sessuale. Per esperienza sappiamo che l’ambito della sessualità è quello più delicato nell’esperienza vocazionale, non solo nella vita religiosa. Don Bosco diceva che nel mondo giovanile, assicurato questo punto, si poteva essere sicuri della santità.

Non è per caso che proprio la cultura dell’individuo, la quale proclama la libertà-emancipazione e uguaglianza, escluda proprio la donna dal mondo dei diritti e della cittadinanza. I primi capitoli della Genesi ci ammaestrano sulle condizioni di possibilità relativamente alle relazioni tra i generi e tra le generazioni…

L’epoca moderna apre la strada alla scolarizzazione di massa, promuove nel soggetto la possibilità di leggere in modo critico i processi storici per collocarvisi in modo responsabile. Ma la scolarizzazione è maschile. Questa, associata all’incremento delle scienze e dei saperi strumentali orientati a dominare il mondo, alimenta da una parte una cultura emancipata dai dogmi e dalla Chiesa, dall’altra la dialettica e contrapposizione tra ragione e fede, con il passaggio dal razionalismo alla secolarizzazione e, non raramente, all’ateismo. È la frattura tra Chiesa e cultura, Chiesa e scienze, fede e saperi. Le donne, escluse ufficialmente dalla scolarizzazione, sono state estranee a queste contrapposizioni, per cui si sono avvicinate di più alla Chiesa. Si sancisce un’alleanza tra due soggetti emarginati dal pubblico e dai processi culturali, e, in ambito ecclesiale, si attua una femminilizzazione della fede ed una secolarizzazione del mondo maschile. La fede delle donne, però, sembra essere più quella popolare che quella critica, fa più riferimento alle tradizioni, agli usi e costumi, alle pratiche religiose che alla ragione. Così, se il mondo maschile è preso dalla dialettica fede-ragione, quello femminile rischia l’accoglienza e la comunicazione di una fede precritica, per non dire infantile. Evitare l’infantilismo nella fede significherà o uscire dalla Chiesa o innalzare la propria cultura religiosa per far fronte agli interrogativi della ragione moderna.

Un altro elemento caratterizzante la società moderna è il binomio pubblico-privato tradotto nel binomio uomo-donna. Così si conia una tipologia “donna e focolare domestico”, un connubio moderno creato dall’industrializzazione. La donna è in casa ove nasce, si alimenta, si cura la vita; ove si educa nell’informale, con la testimonianza. Ella trasmette la fede con questi connotati, fuori dall’evoluzione culturale e dalle problematiche del processo di secolarizzazione; utilizza i saperi del quotidiano che rischiano di cadere nell’ovvietà. Grazie ad un nuovo rapporto che si instaura tra madre e figlio/a, alimentato dalla cultura romantica, l’educazione religiosa risente di una certa nostalgia e retorica dell’infanzia, per cui predilige i primi anni di vita e tende a scomparire con la crescita.

Le congregazioni religiose femminili, che fioriscono a partire dalla seconda metà del ’700 soprattutto in Italia, sono particolarmente attente alla scolarizzazione delle donne, nonostante gli stereotipi che vorrebbero estrometterle. Esse coniugano scolarizzazione ed educazione religiosa, oltre passando di fatto i pregiudizi che volevano le donne invisibili, fuori dal pubblico, ritenuto spazio maschile, fuori dalla produzione di beni e di servizi. Esse hanno favorito la libertà delle donne nella scelta della propria vocazione, in autonomia rispetto al potere del padre, e hanno avuto la capacità di rispondere a problemi concreti della gente, restando di fatto visibili e attive nella società. 

La monasticizzazione di queste istituzioni e la riconduzione delle religiose nell’invisibilità è un fenomeno che prende piede a partire dalla seconda metà del XIX secolo e viene messa in crisi solo dal Vaticano II in poi. In questo processo regressivo convergono motivazioni diverse: la Chiesa che vuole disciplinare le energie femminili, la cultura laicista che vuole estromettere le donne religiose dal pubblico perché troppo propositive, quindi risultavano una contraddizione alla loro visione della società. Per compenso, ma in maniera contraddittoria, sorgono le congregazioni secolari, avallando la visione ideologica: visibili nella fede invisibili nella società, visibili nella società invisibili nella fede, un pregiudizio tuttora esistente nella tensione pubblico privato della società italiana. Fa pena constatare che questa visione delle cose è legittimata anche dalle donne cattoliche che operano nelle istituzioni statali, continuando a identificare il pubblico con lo statale, nonostante tutte le ricerche e gli studi sull’economia civile. Questa ideologia, purtroppo, permane quasi esclusivamente in Italia tra le nazioni occidentali.

Attualmente si fa sempre più urgente il bisogno di elaborare una sintesi evangelica consapevole e critica, capace di rispondere alle istanze moderne presenti nell’attuale società e soprattutto nel mondo giovanile. Vi sono segnali interessanti in tal senso. Forse andrebbero coordinati per una risposta di qualità alla domanda di cultura religiosa e correggere il limite della fede infantile. In tal modo potranno emergere nuove potenzialità del Vangelo specie nella elaborazione e costruzione di identità maschili e femminili più chiare.

Un altro appello è la rivendicazione di autonomia della coscienza da parte delle donne, soprattutto nella sfera degli affetti, della sessualità, della maternità e della famiglia. I drammi familiari sempre più frequenti e spettacolarizzati ci fanno prendere coscienza del nostro compito di elaborare una cultura che ponga al centro la dignità della persona, il valore della famiglia, offrendo un’ermeneutica della libertà come responsabilità, come tensione al bene, come amore. In tal senso un confronto con il processo di secolarizzazione potrebbe favorire la purificazione della fede, superando l’identificazione di religione cristiana con il sacro generico. Sacro dice separazione. Ma il principio dell’incarnazione sottolinea che dal sacro bisogna passare al santo, e santo dice prossimità, quindi vita quotidiana. Gesù nella sua missione ricentra i valori religiosi sulla persona. La sua critica alla sacralità del sabato, del tempio, della legge, mira a sottolineare la dignità della creatura umana fatta a immagine di Dio, correggendo una concezione sacrale fine a se stessa per proclamare la santità nella storia feriale. Egli annunzia i misteri del Regno attingendo alla vita quotidiana, quella domestica, di ogni giorno, con tutto ciò che comporta, perché luogo privilegiato per testimoniare la santità di Dio nell’incontrare misericordiosamente la creatura umana.

Le donne hanno custodito questi “spazi” senza però avere la possibilità di tradurli in valori culturali tali da accedere ai circuiti accademici. La loro scolarizzazione anche in ambito teologico, grazie alle possibilità offerte dal Concilio e alle vie aperte dalla Mulieris dignitatem potrebbe favorire l’emergere di un pensare nuovo di chiara matrice evangelica in cui la realtà viene considerata dal punto di vista del progetto di Dio. È un’opportunità e un compito particolarmente elevato, nobile. È urgente in questa direzione mettere a tema la cultura della persona e della libertà di coscienza, oltrepassando le riduzioni della modernità senza rimuoverne le acquisizioni. È un compito delle donne e degli uomini che interpella al discernimento evangelico personale e comunitario che ricentri la vita nei valori evangelici. È la domanda di una cultura percorsa dall’ethos dell’amore, della cultura della comunione, senza la quale non è possibile la spiritualità di comunione.

In tal senso attualmente sorgono nuove invocazioni e domande da un clima culturale che enfatizza le scienze tecniche e strumentali, le scienze delle procedure e delle formalità, le scienze dei mezzi di comunicazione. La moltiplicazione e l’incremento di questi saperi facilita non pochi ambiti della convivenza umana, ma sono una medaglia dalle due facce. Gli strumenti non possono sostituire i contenuti, né possono prendere il posto delle relazioni personali. Il rischio di rimuovere il senso e i significati teleologici, finalistici si può tradurre in una perdita di risorse umane e in una difficoltà di crescita per le nuove generazioni. Di qui l’appello a donne e uomini credenti perché nella Chiesa si incrementi la cultura di comunione nella quale è possibile elaborare una nuova antropologia e, conseguentemente, una nuova etica della responsabilità secondo l’ethos dell’amore.

 

 

 

“Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17,11) 

L’essenza della fede

La preghiera di Gesù esprime l’originalità del messaggio evangelico e lascia intravedere le risorse che immette nella cultura facendole oltrepassare i propri limiti. Gesù congiunge cielo e terra non in astratto, ma nella sua persona di Figlio Unigenito che svela il volto del Dio Amore e di Primogenito di ogni creatura che svela l’inaudita dignità alla quale è innalzata la creatura umana. Egli, Unigenito e Primogenito, è la Sapienza eterna nella quale tutto è creato, è l’Immagine secondo la quale è fatta la persona umana, è il nuovo Adamo che ricapitola tutto l’universo.

Caterina da Siena viene così ammaestrata dal Signore: “Si dilati il tuo cuore, figlia, e tu apri l’occhio dell’intelletto con il lume della fede, per vedere quanto è l’amore e quanta la provvidenza con cui Io ho creato l’uomo affinché goda del mio bene sommo ed eterno. A tutto ho provveduto […]. In questa vita mortale, mentre siete viandanti, vi ho legati con il legame della carità […]. Perché negli atti e negli affetti voi usaste la carità […], Io provvidi a far sì che non un uomo vi fosse, e così ciascuno di voi, che sapesse fare tutto quello che è necessario per vivere; ma ho dato ad alcuni una capacità, ad altri un’altra, affinché ciascuno avesse un motivo di ricorrere all’altro per proprio bisogno […]. Non avrei potuto dare tutto a tutti? Certo che sì, ma volli provvidenzialmente che si umiliassero l’uno di fronte all’altro, e fossero costretti ad usare insieme l’atto e l’affetto della carità”[9].

“Spiritualità di comunione”, quindi, è entrare in questo misterioso e misericordioso disegno del Creatore compiuto nel Cristo. Pertanto è “ripartire da Cristo”. E qui è l’essenza del cristiano, della Chiesa. Il Vaticano II lo proclama non solo nei suoi documenti – tutti con un esplicito riferimento al mistero della Trinità che illumina il mistero della persona umana –, ma anche nei principi dinamici operativi, proposti per avviare nella comunità credente il cammino di rinnovamento. Sintetizza così l’essere e la missione della Chiesa che “in Cristo è, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, [il Concilio] intende con maggiore chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo”[10].

È la domanda di una nuova filosofia: “Prima si teorizzava sull’essere. I filosofi del primo millennio ne hanno sviluppato le implicanze. Poi sono venuti quelli del secondo millennio e hanno impostato tutto sulla categoria dell’io. Adesso, speriamo, e ci sono dei segni molto promettenti, che ci si poggi sulla categoria dell’altro. In principio era ‘l’altro’ e non ‘l’io’. In principio era l’altro. L’altro intronizzato, messo al centro della propria attenzione. Lo so che possono sembrare affermazioni fumose, dette in tal modo da un delirante. Però vi dico che queste sono le idee vincenti del domani perché sono state seminate già da parecchio tempo fa e non sempre da pensatori cristiani, ma anche da uomini di pensiero pagani. Ormai c’è un entroterra culturale che va diventando sempre più serio, sempre più vasto, sempre più scientifico”[11].

Tonino Bello, il vescovo profeta, testimonia questa spiritualità nella sua unione mistica con Gesù resa visibile nel riconoscimento della dignità della persona umana anche nel volto sfigurato dell’ubriacone, di colei che non ha nome, ma è solo una scheda nella catena di montaggio. Con fede operosa proclama che Dio è “‘il totalmente Dentro’, che si è fatto inquilino di quell’appartamento privatissimo che si chiama ‘persona umana’”; che “l’indirizzo provvisorio della SS. Trinità porta i connotati di ciascuno di noi”[12]. Nei volti di Antonio il pescatore, di Gennaro l’ubriaco, di Mohamed il marocchino, di Marta la scheda perforata, di Giuseppe l’accattone, e di tante altre persone vede il Signore che invoca aiuto e dona amore. Dio e l’uomo sono intimi amici, per questo è possibile scrivere, “in parallelo a certe preghiere rivolte a Dio, formulazioni simmetriche riferite all’uomo”[13]. La profonda fedeltà a Dio si traduce in profonda fedeltà all’uomo che è Tempio dell’Altissimo, Casa del Re, Basilica Maggiore[14]. Così Mons. Tonino immagina il Signore che si toglie la corona di gloria e di onore e la colloca sul capo della sua creatura e si compiace nel vedere che le sta bene e sembra dirle con un sorriso: “Lo sai che ti dona? Tienila pure, senza profanarla!”[15]. La persona umana – qualunque sia il suo volto e la sua condizione fisica, psicologica e persino spirituale – è sempre il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla.

Siamo interpellati a tradurre queste convinzioni in progetto culturale, in criteri operativi, in principi dinamici presenti costantemente nell’agire personale e comunitario.

 

Dall’origine peregrinando verso Escaton

Giovanni mette sulla bocca del sommo sacerdote Caifa la profezia: “Gesù doveva morire […] non soltanto per la nazione, ma affinché raccogliesse in unità i figli di Dio dispersi” (Gv 11,51s), sottolineando che il principio della carità qualifica la vicenda di Gesù come vicenda che interessa l’universo. Egli viene a salvare tutti perché è all’inizio della creazione, quale sapienza creatrice, è senso della storia nel suo processo, è la meta, la definitività, la pienezza. Quindi non solo è all’origine e alla fine, ma è la via: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). E l’Eucaristia, cibo e logica della vita cristiana, è pane nel cammino della vita. Il messaggio evangelico per struttura, per costituzione è universale, per essenza porta all’unità del genere umano. Non a caso Gesù nella sua opera missionaria rimanda alle origini per dire che tutto trova senso nella sua persona.

Non è questo il luogo per esplicitare la ricchezza di queste annotazioni. Solo richiamo una coordinata antropologica per segnalare l’universalità della proposta di Gesù che non si contrappone alla ricerca umana di salvezza, quindi la nostra proclamazione di fede non può essere una violenza alla coscienza altrui. L’ecumenismo non può significare latitanza e clandestinità, ma interpella alla professione di fede coraggiosa che non è rivendicazione fondamentalista di privilegi, ma servizio sulla via inaugurata da Gesù del “Li amò sino alla fine”. 

“Al principio della creazione” (Mc 10,6); “Di chi è l’immagine? Di chi è l’iscrizione […]. Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17); “Non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi” (Mc 12,27); “Il comandamento principale […]. Non sei lontano dal regno di Dio” (Mc 12,34)[16]

“Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza […]. Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò” (Gn 1,26-27); “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18); “Come sono belle le opere del Signore […]. Sono fatte a coppia. L’una conferma il bene dell’altra: chi può saziarsi vedendone la bellezza?” (Sir 42,22-25)…

Tutto il messaggio biblico è un canto alla misericordia del Signore e, quindi, un’esaltazione della creatura umana fatta a sua immagine e posta come sua collaboratrice nella perfezione dell’universo. Vorrei riportare qualche annotazione della studiosa ebrea Giacoma Limentani per sottolineare la cattolicità di questo messaggio e il suo compimento in Gesù. È un messaggio sull’umano che non può essere rinchiuso nel recinto di un’appartenenza confessionale come proposta esoterica.

Ella considera il duplice racconto biblico della creazione in chiave nuziale. “Non è bene che l’uomo sia solo, gli darò un aiuto idoneo a lui” (Gn 2,18) è il giudizio critico radicale ad ogni fascinazione dell’autoisolamento e della solitudine. L’aiuto idoneo keneghedò (contrazione di kemò neghed otò = contro di lui). L’uomo ha una compagna che gli sarà d’aiuto nella misura che egli ne sarà degno, altrimenti gli si ergerà contro come una nemica. Ovviamente vale pure l’opposto, perché l’aiuto è reciproco e la reciproca idoneità scaturisce da continui dialoghi dell’anima. Nello Zohar, testo fondamentale della qabbalah si dice che la coppia umana costituisce un’entità unica e in sé completa, mentre se presi ognuno a se stante, maschio e femmina, presentano la sola metà di un intero. Ancora, afferma che le anime nascono bisessuali. L’angelo preposto alle nascite ne separa i sessi al momento di introdurli nei corpi loro destinati. Da quel momento le due mezze anime si cercano. E il congiungimento dei due corpi nei quali albergano provoca tutto intorno una gioia tale da affrettare l’avvento dell’era messianica.

“Tradizione vuole che all’inizio dei tempi oltre a essere Eterno, Dio sia anche Onnipresente. Come dire: non solo unico, ma anche solo e quindi privo di una controparte con cui confrontarsi, dialogare e soprattutto da amare. Perciò Egli si autolimita creando al Proprio interno uno spazio nel quale fa filtrare la Sua luce creatrice, e ciò anche per insegnare che non può esserci frutto senza separazione dalla pianta, né può nascere dialogo all’interno di un’entità unica e indifferenziata. Ne è prova l’acqua, primordiale fonte di vita, ma che se resta ferma in un punto, massa inerte e amorfa, ristagna. Acqua in ebraico si dice maim e d’acqua, di maim, era pieno l’abisso primevo […]. Dio contemplò quella massa amorfa e disse: ‘Sham maim! Là, acque’, con questo imperativo separando la massa amorfa in due parti, di cui una si chiamò shammaim, che è il nome del cielo. Divise, le due masse d’acqua si riflettono l’una nell’altra acquistando coscienza delle proprie rispettive identità, e così facendo dialogano fra loro con le gocce della pioggia che scendono dall’alto e i vapori della vegetazione che salgono dal basso e, dialogando, creano l’atmosfera grazie alla quale a noi è dato vivere. Le acque di sotto sono poi chiamate a limitarsi per far posto alla terra che deve emergere, e ad annaffiarla in modo da dar vita alla vegetazione. A sua volta la terra produce cibo anche per i pesci, che con la loro esistenza vivificano l’acqua creando un humus ideale sia per chi curerà la terra al contempo nutrendo il mare, sia per chi il mare navigherà arricchendo il dialogo fra le genti. Per ottenere però chi la terra coltiverà e chi il mare navigherà, acqua e terra dovranno separarsi da una parte di sé, in modo che l’Eterno possa fare la pasta con cui plasmare l’umanità. Una pasta fatta di terra, adamah, dalla quale sorgerà Adam, Adamo.

Siamo abituati a considerare Adamo un nome proprio maschile, ma ciò è esatto fino a un certo punto. Adam è la creatura terrestre quanto terrena e troppo spesso terragna, creata a un tempo maschio e femmina e soprattutto plasmata con haadamah, con la terra: con quella particolarissima manciata di terra scelta per la sua duplice creazione. Una e duplice, questa creatura si riproduce ripiegandosi su se stessa in modo che le due lettere estreme ed uguali che indicano la materia di cui è formata arrivino a sovrapporsi, e quindi le sue due parti possano guardarsi negli occhi così prendendo conoscenza vuoi delle rispettive e reciproche identità, vuoi del senso dell’amore che le unisce. E quando così si amano guardandosi negli occhi, il cielo si spalanca rendendo possibili altre conoscenze.

Il nome Adam, ad esempio, oltre a indicare la prima coppia umana, è scindibile in due parti. La prima lettera, cioè la, alef […] prima dell’alfabeto, corrispondente al numero uno e ideogramma di un essere umano con gambe e braccia aperte e tese ad abbracciare l’universo, rappresenta l’assoluta e insostituibile unicità di ogni essere umano, le sue singolarissime intelligenza e spiritualità. Le altre due lettere dam, sangue: il flusso vitale comune a tutti gli esseri umani, che li rende equivalenti e fisicamente consapevoli del bene come del male che possono fare a se stessi e ai loro simili. Le due parti che formano ogni singolo sono inscindibili e il prevalere di una qualsiasi sull’altra altera l’umano equilibrio […].

In Gn 2,18 Dio annuncia con: Non è bene che l’uomo sia solo, gli farò un aiuto idoneo a lui. Segue la faccenda della costola: un dare per avere che scava accanto al cuore dell’uomo un posto per l’amore, che la donna alberga invece, connaturato, nella cavità dell’utero. L’uomo deve dunque darsi perché la donna si dia, e il reciproco darsi deve essere intellettuale e spirituale oltre che fisico. Dopo questo secondo racconto Adam, il terrestre, diventa nome proprio e così Kkawah-Eva, la vitale, mentre in Gn 2,23 compaiono Ish, uomo e Ishah, donna, due nomi comuni derivati dalla stessa radicale, eppure portatori di una particolarità che l’esegesi midrashica illustra con una delle sue più belle letture.

IshIshah sono composti da due lettere uguali e da due diverse. Le due lettere diverse corrispondono alle due lettere del Tetragramma con le quali l’Eterno ha creato l’universo. 

Una piccola nota conclusiva sul tetragramma, speciale formulazione del verbo essere, che esprime il nome ineffabile dell’eterno Creatore, come pure la sua misericordia. E misericordia si dice rakhamim, che scrivendosi l’ebraico senza vocali si può leggere anche rekhamim: uteri”[17].

Il NT nell’annuncio di Gesù e su Gesù è l’ermeneutica del compimento; le sue teologie lo illustrano abbondantemente, in particolare quella di Giovanni e di Paolo. Tutta la tradizione cristiana più significativa è testimone della pienezza di senso che Gesù dà ai racconti biblici della creazione e al messaggio antropologico di tutta la Scrittura. Rimando alla proposta che Giovanni Paolo II ci offre in tal senso nella Mulieris dignitatem. In Novo Millennio Ineunte in maniera ancora più esplicita la offre come principio operativo e imperativo pastorale per la Chiesa universale.

La comunità cristiana è interpellata a testimoniare questa antropologia che diventa confessio Trinitatis (la persona è a immagine della Trinità), quindi deve proclamare il monoteismo cristiano che non è di solitudine, ma di comunione, una comunione che è la radice della comunione delle persone e dei popoli (cfr. LG 1). È una profezia oggi di fondamentale e radicale importanza per il cammino della comunità umana verso la pace genuina, oltre le complicità delle convenzioni che nascondono interessi di parte. La Bibbia ci ammaestra che senza la dimensione teologale, senza le lettere del tetragramma, ish e ishah danno il fuoco che divora, che distrugge. La Chiesa è inviata perché con il suo essere e la sua missione profetizzi e realizzi questo mistero.

 

“Popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”

La Chiesa è sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (LG 1). Il Papa ci invita a “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione (NMI 43)[18].

Nello svolgimento di questo compito un ruolo particolare spetta alla vita consacrata, come viene attestato da tutta la tradizione cristiana e come attesta specialmente la storia dell’Europa, la quale nelle sue alterne vicende che la conducono ad unire le etnie, i popoli, le culture, le tradizioni, ha visto molte persone consacrate, donne e uomini, costruire con generosità la comunione traducendola in civiltà di amore. “La vita consacrata ha sicuramente il merito di aver efficacemente contribuito a tener viva nella Chiesa l’esigenza della fraternità come confessione della Trinità […], ha rivelato che la partecipazione alla comunione trinitaria può cambiare i rapporti umani”, sottolinea Vita Consecrata (n. 41). “Alle persone consacrate si chiede di essere davvero esperte di comunione e di praticarne la spiritualità, come testimoni e artefici di quel ‘progetto di comunione’ che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio” (n. 46).

Le nuove generazioni hanno bisogno di questo proclama, specie in Europa: “I giovani europei vivono in questa cultura pluralista e ambivalente, ‘politeista’ e neutra. Da un lato cercano appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza d’orizzonti, dall’altro sono fondamentalmente soli, ‘feriti’ dal benessere, delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento etico […]. Due aspetti, comunque, ci sembrano centrali per capire l’atteggiamento giovanile odierno: la rivendicazione della soggettività e il desiderio di libertà. Sono due istanze degne d’attenzione e tipicamente umane”[19].

La soggettività è un appello, un’invocazione di nuova antropologia che oltrepassi la cultura dell’individuo per una cultura della persona fatta a immagine di Dio in Cristo. La libertà, distinta dall’arbitrio, porta iscritto in sé il segno di appartenenza a Dio, cioè l’ethos dell’amore, il comandamento fondamentale. Gesù nella sua vicenda porta a compimento questo ethos nel suo amore senza limiti al quale partecipiamo quotidianamente (secondo la quotidianità delle donne che hanno comunicato la fede) nell’Eucaristia. E una donna è stata per eccellenza donna di comunione: Maria, la nuova Eva che ricapitola le generazioni dalla prima Eva.

Nella Mulieris dignitatem il Papa mette in particolare rilievo questi elementi. Riporto qualche espressione, rimandando a quel pensare meditativo che egli ha messo in moto nell’elaborare questa sua antropologia dell’umano al femminile. “Col suo ‘fiat’, Maria diviene l’autentico soggetto di quell’unione con Dio, che si è realizzata nel mistero dell’incarnazione del Verbo consustanziale al Padre. Tutta l’azione di Dio nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà dell’‘io’ umano” (n. 4). “La dignità di ogni uomo e la vocazione ad essa corrispondente trovano la loro misura definitiva nell’unione con Dio. Maria – la donna della Bibbia – è la più compiuta espressione di questa dignità e di questa vocazione” (n. 5). “Il confronto Eva-Maria ritorna costantemente nel corso della riflessione sul deposito della fede ricevuta dalla Rivelazione divina […]. Di solito in questo paragone emerge a prima vista una differenza, una contrapposizione. Eva, come ‘madre di tutti i viventi’ (Gn 3,20), è testimone del ‘principio’ biblico, in cui sono contenute la verità sulla creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio e la verità sul peccato originale. Maria è testimone del nuovo ‘principio’ e della ‘creatura nuova’ (cfr. 2 Cor 5,17). Anzi, ella stessa, come la prima redenta nella storia della salvezza, è ‘creatura nuova’: è la ‘piena di grazia’. È difficile comprendere perché le parole del Protovangelo mettano così fortemente in risalto la ‘donna’, se non si ammette che in lei ha il suo inizio la nuova e definitiva Alleanza di Dio con l’umanità, l’Alleanza nel sangue redentore di Cristo. Essa ha inizio con una donna […]. All’inizio della Nuova Alleanza, che deve essere eterna e irrevocabile, c’è la donna: la Vergine di Nazareth. Si tratta di un segno indicativo che ‘in Gesù Cristo’ ‘non c’è più uomo né donna’ (Gal 3,28). In lui la reciproca contrapposizione tra l’uomo e la donna – come retaggio del peccato originale – viene essenzialmente superata. ‘Tutti voi siete uno in Cristo Gesù’, – scriverà l’Apostolo (Gal 3,28). Queste parole trattano di quell’originaria ‘unità dei due’ che è legata alla creazione dell’uomo, come maschio e femmina, ad immagine e somiglianza di Dio, sul modello di quella perfettissima comunione di Persone che è Dio stesso. Le parole paoline costatano che il mistero della redenzione dell’uomo in Gesù Cristo, figlio di Maria, riprende e rinnova ciò che nel mistero della creazione corrispondeva all’eterno disegno di Dio Creatore. Proprio per questo, il giorno della creazione dell’uomo come maschio e femmina ‘Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona’ (Gn 1,31). La redenzione restituisce, in un certo senso, alla sua stessa radice, il bene che è stato essenzialmente ‘sminuito’ dal peccato e dal suo retaggio nella storia dell’uomo. La ‘donna’ del Protovangelo è inserita nella prospettiva della redenzione.

Il confronto Eva-Maria si può intendere anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della ‘donna’, il cui inizio è Eva, ‘la madre di tutti i viventi’ (Gn 3,20): prima di tutto lo assume e lo abbraccia all’interno del mistero di Cristo – ‘nuovo ed ultimo Adamo’ (cfr. 1 Cor 15,45) – , il quale ha assunto nella propria persona la natura del primo Adamo. L’essenza della Nuova Alleanza consiste nel fatto che il Figlio di Dio, consustanziale all’eterno Padre, diventa uomo: accoglie l’umanità nell’unità della Persona divina del Verbo […]. Il mistero della Redenzione del mondo presuppone che Dio-Figlio abbia assunto l’umanità come eredità di Adamo, divenendo simile a lui e ad ogni uomo in tutto, ‘escluso il peccato’ (Eb 4,15). In questo modo egli ha ‘svelato anche pienamente l’uomo all’uomo e gli ha fatto nota la sua altissima vocazione’ […]. In un certo senso, lo ha aiutato a riscoprire ‘chi è l’uomo’ (Sal 8,5) […].

Maria è la rivelazione piena di tutto ciò che è compreso nella parola biblica ‘donna’: una rivelazione commisurata al mistero della Redenzione, […fa] riandare verso quel ‘principio’ in cui si ritrova la ‘donna’ così come fu voluta nella creazione, quindi nell’eterno pensiero di Dio, nel seno della Santissima Trinità. Maria è ‘il nuovo principio’ della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna […]. In Maria, Eva riscopre quale è la vera dignità della donna, dell’umanità femminile. Questa scoperta deve continuamente giungere al cuore di ciascuna donna e dare forma alla sua vocazione e alla sua vita” (n. 11).

La nostra identità personale e comunitaria si costruisce andando a questo nuovo principio e coniugandolo nella storia quotidiana, consapevoli che tutto il Signore ha santificato e chiama noi a proclamare con la vita questa santità nuova, veramente cattolica. “Viviamo in un’epoca sicuramente senza precedenti e nella situazione presente l’universalità, che un tempo poteva essere implicita, deve essere ora totalmente esplicita. Essa deve impregnare il linguaggio e tutto il modo di essere. Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti”. “Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni, senza eccezione, perché è cattolico”. “Bisogna essere cattolici, cioè non essere legati da un filo ad alcuna creatura, bensì alla totalità della creazione”[20].

 

 

 

Note

[1] Novo Millennio Ineunte 42.

[2] È la prospettiva sottolineata in maniera esemplare dalla costituzione dogmatica conciliare Dei Verbum.

[3] DELBRÉL M., Che gioia credere, Torino, Gribaudi 1979, 141.

[4] In un incontro sulla pastorale universitaria a Roma è emerso questo vuoto di conoscenze di Vangelo nel mondo giovanile italiano. La CEI ha fatto un’indagine molto interessante di imminente pubblicazione sui cui dati sarà interessante ritornare dal punto di vista nostro, cioè della pastorale vocazionale.

[5] Novo Millennio Ineunte 5.

[6] FARINA M., Percorsi di spiritualità nella storia del cristianesimo cattolico, in AA.VV., La donna: memoria e attualità, Città del Vaticano, LEV 2000, II, 2, 5-146. 

[7] Cfr. Il corpo che siamo. Introduzione all’antropologia etica, Torino, SEI 1991, 3.

[8] PONTIFICIA OPERA DELLE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa (Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa – Roma 5-10 maggio 1997), 11 b-d.

[9] S. CATERINA DA SIENA, Dialogo della Divina Provvidenza, Bologna, Edizioni Studio Domenicano 1989, versione in italiano corrente a cura di RASCHINI M. A., 402s, 419. 

[10] Lumen Gentium 1.

[11] BELLO A., Ti voglio bene, Molfetta (Bari), Luce & vita 1993, 14s.

[12] BELLO A., La nostra anagrafe è cambiata, in Scritti mariani, Lettere ai catechisti, Visite pastorali, Preghiere, Molfetta, Mezzana 1995, 2, 372, 340s.

[13] ID., Costruttori di scale e di ponti, in Scritti 3, 124.

[14] ID., L’hai fatto poco meno degli angeli, in Scritti 3, 123, 194.

[15] ID., Di gloria e di onore la hai coronato, in Scritti 3, 124, 195 s.

[16] In altre occasioni ho esplicitato questi elementi, cfr. ad esempio Unigenito e Primogenito. L’esemplarità di una vicenda, in DOSIO M. – – MENEGHETTI A. (a cura di), Celebriamo il Signore. Per un’educazione al celebrare cristiano in un tempo di pluralismo rituale, Roma, LAS 1995, 27-66; Caro Christi caro Mariae. Una prospettiva, in BOF G. (a cura di), Gesù di Nazaret, Figlio di Adamo, Figlio di Dio, Milano, Paoline 2000, pp. 122-176.

[17] LIMENTANI G., Regina perché metà, in TARICONE F. (a cura di), Maschio e femmina li creò, S. Pietro in Cariano, Il Segno dei Gabrielli Editori 1998, 67-69; cfr. ID., Uteri o profeti?, in VALERIO A. (a cura di), Donna, potere e profezia, Napoli, D’Auria 1995, 9-23.

[18] Rimando alla relazione che espliciterà in maniera magistrale questa dimensione. 

[19] Nuove vocazioni per una nuova Europa, 11b. 

[20] WEIL S., L’attesa di Dio, Milano, Rusconi 1988, p. 68s.