N.01
Gennaio/Febbraio 2003

La vocazione al servizio è alla base dello sviluppo di ogni vocazione. Le grandi linee di ecclesiologia pastorale in ordine al tema del servizio

Vorrei partire da una evidenza ben conosciuta in tutte le comunità: la difficile perseveranza dei ragazzi e degli adolescenti dopo gli anni del la catechesi. È un ritornello comune che non ha bisogno di essere documentato. Più difficile la spiegazione legata ai fattori dissociativi tipici dell’età e all’attuale clima culturale a dir poco disimpegnato. In crisi nonostante generosità e buona volontà spesse volte esemplari, sono catechisti ed educatori e la stessa catechesi accusata di essere troppo nozionistica e poco esperienziale. Si avverte al riguardo l’esigenza, e sempre più si tende a privilegiare sistematicamente l’impegno, cioè forme esigenti di servizio nella comunità. Pista che ha bisogno di essere meglio studiata e circostanziata, ma che difficilmente potrà essere rimossa.

Come si vede questa constatazione ci porta al discorso del servizio. Non si può essere buoni cristiani se non si accetta di percorrere questa strada e, inversamente, si può ben dire che l’impegno della carità, che è poi il nocciolo del servizio nella visione cristiana, diventa segno di appartenenza e strumento
insostituibile non solo di “perseveranza” ma di crescita nella via del Vangelo. Ci sono intuizioni e percezioni che precedono anche la fondazione teoretica,la quale resta ovviamente essenziale. Possiamo fare un rapido cenno alla natura umana, che è una per tutte le creature intelligenti. Ciò porta a pensare che in una antropologia corretta l’uomo è un essere aperto agli altri. Le varie civiltà hanno sfumato e ridotto questa qualità nativa, ma senza toglierla. È piuttosto la cultura che ha limitato ai “vicini”, ai “nostri”, il dovere dell’amore. Ma oggi ancora una persona chiusa e ripiegata solo sui suoi interessi è ritenuta un fallimento. Emblematico in questo tempo di chiusure determinate dall’interesse, dalla razza, dalla nazionalità, il fiorire di un volontariato sempre più vigoroso e largo.

Il nostro discorso si arricchisce molto di più se accettiamo la dimensione cristiana. Esiste un’antropologia cristiana dove l’uomo è visto sul modello di Cristo Signore, vero uomo e vero Dio. Per restare vicini a noi basterebbe ripercorrere un testo ufficiale come la Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II. “L’unione della famiglia umana viene molto rafforzata e completata dall’unità della famiglia dei figli di Dio fondata da Cristo” (n. 42). Nessun esclusivismo, dunque, ma anche nessun trasformismo. “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo perché nulla vi è di genuinamente umano che non trova eco nel loro cuore” (GS 1). È solo in Cristo che si comprende pienamente l’uomo. L’originalità che il servizio agli altri, all’umanità, assume nella visione cristiana non è quella di semplice ritocco. Potremmo dire che aggiunge almeno tre cose capitali: l’aggancio diretto alla natura e alla vita di Dio secondo il modello trinitario rivelatoci da Gesù; l’universalità della destinazione non più limitata ai “vicini” ed agli “amici”; l’assunzione di tutto l’uomo nei suoi bisogni fisici, morali e spirituali. Le “opere di misericordia” di cui ci parla il Catechismo non sono solo corporali. Si allarga il bisogno a quelle spirituali. E basterebbe questo per ribadire la formidabile attualità di questo discorso.

 

Cristo è servo: per questo parliamo di servizio

La nostra riflessione può dunque arricchirsi dell’esempio e dell’insegnamento di Cristo Signore. Un culmine della teologia veterotestamentaria è comunemente identificato nei “Carmi di Javhè” che il Deuteroisaia raccoglie nei suoi scritti (capitoli 42, 49, 50, 52, 53). Il tema del servizio, come si vede, viene da lontano. Si può anzi dire che diventa discriminante per la mentalità che Israele aveva nei confronti del Cristo che doveva venire. Non più minacce di sconvolgimenti e catastrofi. Il Servo riutilizza la canna rotta e non la getta via, non spegne la lucerna fumigante, ma ne aggiusta lo stoppino.

Dunque Cristo è servo. Per questo parliamo di servizio. Servire, per lui, non è una metafora. “Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28 e Mc 10,45). E lo fa davvero in tutte le direzioni, materiali e spirituali. Nell’Ultima Cena, prima del servizio più alto ed impegnativo che è la sua Passione, egli tira le conclusioni. In molte parabole egli identifica i suoi amici con i suoi servi. C’è tutta una letteratura su questo tema. Dopo la lavanda dei piedi ai discepoli, egli è stringato: “Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,13 ss). “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17). Più chiaro di così.

Sia pure brevemente mi pare utile citare un altro testo classico in materia di impegno e di servizio. A ben pensarci quello del servizio è uno dei punti più diffusi del Vangelo: Gesù sa benissimo che i suoi apostoli la pensano come gli altri, cioè molto diversamente. Il potere come dominio. E invece “chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10,44). Doveva essere duro per lui predicare, come per gli altri ascoltare. Tuttavia egli promette, chi serve bene, con fedeltà, avrà in ricompensa un premio speciale. Sarà il padrone a cingersi i fianchi e servire i suoi servi (Lc 12,37). Ma nessuno protesta. “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). Non si può tentare di riassumere qui la larga discussione che questa parabola ha innescato. Ci si può accontentare di tradurre “Siamo soltanto dei servi. Che possiamo pretendere di più?”.

Altri richiamano l’attenzione che il termine greco non dice tanto “servitori”, ma “schiavi” (douloi). Ciò comporta un rapporto molto più forte nel servizio del padrone. “Gesù – annota Carlo Ghidelli – esige l’attitudine delle schiavo, che non si oppone a quella del servo, ma la integra e la porta a perfezione. Nella sua Chiesa, i responsabili Gesù li vuole totalmente legati a lui e totalmente dediti alla comunità: come schiavi”. “La vecchia regola dell’umiltà – commenta J. Ernst – è stata trasformata in una regola della comunità con la parola dominante ‘schiavo’. Il doppio ‘fra voi’ suggerisce una funzione nella comunità. L’espressione schiavo può essere dettata dall’esempio di Cristo, che è divenuto egli stesso schiavo (Fil 2,7). Per ciò che concerne l’oggetto non viene detto altro, nella comunità cristiana valgono altre leggi, diverse da quelle del dominio e del prestigio. I concetti: l’ultimo, il servitore, lo schiavo, indicano il nuovo ordine… Egoismo e sete di potere, come ogni volontà di potenza sono qui superati in linea di principio” (J. Schmid).

 

Centralità del servizio al “povero”

Facciamo un passo avanti. L’esempio e l’insegnamento di Gesù sul servizio, generano nelle comunità cristiane un comportamento fortemente motivato, che si traduce addirittura in una istituzione: il diaconato. L’occasione iniziale, riferita dal libro degli Atti degli Apostoli, è la necessità di disporre un servizio alle mense (At 6), ma subito la qualità e la quantità dei servizi si allarga. Una migliore conoscenza della teologia e della storia del diaconato non guasterebbe davvero di fronte al perdurare in molte comunità di concezioni riduzionistiche ed improprie che riducono i diaconi a “sacristi di lusso” o a “laici dimezzati”. Non è questo il nostro assunto, ma mi sembra fortemente stimolante che nel piano di una Enciclopedia Pastorale (a cura di B. SEVESO E DI L. PACOMIO, Ed. Piemme), una parte specifica sia riservata alla diaconia come verifica obbligata dell’impegno pastorale nella sua globalità.

Una lettura del Vangelo e del NT in questa chiave è facilissima. Cristo Signore è venuto per servire e non essere servito (cfr. Mt 20,28 e Mc 10,45). In tutta la sua vita manifesta solidarietà verso i bisognosi nel corpo e nello spirito. I peccatori sono la parte più ambita del suo servizio (Mt 9,13). E si giunge alla fine, che è il servizio più grande, quello della vita: corpo dato e sangue versato per la salvezza dell’umanità; insieme c’è la consegna che fa da sfondo del giudizio in quella pagina di attualità sempre rinnovata che è il capitolo XXV di S. Matteo: la identificazione del Cristo col povero: “Quello che avete fatto all’ultimo, lo avete fatto a me”(Mt 25,40).

Questa centralità del servizio al povero è una costante nella Bibbia. Non si può parlare di Vangelo senza incontrare ad ogni svolta i poveri. Erano essi l’obiettivo numero uno del regno messianico come si afferma nel discorso della Sinagoga di Nazareth (Le 4). Gesù allarga il concetto di povero a tutte le povertà. Certi miracoli sono in funzione di rivelare la sua preoccupazione per i bisogni spirituali dell’uomo, L’Antico Testamento prospetta l’ideale messianico non solo nell’attenzione al povero, all’orfano, alla vedova, al forestiero, ma ad un regime sociale dove tutti possano vivere autonomamente, con dignità. L’Autore degli Atti annota che l’obiettivo delle prime comunità cristiane era che nessuno tra loro fosse bisognoso (At 4,34). E l’ideale cristiano sarebbe solo l’elemosina? “Gesù si presenta come ‘Cristo’, cioè unto, consacrato, inviato di Dio, appropriandosi di Is 61,l ss; i poveri gioiscono, i ciechi vedono, gli oppressi sono liberati, e per tutti è proclamato l’anno giubilare (cfr. Lc 4,18-19). Gesù è ‘preso alle viscere’ alla vista di una vedova cui ridona il figlio morto (cfr. Lc 7,13), alla vista della folla per la quale moltiplica il pane (cfr. Mt 15,32ss). Accoglie i bambini (cfr. Mc 10,13-16), converte la samaritana (cfr. Gv 4,1ss), perdona la peccatrice (cfr. Lc 7,36ss) come l’adultera (cfr. Gv 8,1ss). Egli non si limita però a soffrire con i poveri. Sollecita gli sfruttatori a conversione (Lc 19,1 ss) e stigmatizza la disonestà dei farisei (Lc 11,42; Mt 23,16-24), degli scribi che divorano i beni delle vedove, dei sadducei e dei sacerdoti che hanno reso il Tempio ‘una spelonca di ladri’ (Mc 11,17). L’odio scatenato da queste sue implacabili denunce è la causa che lo porta alla crocifissione” (S. VITAUNI, Enciclopedia Pastorale IV, p. 4).

Il discorso si dovrebbe allargare a tutti gli apostoli: come non ricordare Giacomo e Paolo, per esempio, che non solo predicano ma organizzano servizi perché la comunità di fede si traduca in una uguaglianza anche sociale. Il messaggio del Nuovo Testamento ci presenta così una diaconia incarnata al servizio di tutto l’uomo; la sua suprema epifania si realizza in colui che dà la vita per la moltitudine, ma si prolunga – non senza difficoltà – in ogni comunità chiamata a vincere, nel Cristo, il peccato e dunque anche ogni forma di povertà e di discriminazione sociale, per realizzare quell’unità in Lui che è la vocazione fondamentale della Chiesa.

 

Il servizio nella prassi pastorale della Chiesa in Italia

La storia della Chiesa è storia di carità e perciò di diaconia, di servizio. Le forme sono diverse e non c’è da stupirsi dell’estrema varietà delle sue manifestazioni. La carità non esiste separata dalle opere di carità e guai a chi parla di carità e non si impegna a realizzarla. “Chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Gv 4,21), “La carità – ricorda Bruno Seveso nel volume già citato – connota la Chiesa nella sua natura più profonda. La sua radicazione sta nel mistero della Trinità e a questo riferimento trinitario deve necessariamente ritornare ogni sua determinazione. Il ‘principio-amore’ sovrintende a tutti i comportamenti e iniziative in cui si esprime il vissuto credente. Con esso è istituita semplicemente la ‘regola’ della vita secondo il Vangelo. La dialettica di fede e carità pone l’esigenza di ‘intrecciare’ la ‘professione della fede’, come principio dell’esistenza della Chiesa e della sua comunione, con la ‘professione dell’amore’. Il senso stesso della verità devo essere rilevato sotto il profilo della carità. La carità è “criterio” e “norma” dell’esperienza di Chiesa” (Ib. p. 13).

Potremo chiederci a che punto siamo nella prassi della Chiesa in Italia. Non allarghiamo troppo il discorso, ma non si può non convenire con gioia che notevoli passi si sono fatti in questi ultimi decenni. Il primato della Parola e conseguentemente la priorità dell’annuncio non è più una stranezza. A questa autentica rivoluzione pastorale è unita anche una rivalutazione della diaconia, del servizio ai poveri, che è sempre stato uno dei caratteri più originali della pastorale in Italia. In guerra e in pace, è alle parrocchie che la gente, bisognosa di un pane o di un nascondiglio, ha bussato. Cosa c’è di nuovo oggi? Una coscienza più diffusa e strutture nuove come la Caritas Italiana, fondata sulla scia della POA nel 1971. Molto ci sarebbe da dire, naturalmente; quello che ci incoraggia di più è la sua preoccupazione pedagogica di educare alla carità e la flessibilità organizzativa. Ma non mancano problemi nuovi che condizionano anche la volontà del servizio. Quali? Sul piano di principio è il collegamento tra progresso sociale e speranza teologale. È sempre attuale il tema del I Convegno Ecclesiale Italiano nel 1976 su “Evangelizzazione e promozione umana”. La ricchezza, il successo, il progresso, la stessa pace, come si raccordano con l’ideale evangelico della povertà, del distacco, della croce? Danielou ritiene che il modo risolutivo sia proprio la carità (Le Chrétien et le monde moderne, p. 72). Un secondo problema ancora più scottante è il rapporto beneficenza e giustizia sociale. Un vero universo ci si apre dinanzi. Al nostro tempo la carità ha preso un carattere istituzionale. Non bastano gli interventi spiccioli, sempre necessari, mai si esige l’impegno nella creazione di strutture capaci di garantire la dignità e non solo la sopravvivenza della gente. Ho proprio l’impressione che questo sia un punto debole della nostra pastorale. Tre note vengono attribuite alla pastorale: evangelizzazione, sacramenti, carità. Bene. Ma cos’è la carità? Il dovere della carità è molto più ampio delle finalità della Caritas! Mi pare molto pertinente quanto scrive B. Seveso: “In questo orizzonte si devono comprendere i rapporti di agire caritativo e lavoro sociale. L’originarietà del titolo della Chiesa a intervenire in campo sociale vi compare con forza. Non sono necessità di supplenza, per l’assenza o la latitanza dello Stato, a giustificare la presenza di formazioni ecclesiali o cristiane in campo sociale, ma le istanze della giustizia, che è espressione della carità. In questa luce l’altro è inteso come soggetto e non come semplice destinatario e fruitore di servizi. E il punto di vista dell’efficienza e delle prestazioni appare come condizione necessaria, ma non sufficiente, della prossimità. La presenza ecclesiale in campo sociale assume in tal senso profilo specifico”.

 

La responsabilità nella Chiesa si misura dal servizio

Tentiamo una rapida sintesi. Nella Chiesa siamo tutti chiamati ad essere responsabili. La responsabilità nella Chiesa si misura dal grado di servizio che siamo capaci di rendere in tutte le direzioni. Sarebbe ben triste che si allargassero le iniziative sul piano della carità materiale e si restringessero poi gli spazi di quella morale e spirituale. Questa è una stagione ecclesiale straordinaria nell’ottica dei servizi. La nuova evangelizzazione offre occasioni senza fine ad una presenza discreta, motivata, per comunicare quanto di più alto c’è nel patrimonio della comunità cristiana e cioè l’annuncio della salvezza in Cristo Gesù. Salvezza anche temporale, come dono di carità e pegno della gloria eterna. La maturazione più esigente nella Chiesa è in tal modo la convinzione di essere chiamati a soffrire. Nel servizio degli altri sta anche la nostra realizzazione. Il servizio della carità cui siamo tutti chiamati non è solo la beneficenza o elemosina ma l’azione per una autentica promozione sociale. La politica, secondo quanto già detto da Pio XI è la forma più alta della carità. Forse i giovani si bloccano quando l’orizzonte proposto è troppo angusto.

Se ogni vocazione cristiana ha bisogno di attingere a questi valori, molto di più chi si prepara a diventare in senso sacramentale ministro, cioè servitore. Il Papa parla ormai di una “fantasia della carità”. Questo non toglie, ma accresce semmai la necessità di trovare i modi e le forme storicamente più corrispondenti per non disperdersi. La vocazione al servizio comporta una fedeltà alla concretezza storica. Non si improvvisa. Ha bisogno di una lenta e severa maturazione, teologia e sociologia devono convergere nella preparazione al servizio soprattutto in quelli che sono chiamati ad essere, per definizione, educatori della maturità cristiana nei fedeli (PO 5). Lo sforzo per costruire la città degli uomini è inseparabile dallo sforzo per costruire la città di Dio.

Facile? Probabilmente no. S. Caterina da Siena chiese un giorno a Gesù: “Signore mio, cosa vuoi che io faccia?”. Risposta secca: “Dà l’onore a me e la fatica al prossimo tuo” (Lettera 104). I nuovi preti, i nuovi consacrati crescono così?