N.01
Gennaio/Febbraio 2003

Come si propone il valore della vocazione al servizio all’interno della pastorale ordinaria perché apra ad una vocazione consacrata

Da quando mi è stato chiesto di riflettere sulla mia esperienza di aiuto ai giovani in ricerca della loro vocazione per comprendere come proporre il valore della vocazione al servizio, una domanda mi è nata spontanea e la condivido con semplicità ai lettori di ‘Vocazioni’: è possibile educare un giovane al senso della vita e alla scoperta della vita come vocazione, aiutarlo a discernere la volontà di Dio nei confronti di una scelta di consacrazione, senza esplicitare il discorso sul servizio? È possibile accompagnare un ragazzo o una ragazza nel discernimento di quanto il Signore chiede senza aver chiaro che ogni chiamata apre alla missione? Personalmente non credo possibile nessun accompagnamento vocazionale senza questa convinzione: “La vita è il capolavoro dell’amore creativo di Dio ed è in se stessa una chiamata ad amare. Dono ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato” (NVNE 16b). Per questo non credo possa esserci accompagnamento vocazionale che non abbia come riferimento costante quello della vita vissuta nel dono di sé.

Proprio alla fine di un corso di esercizi spirituali una ragazza, che da tempo sto accompagnando nel discernimento vocazionale, ha sintetizzato così la sua esperienza del Signore: “Ho capito che ogni vocazione è servizio. Quando ti sentivo ripetere che l’esperienza dell’amore ricevuto deve necessariamente trasformarsi in un amore che si dona, mi chiedevo cosa concretamente potesse significare. Ritornando con calma e pazienza sulla mia storia ho intravisto i segni di un Amore personale, fedele, paziente… mi sono sentita sì oggetto d’amore ma anche ‘improvvisamente’ capace di ricambiare l’amore ricevuto. Mi sembra di aver più chiaro che se la mia vita non diventa un concreto servire lì dove il Signore mi chiama ad essere, la mia ricerca sarà sempre una ricerca di me stessa e della mia realizzazione personale. Ora posso partire…”.

Nel suo sguardo mi è sembrato di intravedere una luce di gioia particolare, come chi veramente ha trovato il bandolo di una matassa fino a poco prima difficile da dipanare. È il passaggio dalla testa (il capire) al cuore (l’amare quanto compreso). Ho grande fiducia che per lei da ora in poi non sarà più tanto complicato mettere in movimento anche le mani (volere ciò che desidera) per verificare la pace interiore e attiva che scaturisce dal dono di sé. Ho il dono di condividere la storia di vita di molti giovani, dentro e fuori la mia comunità e questo mi ha portato a credere sempre più necessario “dare tempo” per aiutare chi incontro a fare quel meraviglioso viaggio dentro la propria storia, per ritrovare le tracce di un Amore personale, farne esperienza e “fare come Lui ha fatto” (cfr. Gv 13,12-15), aprendo la propria esistenza a quanto il Signore chiede.

Senza rischiare di classificare le persone per ciò che dicono o fanno – la storia personale è sempre un mistero da accogliere e amare – mi sembra di poter comprendere come per alcuni la realtà di una vita donata nel servizio va “sollecitata” e per altri la medesima realtà “va purificata”. C’è chi, apparentemente più attento alla vita spirituale o più amante dell’interiorità, sembra non aver molto presente come l’incontro con il Signore della vita chiama sempre ad esporsi, a farsi prossimo, a scegliere coloro che Lui ha scelto. In questi giovani è importante un’educazione a piccoli gesti di gratuità, a darsi da fare dentro la propria realtà parrocchiale o sociale, a prendersi degli impegni a favore degli altri verificandosi soprattutto nella continuità. Un proporre gesti di servizio, di volontariato, da cui non aspettarsi niente in cambio. Mi sembra sempre importante aiutare a riconoscere, dentro le attitudini personali, ciò che può dare sapore alla propria esistenza uscendo un po’ dal guscio del proprio individualismo. È un lavoro paziente capace però di far fare i conti con la propria insicurezza o timidezza o, spesso, con la propria indifferenza o paura di fallire. Di conseguenza, vi è la scoperta trasformata in esperienza dell’essere chiamati a “stare” con il Maestro per essere da Lui “mandati” (cfr. Mc 3,14-15).

C’è chi, al contrario, è tutto proteso al fare e sembra dimenticarsi del “perché” si prende a cuore tante realtà. Anche con questi giovani c’è il paziente scavo dentro le motivazioni del proprio agire. Viene così alla luce non la trasparenza del “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8) ma la paura della solitudine, o la mania del protagonismo, o il bisogno di una gratificazione fatta di consensi. È importante, con questi giovani sempre in movimento, aiutarli a fermarsi di fronte all’Autore di ogni dono per ritrovare il centro unificatore della propria esistenza, e fare la vera esperienza di Colui che solo ha fatto della propria vita un autentico dono d’Amore. Qualsiasi impegno ritrova così il proprio senso perché non solo si comprende cosa si fa ma soprattutto per chi lo si vive. È la gioia del discepolo che gioisce non per quello che ha saputo fare ma perché il proprio nome è scritto in cielo, come a dire che nel suo fare ha messo più a fuoco quel disegno personale scritto nel cuore del Padre.

Ma per tutti, per quei giovani ancora troppo legati al proprio nido o per quelli troppo lanciati nell’attivismo, mi sembrano importanti “quattro passi” che mettono in luce un possibile “come” proporre la vocazione al servizio capace di aprire alla vocazione consacrata. Ogni esperienza di servizio deve trovare senso dentro il vissuto del giovane, il che equivale a dire che deve essere significativa per comprendere la volontà di Dio. Mi è capitato spesso di trovare giovani presenti in “tutte” le iniziative parrocchiali, giovanili, diocesane ma che non hanno mai preso confidenza con la propria storia. Aiutare a comprendere la propria chiamata a servire cominciando a conoscere, amare, accogliere la propria storia significa iniziare a fare l’inventario dei propri doni e talenti senza correre il rischio di sotterrare quello più prezioso: la propria vocazione.

Nello stesso tempo l’esperienza del servizio deve essere proporzionata al processo di crescita in atto nel giovane. La chiamata a servire è concretezza di vita ma troppo spesso vengono fatte proposte non adeguate alle possibilità del giovane, o giocando troppo al ribasso con il rischio di stancare in fretta, o pretendendo troppo con una conseguente frustrazione che demoralizza. Molte proposte sono come “appiccicate” al suo vissuto senza tener conto della trama che si sta tessendo. Comprendere cosa quel giovane può essere chiamato a vivere significa rileggere continuamente con lui la sua personale esperienza e in essa ritrovare i segni della Sua volontà e… attivamente compierla.

Per questo all’interno di un cammino di discernimento vocazionale è importante che ogni proposta ed esperienza sia accompagnata da chi ha già fatto un tratto di strada. Questo può aiutare a far luce su possibili fraintendimenti o equivoci, sorreggere quando c’è la tentazione di lasciar perdere, confrontare e confermare quelle luci accese lungo il cammino e che rivelano la Sua volontà.

Infine, perché ogni impegno diventi chiamata a servire, mi pare indispensabile far sì che esso sia costantemente verificato. Ogni esperienza autenticamente vissuta mette in luce una nuova comprensione di sé, della propria relazione con Dio e con gli altri. Il giovane, in questo intreccio di vita, può scoprire come il farsi servi non è un optional del vivere cristiano ma è l’unico modo per “capire” veramente ciò che è stato fatto a lui (“Mi ha amato e ha dato se stesso per me” Gal 2,20). Ed è a questo punto che può nascere l’interrogativo di come assaporare per sempre, in una vocazione totalmente consacrata al servizio di Dio e dei fratelli, la gioia dell’amore capace di fare dono di sé, lì dove il Signore ha veramente iscritto la pienezza della vita di ciascuno.