N.02
Marzo/Aprile 2003

Beati coloro che pur non vedendo crederanno

 

 


(Il testo è ricavato da registrazione e non è stato rivisto dall’Autore)

 

Carissime sorelle, carissimi fratelli, nel vangelo di san Giovanni non troviamo le beatitudini, come in Matteo, Luca… abbiamo, però, in Giovanni, due beatitudini su cui vorrei parlare.

La prima beatitudine dopo la risurrezione, quando finalmente Tommaso poté essere presente e vedere Gesù risorto. E allora Gesù gli disse: “Metti il tuo dito nella piaga del mio costato” e poi gli disse: “Beati coloro che pur non vedendo crederanno”. Oggi noi qui stiamo partecipando di questa gioia, di questa beatitudine, di questo essere felici, di questa felicità. E credo che questa beatitudine espressa da Giovanni, da Gesù nel vangelo di Giovanni, è la prima condizione per preparare il cuore dei giovani perché possano ascoltare la chiamata del Signore. Se non c’è una vita di fede profonda, una vita che mostri anche la gioia, la beatitudine di credere, non ci possono essere vocazioni. Quindi questa prima beatitudine descritta dal vangelo di san Giovanni, credo sia la prima condizione, la condizione necessaria perché noi siamo strumenti perché il Signore dia ai giovani la sua vocazione. In questa fede di tante persone, che non hanno visto direttamente Gesù quando era in terra dopo la risurrezione, ma credono, e mostrano la gioia di formare una comunità, questa gioia di essere tutti qui, non pensando unicamente alle vocazioni, al proprio istituto, alla propria congregazione; ma come Chiesa, Chiesa italiana, e come Chiesa universale. Questa gioia di credere e di essere un corpo, di essere questa “congregazione”, questa comunione dei santi… solo se avremo questa forte fede e questo senso di unione, di comunione di santi, potremo essere strumenti adatti per promuovere le vocazioni, sentirsi parte di questa Chiesa. Diceva Caietano, grande commentatore di san Tommaso, che il carisma più grande nella nostra Chiesa è quello di sentirsi parte, parte del tutto, parte necessaria, parte importante, però parte. Senza l’aiuto degli altri, senza la collaborazione con gli altri, noi non formiamo Chiesa. E allora, la grande gioia di questo raduno per la promozione delle vocazioni è proprio questo, di sentirsi parte in questa Chiesa universale, parte nella Chiesa italiana che è parte della Chiesa universale. E nessuno può diventare tutto, nessuno può dire: “Io lavoro per le mie vocazioni”…, perché siamo tutt’un corpo: dobbiamo aiutarci. Allora, ringraziamo il Signore oggi, al vedere questo corpo costituito da tante parti, però che si sentono parte e vogliono fare un solo corpo. Nessuno può costituire tutta la Chiesa, e nessuno può lavorare come parte se non c’è questa partecipazione, questa collaborazione di tutti. Alcune pietre sono più grosse delle altre, ma anche quelle piccole sono necessarie. Alcune non sono pietre, ci sarà il cemento che le mette assieme, questo potrebbero essere i religiosi, i sacerdoti, il Papa: ha il carisma dell’unione, è al servizio dell’unione.

La seconda beatitudine è la beatitudine della lavanda dei piedi. “Beati voi che sapendo queste cose le metterete in pratica”. Beati voi, se sarete servi. Beati voi, se sarete ministri. Beati voi se vi annienterete, se sperimenterete la kenosis per poter servire gli altri. La vocazione è una chiamata al servizio, al farsi come Gesù, all’abbassarsi; lui che era Maestro, Signore, Dio, si abbassa e lava i piedi. San Pietro sente ripugnanza: come può Dio abbassarsi e lavare i miei piedi? In Giappone, nel secolo XX, per quasi cinquant’anni, c’è stato un pittore, uno stampista i cui soggetti erano tutti dell’Antico e del Nuovo Testamento… in un modo meraviglioso, pieno di fede ma anche pieno di inculturazione, attraverso l’arte popolare giapponese, comunica ai Giapponesi, ma anche a noi stranieri, questa spiritualità profondamente cristiana e anche profondamente artistica. Una delle immagini che ha ripetuto tantissime volte è proprio l’immagine di Gesù che lava i piedi agli Apostoli, perché anche lui sente quella commozione profonda che Dio si abbassa e diventa nostro schiavo.

Io credo che noi abbiamo perso il significato spirituale delle parole. Ogni giorno, soprattutto quelli che usano il telefonino, quante volte al salutarsi dicono: ciao, ciao, ciao,… sei, sette volte… e nessuno si ricorda che “ciao” vuol dire “schiavo”, “sono tuo schiavo”. In piemontese non si pronunzia la “sc” (schiavo) allora “ciavo”. Ci avete pensato? È un saluto cristiano, è un saluto con cui Gesù, toccando i piedi degli Apostoli, diceva: Io sono tuo schiavo. Quando ripetiamo, d’ora in poi, questa parola “ciao” pensiamo: Io devo imitare Gesù. Quando dico quella parola, non posso più dirla così come se fosse niente… “Sono cristiano!” vuol dire, e per questo sono schiavo, però schiavo con gioia, perché sto ripetendo un gesto di Gesù che si è fatto schiavo per me. E allora io devo credere che facendo come Gesù ha fatto, anch’io divento divino. Perché sono schiavo, così posso partecipare alla beatitudine, alla gioia che Cristo ha promesso, nella sua beatitudine.

“Ministero”, “minus”, davanti agli altri io mi sento incompetente… “Ministro”, “minus-ter”, qualcuno dice che è tre volte sotto gli altri. Mentre “maestro”, “magis-ter”, è superiore a me… Gesù era superiore, eppure si fa minorenne o quasi “deficiente”, per noi. Abbiamo in tutta la nostra lingua italiana tanti di questi esempi in cui c’è profondamente immerso questo spirito cristiano. Noi non riflettiamo più, eppure dovremmo veramente, se siamo veri cristiani e se vogliamo che il Signore chiami altri a continuare la sua missione, dovremmo vivere queste due beatitudini del vangelo di san Giovanni: fede senza vedere; però fede in un corpo, questo amore per la comunione dei santi… da solo non posso fare niente, ma se sono una parte, anche se piccola, anche se minima, sarò parte della comunione dei santi, sarò parte del corpo di Cristo, sarò inserito nel tralcio della vite. Proprio io-tralcio unito con il tralcio di Cristo, e dal suo cuore passa il sangue e avviene questa trasfusione di sangue. Ma non sono solo io, tutti siamo attorno a quella vite e allora tutti dobbiamo stare uniti con Gesù, perché Gesù possa portare molti frutti anche nei rami.

Queste due beatitudini ci fanno veramente strumenti capaci, strumenti fruttuosi per ottenere dal Signore la grazia di tante, numerose e generose vocazioni. La vocazione non viene da noi, viene dal Signore. Ma vivendo noi l’esempio che ci ha lasciato Cristo lavando i piedi, diventando nostro schiavo, sarà Gesù che chiamerà quelli che lui vuole, quelli che lui ama.

È una visione così bella di Chiesa, di comunione dei santi, e quindi ci riempie di profonda gioia e anche di profonda speranza. Dipenderà molto da noi, se vogliamo servire, essere al servizio delle vocazioni, dipenderà da noi ottenere questa grazia, attraverso la fede profonda, l’unione profonda nel corpo di Cristo, con la Chiesa universale, con la Chiesa nazionale, con la Chiesa locale, sentendosi parte viva, forte, con tutte le altre parti, e soprattutto vivendo questo ideale del servizio, diventando schiavi gli uni degli altri. Vedendo (nel manifesto per la 40a GMPV) l’immagine di Gesù che con le due mani lava i piedi, ho pensato subito alla figura del padre che aspetta il figlio che ritorna. Le due mani dipinte dal Rembrandt: le avete viste? Una mano è la mano di un uomo, del papà, l’altra mano, più piccola, più delicata, è la mano della mamma. Che anche, noi quando laviamo i piedi, cerchiamo di avere una mano forte che possa aiutare – forse alcune volte anche correggere –, ma anche una mano di mamma! Due mani che mostrino la paternità e la maternità del Signore.